Aspettando Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario 2022

di Marco Fortunato


Con il mese di marzo entra nel vivo il lungo e ricco percorso di avvicinamento alla prossima edizione del Pordenone Docs Fest in programma dal 6 al 10 aprile prossimo. Ben 7 gli appuntamenti previsti, tutti arricchiti dalla presenza degli autori e di ospiti speciali.

Giovedì 3 marzo tornerà a trovarci Daniele Gaglianone, autore eclettico la cui carriera si è divisa tra fiction e documentario. Amico di lunga data di Cinemazero Gaglianone ha deciso di concentrare il suo ultimo lavoro sul “tempo rimasto nelle pieghe della vita” da cui il titolo dell’opera Il tempo rimasto. Presentato al Festival di Torino, è un film su dei bambini e dei giovani che ora, con le rughe disegnate sul viso, ritornano indietro, a volte come se fossero di nuovo là dove sono stati. In questa distanza che cerca di annullarsi abita il confronto fra il tempo che resta e quello che resterà. Una riflessione sulla vecchiaia e su cosa si può scoprire guardandosi in questo specchio. Un lungo percorso di ascolto e di incontri attraverso l’Italia, alla ricerca di un mondo “fino a ieri” che a volte appare remotissimo, a volte stranamente presente.

L’evento è organizzato in collaborazione con ZaLab – collettivo di sei filmmakers impegnati nella produzione, distribuzione e promozione di documentari sociali e progetti culturali – che parteciperà anche all’appuntamento successivo, quello del 17 marzo, che vedrà sul grande schermo Radiograph of a family di Firouzeh Khosrovan. La pluripremiata regista iraniana attraverso la sua storia personale e familiare ripercorre i cambiamenti della società iraniana negli ultimi quarant’anni tratteggiando il ritratto di un Paese e delle sue contraddizioni. Figlia di padre laico e madre musulmana praticante, la Khosrovan si sente in qualche modo il “prodotto” del conflitto tra laicità e ideologia islamica in Iran. La relazione dei suoi genitori ha attraversato molti decenni: dall’era dello Scià alla Rivoluzione Islamica, passando attraverso la guerra Iran-Iraq, fino ai giorni nostri. Nella sua famiglia, come in tante altre, gli effetti della rivoluzione islamica hanno influito su ogni aspetto della quotidianità. Mentre il padre continuava ad ascoltare Bach, la madre si dedicava all’attivismo religioso, eliminando da casa le carte da gioco e le foto di donne senza hijab. Attraverso fotografie, lettere e voci dal passato, la regista racconta la sua giovinezza, la storia di una famiglia divisa e di una figlia combattuta. 

Tra i graditi ritorni c’è anche quello di Giovanni Cioni, (a inizio 2020 presentò a Cinemazero Non è un sogno)che introdurrà la proiezione de Il pianeta degli umani recentementeinsignito del Premio per il Miglior lungometraggio al Festival dei Popoli e del Premio Corso Salani al Trieste International Film Festival. Tutto si svolge a Ventimiglia, luogo di frontiera tra la Francia e l’Italia, dove il regista scopre la storia del dottor Voronoff, che prometteva l’elisir di lunga vita. Negli anni 1920 la sua fama fu planetaria. Poi l’oblio. La sua villa sta sopra la frontiera, una frontiera del silenzio…Il passato e il presente si intersecano in un film magico, fatto di immagini dimenticate e di un presente nascosto…dove i migranti non esistono.

Chiude questo ideale viaggio di avvicinamento al festival un’opera prima: I tuffatori di Daniele Babbo, noto anche come Dandaddy, regista di video musicali, programmi televisivi e video sperimentali, che ci porta a Mostar in Bosnia ed Erzegovina. Qui tutti i giorni da duecento anni i tuffatori si lanciano dallo Stari Most, il ponte vecchio costruito nel sedicesimo secolo: una tradizione che si tramanda di generazione in generazione e che non è stata interrotta neppure durante la guerra, nonostante il ponte, nel 1993, sia stato distrutto. Alcuni dei tuffatori portano sul corpo e nella mente i segni del conflitto, mentre i più giovani, alla ricerca del gesto perfetto, pensano al futuro. Una visione intima ed esclusiva sulla vita di un gruppo di uomini che incarnano la storia e i sentimenti del popolo di cui fanno parte.

Per ulteriori informazioni sui film e sugli ospiti è possibile è possibile consultare il sito www.cinemazero.it dove è anche possibile acquistare i biglietti per i singoli eventi che, per chi si accredita al festival, avranno il prezzo speciale di soli 4€ a serata.

Una luce in fondo al tunnel (e cosa fare per non spegnerla, bollette permettendo)

di Marco Fortunato

Ci eravamo lasciati avvolti dal buio – non della sala purtroppo – nel momento più difficile, cinematograficamente parlando, della pandemia. Ci ritroviamo, oggi, a un mese di distanza, con una piccola ma sempre più vicina, luce in fondo al tunnel.

Giorno dopo giorno le presenze sono in costante aumento, le sale si riempiono (qualcuno resta anche fuori!) e il cinema torna ad essere, finalmente, luogo d’incontro e condivisione, frequentato e dunque vivo.

C’è da chiedersi se il peggio è passato ma soprattutto che cosa possiamo fare perché la ripresa possa consolidarsi, durare nel tempo e ridare alla sala cinematografica il ruolo centrale sulla cui importanza tante volte abbiamo riflettuto.

In un convegno di pochi giorni fa organizzato dall’ANEC, Associazione Nazionale Esercenti Cinematografici, sono state evidenziate le criticità ancora esistenti e avanzate delle proposte per superarle che andranno messe in atto il prima possibile.

Per prima cosa è necessaria una chiara road map per il superamento delle limitazioni ancora presenti nel settore, alcune delle quali davvero di difficile giustificazione. La principale è quella dell’obbligo di tracciamento cui ormai restano sottoposti solo i luoghi della cultura. Un vincolo molto pesante a livello operativo che con l’aumento delle presenze rischia di diventare oggettivamente ingestibile. C’è poi il tema della vendita di cibo e bevande per la quale è stata a suo tempo comunicata una data (il 10 marzo) a partire dalla quale sarà possibile riprendere tale l’attività. Non è un problema che riguarda Cinemazero ma interessa una larga fetta di mercato, ma soprattutto è una questione di metodo. Sarebbe opportuno sapere se questa data è confermata anche per consentire la regolarità degli approvvigionamenti. Può sembrare affare da poco ma visti i precedenti – con la comunicazione della sospensione di tale possibilità unita all’introduzione dell’obbligo di indossare le mascherine FFP2 che fu presa nel cuore della notte alla Vigilia di Natale – c’è preoccupazione che ci possano essere dei ripensamenti dell’ultimo minuto in grado di provocare danni economici enormi.

Ultimo, ma non per importanza, il tema delle windows, le finestre di sfruttamento dei film ed in particolare la definizione di un periodo di esclusività per la sala cinematografica di cui tanto si è parlato.

Ancora oggi il settore è sottoposto alla normativa emergenziale – emanata a sale chiuse – dal ministro Franceschini che corrisponde, nei fatti, a una deregulation, all’interno della quale anche per gli addetti ai lavori, è difficile orientarsi. Ciò ha generato grande confusione nel pubblico che non sa più quali film andranno in sala e per quanto tempo. Emblematico che adesso molti poster contengano la dicitura “SOLO AL CINEMA”, proprio per segnalare agli spettatori che quel film non sarà disponibile sulle piattaforme ed evitare così che qualcuno rinunci a venire in sala in attesa di vederlo in altre modalità. Abbiamo più volte detto, e lo ribadiamo, come questa sia forse, di tutte, la questione più importante perché definire un periodo in cui i film possono essere visti solo al cinema significa dare concretezza alla “centralità della sala cinematografica”, concetto troppo spesso ripetuto ma svuotato di contenuto. Ciò influirebbe in maniera determinante sull’offerta cinematografica che in questo mese di febbraio ha dimostrato di essere “la” variabile in grado di determinare il futuro dell’intero mercato. Non dimentichiamo che molti film italiani e le stesse sale cinematografiche sono sostenute dal Ministero della Cultura e per questo ci sembra più che legittimo che proprio quest’ultimo possa dettare, almeno in parte, le regole del gioco.

Il Padrino, cinquant’anni dopo: un’offerta che non si può (ancora) rifiutare

di Paolo A. D’Andrea

La prima parola che salta in mente, riflettendo a cinquant’anni di distanza sul Padrino di Francis Ford Coppola, è congiuntura. Non a caso, un termine che ha un preciso significato economico (si pensi al tedesco Konjunktur) ma è correntemente utilizzato nelle discipline storiche – oltreché, più prosaicamente, come sinonimo di una fortunata coincidenza di eventi. Il capolavoro del regista italo-americano riassume in sé, perfettamente, questa polisemia. Perché, innanzitutto, The Godfather è stata una smaccata, furbissima operazione di marketing, messa in campo perdipiù in un periodo di vacche magrissime per l’industria cinematografica statunitense (42,8% il tasso di disoccupazione, al 1970, tra le manovalanze del settore; 100 milioni di dollari il passivo accumulato dalle produzioni nei primi sei mesi di quello stesso anno). Genio di Robert Evans, discusso production chief della Paramount all’epoca, nell’intuire il potenziale insito nelle bozze confuse di Mario Puzo e nel giocare la carta del film-evento, del colosso destinato – per contenuti e cast – a spaccare (e dunque sedurre) l’opinione pubblica. In secondo luogo Il padrino è l’esito di una lunga serie di rinunce e ripensamenti: voleva dirigerlo e interpretarlo Burt Lancaster, Sergio Leone gli preferì il sogno di C’era una volta in America, rifiutarono Arthur Penn, Peter Bogdanovich, Richard Brooks, Otto Preminger…Toccò a un trentenne, nemmeno troppo convinto e con una serie di insuccessi al botteghino e debiti mica da ridere (citofonare alla Warner) sulle spalle, prendere in mano il progetto e portarlo all’immortalità. Pare sia stato il vice di Evans, Peter Bart, a spingere per Coppola: rendiamogliene merito.

Una volta uscito, Il padrino segna il maggior incasso della storia del cinema. Lo supererà tre anni più tardi Lo squalo di Steven Spielberg. Il successo nelle sale spiega, tuttavia, solo una piccola parte dell’impatto della pellicola: un’opera destinata a sedimentare nell’immaginario collettivo, a modificare non soltanto la percezione collettiva del fenomeno-Mafia, ma a riscrivere anche i termini della rappresentazione che la mafia stessa offre di sé: è possibile pensare a una figura come quella di John Gotti, star criminale degli anni Settanta e Ottanta, senza la mediatizzazione intervenuta nel frattempo grazie (anche) al film di Coppola?

Ma The Godfather è questo e altro. È grande cinema tragico, nel senso prima aristotelico e poi shakespeariano del termine; è, secondo l’intenzione del regista, grande allegoria della “sostituzione” dell’economia del dono (la Famiglia mafiosa e la sua etica, incarnata nel “vecchio” Vito Corleone) con il capitalismo predatorio (la voracità macbethiana di potere di Michael), immagine dell’America nel suo passaggio da Frontiera a Strada ferrata, da spazio anomico a nomos del più forte. È, infine, il ritorno in pompa magna di un’idea retorica, ejzenštejniana, di montaggio (il celeberrimo sintagma parallelo che riunisce la sacralità del battesimo con la ferinità dell’omicidio seriale), il trionfo dell’ossimoro apparente autorialità-intrattenimento.

Tanti, tantissimi gli elementi di cui discutere assieme al secondo appuntamento del Maestro al Microscopio (mercoledì 2 marzo, ore 17:30), la serie di incontri dedicata all’analisi approfondita di pietre miliari della storia del cinema. Nell’atmosfera unica della sala cinematografica, a cinquant’anni di distanza, Il padrino non si conferma soltanto come un film da vedere e rivedere – banalità –, ma quale inestimabile oggetto di studio che ci costringe, per densità, a spaziare dal filmico al sociologico, dall’analisi dell’evoluzione industriale del sistema-Hollywood alla ponderazione sui mutamenti degli immaginari e dei costumi.

Rotterdam: il ruggito della Tigre

di Andrea Crozzoli

È al 146 della Schiedamse Vest, piccola stradina di Rotterdam a pochi passi dal Cinerama della Westblaak, che si trova l’Hopper Coffee. Un piccolo ed accogliente locale dalla calda e gioviale atmosfera. Luogo molto informale con delle magnifiche zuppe bollenti ed eccellenti bruschette su croccanti fette di pane appena sfornato dopo essere stato impastato davanti ai nostri occhi. È una delle soste obbligate durante le intense proiezioni dell’International Film Festival di Rotterdam.

Purtroppo, per il secondo anno consecutivo, anche la 51ma edizione è stata costretta dalla pandemia a svolgersi in remoto. Questo ci ha privato, oltre che dell’Hopper Coffee, anche di quell’allure percepibile solo in presenza, con il calore del pubblico in sala, gli incontri con gli autori, i lavori di giuria, etc etc.. Fortunatamente, nonostante il distanziamento imposto, l’esaustiva sezione ufficiale Tiger Competition ci ha permesso, rimanendo (purtroppo) seduti a casa propria, di effettuare un emozionante, variegato e alquanto esaustivo giro del mondo attraverso le quattordici anteprime mondiali selezionate, di giovani autori alla prima o seconda opera.

L’altro aspetto, infatti, di notevole interesse a Rotterdam è la vocazione verso il cinema giovane, verso le promesse del futuro, che ci permettono di comprendere dove le nuove sensibilità stanno portando l’arte del cinema. Per questo 2022 possiamo sicuramente affermare che il cinema, presente al 51mo IFFR, nel suo complesso, ha stretto un legame sempre più forte con la realtà, col mondo che ci circonda. Non è un caso che il film vincitore del 51mo International Film Festival e del prestigioso Tiger Award (comprensivo anche di € 40.000) sia andato al bellissimo lavoro proveniente dal Paraguay EAMI della regista Paz Encina che, dopo sedici anni dal premio Fipresci vinto a Cannes con Hamaca Paraguaya, ritorna sugli schermi con questo potente, poetico lavoro sulla lenta ma inesorabile sparizione del popolo Ayoreo. Siamo in uno degli ultimi lembi di foresta rimasta nella regione del Chaco in Paraguay che, secondo uno studio dell’Università del Maryland del 2013, subisce il più alto tasso di deforestazione al mondo. Questa catastrofe umana, ambientale e culturale viene raccontata in Eami (che nella lingua degli Ayoreo ha il doppio significato di ‘foresta’ e di ‘terra’ inteso come mondo) con incredibile tatto e con grande senso poetico. La popolazione locale, i bambini, le donne sono ripresi con incredibile sensibilità dalla Encina. Dall’altra parte gli invasori, restano sempre fuori campo, fuori inquadratura; di loro udiamo gli spari dei fucili, l’abbaiare feroce dei cani, il crepitio della foresta che brucia. Questa scelta registica crea nello spettatore un senso di maggiore inquietudine nei confronti di un nemico feroce, che udiamo senza vedere. Assistiamo così coscienti e impotenti, ma non per questo meno colpevoli, alla distruzione degli Ayoreo, di un pacifico popolo dalla profonda cultura ancestrale. La narrazione della Encina rimane costantemente limpida, pulita, profondamente poetica ma anche senza sconti pur nella sobrietà delle immagini che toccano così ancor più le corde dell’indignazione per questo inutile scempio. E la giuria ha giustamente premiato questo sincero lavoro, terminando così la motivazione: “Questo film ci ha dato l’opportunità di sognare e allo stesso tempo la possibilità di svegliarci.”.

Su questa linea di narrazione della realtà la sezione Tiger Competition ha proposto alcuni altri notevoli titoli come il franco-svedese Excess Will Save Us della giovane regista Morgane Dziurla-Petit in cui si racconta di un minuscolo paesello nel nord della Francia che mobilita decine di auto della polizia, dopo una telefonata in cui una donna spaventata afferma di aver udito degli spari e delle grida tipo “Allah Akbar!”. Si risolverà tutto in un misunderstanding in quanto gli spari provenivano da un semplice e ignaro cacciatore di piccioni. Dziurla-Petit, partendo da un’indagine presso la sua famiglia per allargarla poi all’intero paesello, firma un film fresco, a tratti divertente nella messa in scena a volte surreale, con buone soluzioni narrative sempre in bilico tra fiction e doc. Dieci muniti in meno avrebbero forse giovato al ritmo di questo lungometraggio che è figlio a sua volta di un corto del 2019 presentato a ClermontFerrand e in seguito dilatato facendolo diventare un lungometraggio.

Affonda le sue radici nel reale anche il delicato, minimalista, intimo, film messicano Malintzin 17montato da Mara Polgovsky dopo aver, casualmente, ritrovato il girato del fratello Eugenio, scomparso a soli 40 anni. È la storia di un uccellino che cova nel suo nido costruito tra i fili di un palo della corrente elettrica. Un nido a prova di pioggia, smog e quant’altro; con scoiattoli e uomini che corrono e si aggirano senza sosta e senza storia. Eugenio Polgovsky ha filmato tutto ciò per mesi dal balcone della sua casa, interagendo nel contempo con la giovanissima figlia in un rapporto di grande scambio e confidenza. La vita, la sua quotidianità, ripresa nel suo divenire e montata infine dalla sorella Mara in un tenero e toccante tranche de vie.

Un pezzo di vita che ritroviamo anche in The Plains dell’australiano David Easteal che utilizza gli stilemi della docufiction per portarci dentro l’alienazione del protagonista. Siamo nella realtà suburbana di Melbourne e del suo straniante quotidiano, inesorabile ripetersi. Potremmo anche chiamarlo Alle cinque della sera, come la famosa poesia di Garcia Lorca, in quanto è proprio alle cinque della sera che questo avvocato australiano, alle soglie della pensione, esce dal lavoro e torna a casa con la sua automobile in una sorta di coazione a ripetere, caratteristica della natura iterativa del pendolarismo. Easteal cura regia, scrittura, montaggio e scenografia, scandite in sole undici lunghissime sequenze (che si svolgono in stagioni visibilmente diverse), dove in cinque di queste sequenze assume anche il ruolo di compagno di viaggio e collega dell’avvocato. Un insolito e intrigante “road movie ”, dagli aspetti inquietanti in quanto la vita appare unicamente come l’ennesima fatica di svegliarsi, di andare al lavoro e di tornare a casa. Qualcosa di assimilabile al criceto nella sua ruota. The Plains coinvolge e cattura lo spettatore senza annoiare, nonostante le quasi tre ore di proiezione in un solo ambiente: l’abitacolo dell’automobile con gli occupanti ripresi sempre di spalle. Una location che, pur avendo molti precedenti famosi nel cinema, riserva in questo caso nuove piacevoli novità e sorprese. 

Siamo sempre dalle parti del docufiction anche con Proyecto Fantasma del cileno Roberto Doveris. Con quest’opera indie, interpretata dall’ottimo Juan Cano, e girata tutta nell’appartamento di proprietà del regista stesso, si dipanano situazioni ed episodi realmente accaduti a Doveris nel corso del tempo. Il film mette in scena questo giovane aspirante attore in cerca di scritture e progetti sui quali spendersi. Doveris recita anche nel film, oltre a curare la regia, per offrire una rappresentazione ancor più veritiera e autentica dello stile di vita odierno dei giovani, non solo cileni, cresciuti sotto gli effetti di youtuber, di influencer e di una sessualità fluida vissuta nell’assoluta normalità e senza particolari problemi. Sessualità fluida che ritroviamo anche in Kafka for Kids dell’israeliano Roee Rosen, un pittore, artista, regista che ha tra le sue più grandi passioni proprio Kafka e il suo romanzo più famoso “The Metamorphosis”. Con un impianto visivo che potrebbe anche ricordare, per certi versi, Georges Méliès, con scenografie di cartone e gli attori parte integrante di oggetti come il paralume o il cuscino, Rosen sembra rivolgersi ad una specie di tv dei ragazzi dove i bambini però sono adulti. A due terzi il film vira dall’impianto surreale e naif a indagine documentaristica sui modi in cui la giovinezza viene definita dalla legge militare israeliana nei territori occupati. Infatti i territori occupati offrono una doppia legge: i coloni sono governati secondo la legge israeliana mentre i palestinesi sono sotto la legge militare, con una definizione quindi molto diversa. Analoga fluidità la ritroiviamo anche nel caustico Met mes dell’olandese Sam de Jong. Un film ultra pop, dai colori sgargianti, iperrealisti, con grandangoli molto spinti e movimenti di macchina frenetici. Con un insolito e originale punto di vista della macchina da presa in soggettiva con la pallina del gioco del volano. Macchina da presa che vola così da una racchetta all’altra in questa storia di coltelli e bugie (come sempre dalle gambe corte) per raccontare il frenetico mondo dei giovani d’oggi, che vivono fluidamente, senza obsoleti tabù o inibizioni. Alla fine il protagonista, però, verbalizzerà il suo più grande desiderio: «Vivere senza Internet!».

In bilico fra documentario e fiction il film cinese Silver Bird and Rainbow Fish di Lei Lei, un’emergente giovane regista di Pechino che mescola diversi livelli visivi e narrativi: dallo stop motion in cui modella dell’argilla, a riprese di vecchie foto di famiglia, a filmati documentari e animazioni pop-art, il tutto per esplorare temi come la memoria e la sua percezione. Ne risulta un avvincente e affascinante percorso sulla potenza della nostalgia, sentimento che fonde una forte storia familiare con la storia del paese in un’ambientazione potente ed evocativa, durante uno dei più cruciali momenti storico/politico della Cina  di Mao.

Sempre dalla Cina anche To Love Again opera prima del giovane regista Gao Linyang, già apprezzato sceneggiatore. Il trentunenne Linyang con incredibile maturità ha scritto e diretto questo film che affronta le vicende di una coppia della terza età nella Cina odierna. Come tutte le coppie che hanno un lungo vissuto alle spalle anche i protagonisti di questa storia devono fare i conti col loro passato, trascorso nella Cina negli anni ’80, e col presente dove i riti sono sempre collettivi: dal matrimonio ai funerali. La scrittura e la regia di questo film alternano sapientemente momenti drammatici e situazioni più leggere, tanto da far credere, alla fine, di essere quasi difronte a un documentario. Un curioso contrappunto, nell’ambientazione cinese del film, è rappresentato dalla colonna sonora di sapore occidentale che richiama alla memoria gli splendidi accordi di chitarra di Ry Cooder in Paris Texas. Il film ha vinto il premio Fipresci 2022 [giuria composta da: Diego Faraone (Uruguay), Ana Sturm (Slovenia), Andrea Crozzoli (Italia), Essam Zakarea (Egitto) e Ronald Glasbergen (Olanda)] con la seguente motivazione: “un’osservazione tenera e struggente di due anime profondamente ferite, un ritratto di una generazione ossessionata dai traumi del passato e uno spaccato di vita delizioso e agrodolce della quotidianità di una coppia di anziani nella Cina contemporanea”.

Un festival, quindi, complessivamente giovane, vivace, curioso, contaminato, per raccontarci un mondo in continuo divenire, fluido, ondivago, dove ancora una volta, però, il cinema si rivela strumento essenziale e attendibile di narrazione, documentazione e riflessione.