Conoscere il cinema di Pier Paolo Pasolini

Dal 10 marzo al Centro Studi di Casarsa 5 incontri e proiezioni su Pier Paolo Pasolini

“Conoscere il cinema di Pier Paolo Pasolini” torna al Centro Studi di Casarsa dal 3 marzo, grazie al sostegno di Comune e Regione e in collaborazione con Cinemazero. Lezioni e proiezioni curate da studiosi ed esperti del linguaggio cinematografico dell’intellettuale friulano condurranno il pubblico dentro l’ultima sua produzione, che dalla “Trilogia della vita”, che celebra il corpo e l’immediatezza di una vitalità perduta, porta infine all’abiura di questa visione, per tornare con lo sguardo sull’attualità più bruciante del degrado umano.

La prima ispirazione di Pasolini in questa fase, dopo la stagione cifrata del cinema d’élite, è il recupero del mondo popolare come protagonista dei suoi film, scegliendo di narrare vicendeche scaturiscono da prepotenti pulsioni corporali legate soprattutto al sesso, eletto a emblema 
della vita. L’ispirazione sono i grandi autori e i testi del passato: si comincia dal Boccaccio del “Decameron” (1971), film in programma il 3 marzo, introdotto dalla lezione “L’elegia del corpo ritrovato” curata da Luciano De Giusti, docente di Storia e semiologia del cinema all’Università di Trieste. Quindi si prosegue con “Il tramonto orientale di una trilogia”, titolo dell’incontro curato il 10 marzo da Paolo D’Andrea, cultore della stessa materia all’Università di Trieste, prima della visione de “Il Fiore delle mille e una notte” (1974). Per passare poi alle storie narrate da Chaucer nei “Racconti di Canterbury”, che Pasolini mise in forma cinematografica nel 1972, proiezione presentata a Casarsa il 17 marzo dal giornalista Alessandro Mezzena Lona con una prolusione dal titolo Sesso a Canterbury, un sogno (disperato) di libertà
”. Gli ultimi due appuntamenti seguono l’evoluzione del cinema di Pasolini laddoveil sogno del passato felice trascolora nuovamente nell’immediatezza della realtà e quindi nell’incubo ferale dell’ultimo film, involontario congedo dallo spettatore, al quale resta aperto l’interrogativo su ciò che sarebbe potuto venire dopo. Il 24 marzo Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile dell’Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna, presenterà tre proiezioni: “12 dicembre” (1972), film restaurato dalla Cineteca nel 2014 e rieditato in versione integrale, “Le mura di Sana’a” (1971-74) e “Pasolini… e la forma della città”, nell’incontro dal titolo “Filmare il degrado dell’Italia”. Infine il 31 marzo la proiezione sarà dedicata all’ultimo film pasoliniano ovvero “Salò o le 12 giornate di Sodoma”, introdotto ancora da Alessandro Mezzena Lona nella lezione “Salò, dove la Ragione chiude i corpi dentro un lager”.

Tutti gli incontri sono aperti al pubblico e avranno inizio al Centro Studi alle 17, con iscrizione obbligatoria (12 euro, con attestato di partecipazione) fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Info: 0434 870593. www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it

King Vidor 8 1/2

alla 70 Berlinale

di Lorenzo Codelli

«King Vidor non ha mai smesso di andare al cinema e Fellini era tra i registi che ammirava maggiormente. Vidor riteneva che gran parte dei film fossero autobiografici, e negli anni ’70 aveva concepito un progetto rimasto sulla carta e ispirato a 8 1/2 di Fellini: “A un certo punto della sua carriera a Hollywood un regista non vuole più realizzare film che non esprimano le proprie idee personali. Si sente responsabile nei confronti del pubblico e decide così di fermarsi. Alla ricerca della propria anima ritorna nella piccola città natia e il film si basa soprattutto su questa ricerca […] Lo girerò in gran parte nel mio ranch. Ranch e fattorie sono sempre state le mie location preferite“». Così racconta Kevin Brownlow – che ha frequentato a lungo il regista di Alleluia (1929)  –  nel bel catalogo King Vidor pubblicato in inglese e tedesco in occasione della retrospettiva della 70 Berlinale (1). In effetti, fino dai suoi primi film muti, come il pamphlet socialista The Other Half (1919) o il western evangelico The Sky Pilot (1921), Vidor afferma con estremo vigore le proprie idee, una valanga di idee. Nel 1920 dichiara: «Credo nel cinema che porta un messaggio all’umanità». Martin Scorsese intitola “Un sogno di progresso sociale” il suo saggio per il catalogo berlinese, ricordando che Duello al sole (1947) era stato il primo film che aveva visto da bambino: «Con un Technicolor febbrile, i primi piani, l’incessante moto dinamico dall’inizio alla fine». Scorsese si dichiara d’accordo con Raymond Durgnat, l’eminente storico inglese: vitalità, dinamismo, ritmo, ottimismo, stanno alla base dell’universo vidoriano. «King Vidor è infinitamente interessante e coinvolgente. Per me è una fonte continua d’ispirazione», conclude Scorsese. Se poi capita, come a Berlino, di vedere o rivedere una quarantina dei suoi classici, capolavori o opere dimenticate, perlopiù proiettati in pellicola a 35mm, si raggiunge l’estasi! Un solo esempio, Passaggio a Nord-Ovest (1940). L’epopea d’un plotone di ranger nordamericani, durante la guerra coloniale del 1759, in marcia forzata per sterminare la tribù degli Abnaki alleata con le truppe francesi. La brutalità fisica dell’azione è pari alla selvaggia bellezza dei boschi, dei fiumi, delle montagne. Abbaglianti i toni marrone, blu, verde, del Technicolor d’epoca. Spencer Tracy, capo dei guerriglieri, incarna – siamo nel 1939/40, e il film è tratto da un bestseller scritto due anni prima da Kenneth Roberts – un ibrido tra Hitler, Stalin e Roosevelt. Un uomo forte (dixit Morando Morandini), loquace quanto manesco. Vidor lo esalta e lo critica incessantemente. Gli espliciti, sanguinari atti di barbarie sferrati contro i pellirossa preannunciano certi film di denuncia sul genocidio dei primi americani che arriveranno una decina d’anni più tardi. Nell’amore/odio tra il bellicoso ranger del carismatico Tracy e il raffinato pittore laureato ad Harvard che l’accompagna per immortalarne le gesta (il pacifico attore Robert Young) si concentra la fertile duplicità di King Vidor, autore provocatorio e contemplativo, infuocato e lirico.

  • A cura di Karin Herbst-Meßlinger e Rainer Rother, edizioni Bertz-Fischer/Stiftung Deutsche Kinemathek, 252 p., illustrazioni.

Non solo fiori!

Al cinema con Neda Day per festeggiare l’8 marzo: le battaglie vinte e quelle ancora da combattere 

di Manuela Morana

In occasione della Giornata Internazionale della donna, l’usanza più diffusa a livello internazionale è quella di rendere omaggio alle donne con fiori o piccoli regali. Ma non basta. “Nonostante siano stati raggiunti numerosi traguardi –  afferma Taher Djafarizad, presidente dell’associazione pordenonese Neda Day – nel mondo esistono ancora enormi disparità sessuali: diversità salariali, difficoltà di accesso alla vita politica ed economica, bassi livelli di istruzione, scarsità di cure sanitarie e diffusa violenza. L’8 marzo diviene così un’occasione per festeggiare le battaglie vinte e ricordare quelle ancora da combattere“.
Si rinnova perciò anche quest’anno a marzo la collaborazione tra Neda Day, protagonista di importanti e decisive battaglie per la rivendicazione di diritti e delle libertà delle donne, Cinemazero e il Comune di Pordenone nella proposta di una proiezione-evento che consenta di conoscere e comprendere il valore della ricorrenza dell’8 marzo con la visione di un’opera d’autore. 
In programma a Cinemazero giovedì 5 marzo, alle ore 20:45 ci sarà il documentario Alla mia piccola Sama. Approdato sullo schermo dopo aver raccolto un successo straordinario al Festival di Cannes 2019, e diretto da Waad Al-Kateab con Edward Watts, Alla mia piccola Sama racconta la storia devastante della guerra civile siriana dal punto di vista di una manifestante che vive ad Aleppo, sogna di rovesciare il regime di Assad e assiste all’arrivo di una democrazia liberale. Lo sguardo è quello di Waad Al-Kateab, una studentessa di economia dell’Università di Aleppo che dal 2011 per cinque anni filma la distruzione di una città e dei sogni di chi la abita. “All’inizio col telefonino filmavo tutto – ha dichiarato in una intervista Waad Al-Kateab -, non avevo un piano. Ma non volevo che ciò che avveniva venisse dimenticato. Mandavo materiale a Channel Four sulla situazione ad Aleppo. Poi ho iniziato a filmare e documentare in maniera più strutturata perché volevo che mia figlia un giorno avesse la possibilità di rivedere tutto questo. Non mi sento solo una regista. A volte penso a me come a un’influencer delle ingiustizie“. Il film non ha vinto il premio come miglior documentario agli Oscar a febbraio, ma la sua forza narrativa è talmente potente da sconvolgere e commuovere intere platee a ogni proiezione, come poche altre opere, fino ad ora realizzate, hanno saputo fare. 
La proiezione-evento del 5 marzo sarà accompagnata dall’intervento di Taher Djafarizad che offrirà la sua testimonianza rispetto ad alcune drammatiche realtà di violenza ai danni di molte donne oggi e che sono oggetto di impegno quotidiano e riflessione da parte di Neda Day sia a livello locale che nazionale. Tra queste, quella subita da migliaia di donne curde. 

Berlinale DOCS

Fra conferme e delusioni, un’edizione luci e ombre

Di Riccardo Costantini

Si sa, ci sono anni in cui “tutte le ciambelle riescono col buco”, e altri in cui è complicato servire anche un toast. Certo che da un festival come Berlino, alla sua 70° edizione e con un’ottima svolta generale impostata dal neo-direttore Carlo Chatrian (con un manipolo di valorosi italiani al suo seguito), ci si aspettava molto di più. In particolare, la sezione Forum, che quest’anno compiva 50 anni e che da sempre è stato territorio di sperimentazioni originali e provocatorie, ha deluso molto le aspettative, con lavori spesso al limite dello stilisticamente scorretto (inquadrature a camera fissa con urto accidentale della macchina, salti d’asse dissennati, montaggio di minuti e minuti completamente inutili…). Difficile, dalla selezione di Forum, per quel che abbiamo potuto vedere, salvare alcuni lavori.

Altro discorso merita il concorso internazionale. Il premio per il miglior documentario è andato a Irradiated di Rithy Panh, da anni uno dei grandi maestri dell’uso della materia reale per realizzare film: il suo lavoro, articolato in un trittico – fisicamente tripartito a schermo – di assoluta originalità visti anche i contenuti, affronta il dolore fisico e psicologico che la guerra “irradia” su chi le è sopravvissuto. Un film, purtroppo, eternamente attuale, che merita davvero il premio ricevuto. Peccato, appunto, che il resto non fosse all’altezza di questo lavoro. Un menzione fa fatta di sicuro per l’originale – e a tratti poetica (ma scontata negli esiti) – storia della scrofa Gunda (che da titolo anche al film raccontata da un altro grande del documentario come Victor Kossakovsky, in cui i protagonisti umani – artefici, ovviamente, di crudeli destini – sono relegati fuori da 90′ minuti di puro mondo animale, in bianco e nero e ad altezza bestie. Colpiscono invece, e non per sola similità di temi, due lavori dedicati alla disforia di genere: Petit Fille di Sébastien Lifshitz e Always Amber di Lia Hietala, Hannah Reinikainen. Nel primo la protagonista è una bambina, che in realtà all’anagrafe è Sasha, di sesso maschile, ma da sempre, univocamente, femminile in tutto e per tutto. Con grande delicatezza il film affronta la vicissitudine della protagonista e della sua famiglia, pronta ad amare incondizionatamente e accogliere senza giudizio, con rispetto e partecipazione nelle difficoltà di tutti i giorni, aiutando la bimba – di soli 7 anni – ad affrontare le complessità che regole, usi e costumi le impongono ogni giorno. Una toccante storia d’amore allargata, familiare, che in qualche modo assomiglia a quella di Amber – invece ragazza -, che vive in altra età disagi simili, legatissima al suo amico Sebastian, a sua volta protagonista delle stesse problematiche, ma a sesso invertito. Una vicenda piena di dolcezza e momenti di pura bellezza, in cui davvero nelle storia d’amore e di amicizia che si sviluppano nel corso della vicenda di Amber la definizione netta del sesso (per noi abitualmente elemento fondativo del nostro esistere) diventa completamente secondaria.

Di rilievo anche Aufzeichnungen aus der Unterwelt, l’ultimo lavoro di Tizza Covi e Reiner Frimmel, da noi noti per lo splendido La pivellina: la loro ultima fatica è dedicata alla scena artistica/musicale underground viennese degli anni ’60, con un sapiente uso di uno strumento principe del documentario, le interviste.

Il resto, in particolare per quel che concerne Forum…meglio non pronunciarsi, e invitare i selezionatori a fare un lavoro migliore per il 51° anniversario, sicuri che non sarà certo un anniversario tondo mancato a rovinare il lavoro di mezzo secolo.