Diario di un giurato di campagna

di Andrea Crozzoli

Nel 2021 grazie alla pandemia, in Italia abbiamo avuto complessivamente poco meno di 25 milioni di presenze al cinema (con un calo del 12% rispetto al 2020 e del 74,6% rispetto al 2019). Sempre nel 2021 la Francia ha totalizzato, invece, 96 milioni di presenze al cinema, con un più 47% rispetto al 2020. Lo slancio della ripresa delle presenze in sala nei cinema d’oltralpe si è accentuato a fine 2021 con il mese di dicembre che ha registrato quasi 21 milioni di presenze.

In un mese, quindi, i francesi hanno avuto quasi le stesse presenze di un anno di cinema in Italia. Tutto ciò evidenzia l’ottimo stato di salute delle sale francesi e quindi del potere che l’esercizio cinematografico riesce ad esercitare in Francia.

Non per nulla Cannes è praticamente l’unico dei grandi festival cinematografici a rifiutare ogni contaminazione con le piattaforme. Anche il buon Tom Cruise, tornato sulla Croisette a distanza di quasi quattro decadi con il nuovo Top Gun: Maverick, ha pubblicamente ribadito il suo amore per la sala cinematografica e la sua avversione per le piattaforme dichiarando testualmente: «Non succederà mai che i miei film non vadano in sala.».

Forti quindi dei quasi cento milioni di presenze annue, i gestori delle sale francesi riuniti nell’AFCAE (Associazione Francese Cinema Art Essai) hanno chiesto, da qualche anno, al direttore del Festival di Cannes Thierry Frémaux, uno spazio per approntare una qualificata giuria e premiare un film d’Art e d’Essai da promuovere poi nelle sale francesi. Dopo cinque edizioni del premio, per il 2022 hanno voluto dar maggiore peso e prestigio al premio rendendo la giuria internazionale. Infatti quest’anno sono stati chiamati a ricoprire il ruolo di giurati, oltre ai francesi Caroline Grimault dello storico cinema Katorza di Nantes ed Emmanuel Papillon del Louxor di Parigi, anche Daira Abolina dello Splendid Palace di Riga in Lettonia, Mohammad Lansari, direttore della Cinémathèque di Tangeri in Marocco ed il sottoscritto. Lavoro impegnativo e di grande responsabilità quello della giuria in un Festival importante come Cannes, che nel 2022 è ritornato alle sue date abituali (maggio) ed agli antichi fasti in presenza dopo due anni pandemici di sospensione.

Da mercoledì 18 a venerdì 27 maggio si sono susseguiti in maniera incalzante ben 21 film della selezione ufficiale in concorso spalmati nei dieci giorni, molti con una durata di oltre due ore. Negli interstizi non sono mancate tre riunioni di giuria, sparse lungo il percorso, per discutere su quanto si vedeva scorrere sullo schermo. Gli inviti alle proiezioni erano gestiti direttamente dall’AFCAE che consegnava i biglietti quotidianamente per il giorno seguente, con proiezioni previste alle 8.30 del mattino, ma anche nel pomeriggio o alla sera, quando bisognava ‘obbligatoriamente’ indossare la “tenue de soirée” compreso il rituale “papillon”. Un ritmo serratissimo ha caratterizzato quindi questa 75ma edizione del Festival di Cannes.

Già alla prima riunione, concordemente, si è stabilito di concentrare la nostra attenzione, non tanto, ovviamente, sui gusti personali, ma su quei film, sempre d’art e d’essai, che potessero richiamare il pubblico in sala. La ricca e variegata selezione, operata da Frémaux, tutte anteprime mondiali, comprendeva tra gli altri: gli habitué di Cannes come i fratelli Dardenne con Tori et Lokita tenera e tragica storia di due giovani di colore in cerca di integrazione nell’odierno Belgio; l’altro habitué di Cannes Arnaud Desplechin con Frere et soeur, ovvero un’insieme di tormentati vizi privati della borghesia francese con una Marion Cotillard fin troppo struggente; altra scoperta di Cannes il regista Tarik Saleh, svedese di nascita ma di origine egiziana, che in Boy from Heaven racconta, in maniera serrata, una storia di corruzione e delitti in una scuola coranica egiziana. Come non pensare al caso Regeni difronte agli intrighi e politica che percorrono il chiuso mondo islamico; il giallo Holy Spider/Les nuits de Mashhad dell’iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi che racconta la tribolata indagine di una giornalista (la bravissima Zar Amir- Ebrahimi) per incastrare un serial killer che voleva ripulire la città santa di Mashhad dalle prostitute. Ne ucciderà 16 prima di venir assicurato alla giustizia. Un thriller tratto da un fatto realmente accaduto che il regista usa per raccontare soprattutto la precaria e vituperata situazione della donna in Iran.

Alla seconda riunione di giuria, con due terzi dei film (14 su 21) già visti, l’attenzione unanimemente si è concentrata su quattro titoli che in vario modo corrispondevano alle caratteristiche che ci eravamo prefissati: EO dell’ottantaquattrenne cineasta polacco Jerzy Skolimowski, titolo onomatopeico per indicare il verso dell’asino protagonista del film. Un asino di razza grigia sarda, che viene trasportato dalla Polonia all’Italia, compiendo un singolare viaggio fra varia umanità. Un film visionario, con l’occhio dell’animale su cui il regista fa riflettere paura e curiosità, mai odio o risentimento, riservati quest’ultimi agli umani. Una toccante metafora autoriale su come l’umanità sia destinata al suicidio. Altro film che si era imposto all’attenzione, R.M.N. del rumeno Cristian Mungiu, titolo ermetico che sta, sia come consonanti di Romania, che per Risonanza Magnetica Nucleare. Mungiu con la sua perfetta e conosciuta regia autoriale evidenzia come i problemi del suo paese sia analoghi a quelli di un qualsiasi altro paese europeo: ovvero la resistenza mista a diffidenza verso l’altro, verso chi viene da fuori, con gli inevitabili conflitti che si innescano quando l’identità viene messa in discussione. Magistrali i 17 minuti di camera fissa sull’assemblea popolare che si svolge nel paesello rumeno per decidere che cosa fare.

Altro titolo preso in considerazione Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi, con gli allievi dell’omonima scuola di teatro diretta da Patrice Chéreau negli anni ottanta. La regista, italiana ma di adozione francese, racconta con forza e verità i suoi inizi, le sue aspirazioni, i suoi timori e firma uno dei suoi film più belli e sinceri. Chéreau in Francia è una figura iconica sia nel teatro che nel cinema.

Quarto titolo che aveva colpito l’intera giuria in maniera favorevole: Triangle of Sadness di Ruben Östlund, regista dissacrante e ironico (già premiato con una Palma d’Oro nel 2017 per The Square) che firma una sarcastica metafora sull’avidità. Ma cos’è il “triangle of sadness” (triangolo della tristezza) del titolo? È quella piccola porzione della nostra fronte, poco sopra le sopracciglia. Muscolo che i modelli e le modelle irrigidiscono per sembrare sexy quando si mettono in posa. Al centro di questo ‘triangolo della tristezza’ Östlund inserisce tutte le derive paradossali della società capitalista: le sue regole rigide, la sua impostazione gerarchica e classista, i suoi pregiudizi, le sue assurdità. Quasi una ricerca sulla bruttezza dietro la presunta bellezza. Ne risulta un’opera divertente e graffiante apologo dai tempi comici impeccabili, una satira sociale sui diversi personaggi: dai vacui influencer, agli arricchiti oligarchi e trafficanti di armi. Una crociera di super lusso molto cafonal e quando tutto comincia ad andare storto, il film esplode in una grandinata di travolgente satira umoristica sul potere dei soldi, sull’ostentato agio della loro bolla dorata che che il regista svedese fa continuamente scoppiare. Ma la discussione si arresta in quanto mancano ancora all’appello dei possibili outsider fra i quali Hirokazu Kore-Eda in gara con Broker/Les bonnes etoiles, Claire Denis con Stars at Noon e Lukas Dhont con Close. In totale altre sette pellicole compresi l’iraniano Saeed Roustaee con Leila’s Brothers, il portoghese Albert Serra con Pacification e l’ivoriano Léonor Serraille con Un petit frere.

Al termine della maratona, ultima riunione di giuria la sera di venerdì 27, unanime la delusione per Kore-Eda nella sua trasferta coreana dove firma un’operina esile e dal sapore vagamente tradizionalista e reazionario in cui l’unico vero riferimento indicato nel film è la famiglia tradizionale con padre e madre. In Broker/Les bonnes etoiles, a tratti imbarazzante, spicca soplo l’attore di Parasite il gioviale Song Kang-ho. Anche Lukas Dhont, dopo la bella prova di Girl, non è all’altezza delle aspettatiove con Close dove narra, con risvolti autobiografici, i sofferti travagli ormonali di due tredicenni e la loro amicizia molto “close”. Ma Cannes segue e alleva il suo vivaio di giovani talenti e nel cuore del Festival il regista belga Lukas Dhont sembra prendere il posto lasciato dal franco- canadese Xavier Dolan ormai avviato ad una sua carriera.

Infine, dopo un’ampia e articolata discussione, la giuria AFCAE all’unanimità decide di assegnare una Menzione Speciale Cinemas Art & Essai a EO di Jerzy Skolimowski, un film la cui audacia estetica e visione globale ha stregato l’intera giuria. Un’opera moderna, ambiziosa e creativa che aiuta a esplorare la complessità dell’umanità di fronte a un pianeta in difficoltà. Un’esperienza cinematografica, originale, radicale e innovativa.

Mentre il premio Cinemas Art & Essai 2022 viene unanimemente assegnato a Triangle of Sadness di Ruben Östlund, un film che unisce talento estetico ed emozione politica. Un film in grado di riconciliare il pubblico (anche quello più raffinato) con il cinema in sala.

Un’opera shock, una satira politica corrosiva che fa luce sui problemi di un mondo impazzito. Un ritratto graffiante di una società autodistruttiva e avida che ha fatto ridere ma anche riflettere in maniera mai banale.

Il giorno seguente, sabato 29 maggio, Vincent Lindon, presidente della giuria ufficiale del 75mo Festival di Cannes, ha assegnato la Palma d’Oro a … Triangle of Sadness di Ruben Östlund e il premio della giuria a EO di Jerzy Skolimowski.

Essere copiati ci inorgoglisce!

PASOLINI100! – Dagli archivi della Mediateca di Pordenone verso il mondo intero

Nel centenario dalla nascita, la figura di Pier Paolo Pasolini è al centro di iniziative che superano i confini nazionali. Grazie alla collaborazione tra Cinemazero e Cineteca di Bologna, è stata inaugurata il 14 maggio a Timişoara, al Museo Nazionale del Banato, la mostra fotografica “Uno sguardo nel futuro“, con l’obiettivo di far conoscere al pubblico romeno la figura di Pasolini e le sue principali esperienze personali, culturali e professionali.

L’esposizione, che sarà aperta fino al 31 luglio, è organizzata dalla Società Dante Alighieri e dall’Associazione Culturale Fucina Italica Francesco Griselini di Timişoara, su iniziativa del pordenonese Marco Posocco, che opera da diversi anni nella città romena. Si tratta di un evento completamente inedito per Timișoara e per l’intera Romania, di preparazione e lancio nel più ampio contesto di Timișoara Capitale della Cultura Europea 2023.

Timişoara è stata la prima città romena nella quale si sono riversati gli investimenti e le vite di migliaia di italiani dopo la Rivoluzione del 1989, ma i contatti tra la comunità italiana e quella romena del Banato risalgono a molto tempo prima e affondano le radici nella comune origine latina. Oggi vi sono due importantissimi presidi linguistici della lingua italiana: la cattedra di Italianistica, nell’ambito della Facoltà di Lettere, Storia e Teologia presso l’Universitatea de Vest, e il Liceo Jean Louis Calderon.

La città racchiude in sé molti tratti diversi: città romena, dove i banateani si mescolano agli olteni, moldavi e transilvani; ma anche città serba, ungherese, italiana, tedesca, macedone, ebrea, armena, bulgara; città austro-ungarica, ma che porta anche i segni e i lasciti dell’Impero ottomano; città industriale, ma anche polo di riferimento agricolo e, infine, città di servizi avanzati. A partire da questa identità plurale è nata l’idea di una mostra che metta al centro l’ecletticità di Pier Paolo Pasolini, accostando la sua figura alla città romena.

La mostra di Timisoara si inserisce in un ricco percorso di collaborazioni internazionali per il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini a cui partecipiamo grazie al fornito archivio della Mediateca di Cinemazero.

Un percorso partito a marzo a Lubiana con la mostra fotografica “Pasolini 100!”, sempre in collaborazione con la Cineteca di Bologna, dedicata alla vita e al cinema di Pasolini all’interno dei locali della Slovenska Kineteca. Un viaggio tra fotografie rare e d’archivio che accompagna il pubblico sloveno, insieme ad una retrospettiva cinematografica, tutta in magnifiche copie in 35 mm, attraverso tutta la carriera del regista, scrittore e poeta di adozione friulana.

Da Lubiana, ci spostiamo ad Amburgo con la Galerie der abseitigen Künste e il doppio volume dedicato a Pasolini e Gideon Bachmann e voliamo fino a Melbourne, dall’altra parte del mondo.

Nella capitale della cultura e patria del cinema australiano l’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne propone una retrospettiva integrale sulla poesia della “realtà” del cinema pasoliniano con un percorso attraverso varie sezioni dove i suoi film sono confrontati a quelli di altri autori che lo hanno ispirato o che si sono ispirati alle sue opere.

La Mediateca di Cinemazero si conferma uno spazio di cultura, condivisione e diffusione del patrimonio audiovisivo, aperto, non solo alla realtà pordenonese ma verso il mondo intero.

Italiani “brava gente”? 30 film per conoscere, studiare e capire l’Italia coloniale, postcoloniale e decoloniale

di Riccardo Costantini

Un festival dovrebbe avere ricadute di lungo periodo. Al contrario, oggigiorno molte delle kermesse e iniziative culturali, quasi come se fosse il loro statuto, quasi come se dovessero esservi obbligate in nome di logiche “consumistiche”, organizzano incontri, coinvolgono ospiti, propongono approfondimenti che vivono nel tempo effimero della manifestazione, lasciando poco di concreto nel tempo al pubblico e al territorio in cui operano. Un epoca afflitta dalla festivalite, dove se le cose non hanno il carattere di eccezionale e di episodico, non hanno valore.

Al contrario, da sempre Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario “utilizza” il cinema del reale come strumento potente di riflessione sull’attualità, sulla società, sulle contraddizioni e sugli aggiornamenti possibili del modo di intendere il presente. I film che porta in Italia in anteprima, spesso, vengono distribuiti – con contenuti aggiuntivi prodotti ad hoc – in Italia, per far sì che sia un lavoro che dura, diffuso e a beneficio di molti. Allo stesso modo il festival produce libri, video, DVD… Senza ambizioni eccessive, ma con l’idea di fornire elementi utili, spunti, talvolta provocazioni, che nel lungo periodo possano continuare a fermentare, suggerire percorsi alternativi e diventare approfondimenti.

In questa occasione si vuole riflettere sul nostro passato coloniale. Il nostro Paese non è fra quelli che lo hanno molto rinegoziato – soprattutto in termini di studi e occasioni culturali di ripensamento – e probabilmente anche per questo la nostra società non è sempre in grado di essere al passo con altri paesi europei per capacità di vivere il presente, necessariamente multiculturale: consegniamo a operatori culturali, docenti, interessati un inventario filmico del cinema italiano coloniale (gli anni ‘30 e ‘40 e il fascismo), postcoloniale (dagli anni ‘50 agli anni ‘70) e decoloniale (dagli anni ‘80 ad oggi), perché possano utilizzarlo liberamente nei cammini di “visione” che vorranno organizzare o vivere. Restituire la “vista” a qualcosa che non abbiamo voluto – e continuiamo a non volere – guardare.

Il percorso, che trovate consultabile a questo link, è curato da Federico Rossin (vedi più sotto per il suo profilo biografico) con l’usuale qualità e originalità, e ha avuto come momento visibile una retrospettiva di alcuni titoli per l’edizione del festival 2022, con alcuni eventi di punta: su tutti l’intenso incontro di approfondimento con Leonardo De Franceschi su un film fondamentale come “Il nero” (Giovanni Vento, 1967) e la proiezione di Silvia Zulu (Attilio Gatti, 1928), con la colonna sonora composta e suonata da Bruno Cesselli appositamente per il festival a Cinemazero. Per le ragioni più sopra espresse, si vuole che il percorso si possa appunto offrire nel tempo come utile strumento di ricerca, di scelta “di visioni e sguardi” (giusti, scomodi, rari…) da offrire anche in contesti educativi, magari usufruendo delle risorse (DVD e libri) della Mediateca di Cinemazero. Anche per questo abbiamo deciso di offrire questo strumento in rete e non solo nella sua versione cartacea.

Documentario, come servizio per una crescita sociale: uno dei nostri obiettivi.

Federico Rossin è storico e critico del cinema. Ha scritto saggi pubblicati in numerosi volumi collettivi ed è autore di tre libri monografici. Curatore indipendente, ha progettato numerose retrospettive per cineteche, festival e fondazioni in Europa (Filmmuseum a Vienna, Cinémathèque Française a Parigi, Cinéma du réel a Parigi, DocLisboa di Lisbona, ecc; Fondazione Feltrinelli 21 a Milano). Vive, lavora e insegna in Francia.

L’eterno servo di Joseph Losey

di Paolo A. D’Andrea

Tarda primavera del 2004. Secondo anno delle medie. È ancora l’era di MTV: tenersi aggiornati sulle ultime uscite discografiche significa sedersi in poltrona, di fronte a un televisore, e ascoltare e guardare assieme, strascicati dal susseguirsi di immagine acustiche di un videoclip. Un brano inglese tiene banco. A un adolescente, ben più che armonia e melodia, rimangono impresse le movenze sincopate di chi lo canta. Si chiama Dan Black, è il front man. Il singolo, Liquefy. La band, The Servant.

Ho scoperto così Il servo di Joseph Losey, a tredici anni. Black aveva scelto quel nome con l’intenzione dichiarata di omaggiare il suo film preferito. I The Servant, purtroppo, si dileguarono di lì a breve: meteore. Il dimenticatoio è un posto affollato; ivi convivono l’alto e il basso. Losey, da questo punto di vista, è un loro compaesano. Il dimenticatoio di qualcuno, tuttavia, è molto spesso l’immaginario di qualcun altro – e per fortuna: appassionati, critici e studiosi il regista del Ragazzo dai capelli verdi non l’hanno scordato, anzi. Mentre scrivo, ho sotto gli occhi Senza re, senza patria: il cinema di Joseph Losey, un saggio curato da Luciano De Giusti ed edito da Cinemazero, esito cartaceo di una memorabile edizione dello Sguardo dei maestri. Mentre scrivo, ripenso a quanto è stato bello rivederlo, Il servo, su grande schermo, restaurato, lo scorso 16 maggio in sala Totò, nel contesto di un’iniziativa che proprio dallo Sguardo dei maestri riprende il nome e – in piccolo, umilmente – l’eredità.

Joseph Losey nasce nel 1909 a La Crosse, Wisconsin. All’High School locale, condivide la classe con Nicholas Ray. All’università, dapprima tenta la strada della medicina; il vento della sua passione più grande – il teatro – lo condurrà tuttavia, di lì a breve, verso altri lidi. Negli anni Trenta, talento precoce, è già una figura di spicco del teatro politico newyorkese. Assecondando una fede politica mai sopita e giammai rinnegata, nel 1935 intraprende un viaggio di studio in Unione Sovietica. A Mosca, frequenta i seminari di regia di Sergej Ejzenštejn, conosce Bertolt Brecht. Il drammaturgo e poeta tedesco sarà una figura chiave per la sua formazione artistica. Tra il 1946 e il 1947 i due si ricongiungono a Los Angeles; lavorano a un grande allestimento di Vita di Galileo. Nei panni del fisico pisano, il grandissimo Charles Laughton. Il 30 luglio 1947 è il giorno della prima, al Coronet di Beverly Hills. Esattamente tre mesi più tardi, Brecht sarà convocato a Washington dalla Commissione per le attività antiamericane. Lascerà gli Stati Uniti il giorno successivo.

Nella primavera del 1951, la caccia alle streghe tocca anche Losey. Iscritto al Partito comunista degli Stati Uniti dal 1946, è da tempo un osservato speciale. Nel 1948 è approdato al cinema. L’esordio prende le forme di un piccolo film in Technicolor, un poetico apologo pacifista, alquanto didascalico (Il ragazzo dai capelli verdi); nel 1951 la sua firma compare su tre pellicole: un intelligente remake di M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (M) e due capolavori del noir americano, Sciacalli nell’ombra e La grande notte. Proprio durante le ultime fasi di montaggio di quest’ultimo, deciderà di abbandonare gli Stati Uniti: l’aria, dopo la pronuncia del suo nome da parte di un teste in Commissione, si è fatta irrespirabile.

Tra il 1951 e il 1952 è in Italia, gira Imbarco a mezzanotte per la United Artists. I titoli di testa ci informano che la regia è di Andrea Forzano, ma è una copertura. Nel gennaio del 1953 si stabilisce a Londra. In Regno Unito, la sua carriera conoscerà una rinnovata fortuna. Un altro uomo di teatro, dopo Brecht, segnerà questa fase: Harold Pinter, un discepolo di Beckett, maestro della commedia psicologica e dello slow burn, con un gusto particolare per il grottesco. L’incontro fra due personalità apparentemente distantissime – Losey un prodotto dell’Ivy League, Pinter il figlio talentuoso di un modesto sarto dell’East End londinese; Losey un cinquantenne, Pinter un trentenne; Losey un regista barocco e melodrammatico, Pinter un drammaturgo trattenuto e allusivo – genererà tre film straordinari: Il servo (1963), L’incidente (1967) e Messaggero d’amore (1971).

Tony Mounset (James Fox), un annoiato rampollo della vecchia aristocrazia inglese, assume un maggiordomo-tuttofare (Dirk Bogarde) per gestire una nuova proprietà nel quartiere di Chelsea. Il sottoposto, con modi via via più serpentini, sovverte lentamente la gerarchia, trasformando la casa nel campo di battaglia di un’atavica lotta di potere. Questo il canovaccio attorno al quale ruota Il servo. È facile, a prima vista, riconoscervi il côté marxiano di Losey, sostanziato in un’allegoria del conflitto di classe. La visione del regista americano, tuttavia, è del tutto priva di quell’afflato escatologico – in fin dei conti, cristiano – che Karl Löwith correttamente rilevava nella filosofia della “salvezza comunista” di Marx: la lotta di classe per Losey non è il viatico nella strada della pace sociale, ma un’impasse eterna e sanguinosa, dalla quale nessuno esce vivo.

La dialettica servo-padrone è traslitterata nelle forme del barocco. Gli specchi segnalano identità e ruoli scissi, le scale sovvertimenti gerarchici, le ombre il gioco delle maschere. L’erotismo riconduce alla politica delle pulsioni, all’etica del dominio territoriale: il sesso come surrogato della masturbazione e non viceversa (Groddeck), come disciplina tattica in zona di guerra, per l’affermazione personale sul nemico. All’epoca, la descrizione inacidita di un’alta borghesia perversa e decadente parve un riflesso dell’attualità: il 1963, per gli inglesi, è l’anno dell’affare Profumo. Più profondamente, il tema dello straniero che si introduce in terra d’altri e sconvolge – anche sessualmente – gli encori è una filiazione tragica: alla sua fonte stanno le Baccanti di Euripide – torneranno utili anche a Pasolini per Teorema e il suo Terence Stamp-Dioniso. Di qui l’universalità che ci sentiamo di attribuire al Servo.

Tutto considerato, è forse la dimensione del gioco quella più adatta ad accorpare le istanze tematiche del film. Un gioco bambinesco, dunque spietato. Nella casa vuota, le suppellettili diventano le pedine della partita a scacchi tra i due contendenti. Non vi sono vincitori né vinti, al termine del massacro. Dacché quell’universo chiuso – da cui la cinepresa di Losey fuoriesce soltanto tre, significative volte – è tanto microcosmo quanto prigione. Dentro, ci siamo anche noi spettatori, intrusi per eccellenza nelle storie altrui, impotenti – quindi sconfitti – nel gioco del cinema da-per sempre. All’uscita – paradossale uscire da un film che è una teoria sull’impossibilità di farlo –, qualcuno si sarà chiesto qual è il senso del tour de force di Hugo Barrett. Qual è la finalità. Baudrillard risponderebbe che, se il gioco avesse una qualsiasi finalità, il solo vero giocatore sarebbe il baro.