La grande abbuffata

di Lorenzo Codelli

Innumerevoli cineteche internazionali hanno reagito al periodo di chiusura forzata immettendo sui rispettivi siti on line tesori d’ogni epoca, genere, lunghezza. Una profusione così abbondante da rendere sovrumano qualsiasi censimento. Limitiamoci ad un piccolo florilegio ad libitum.

La Filmoteca UNAM di Città del Messico propone classici restaurati appartenenti al periodo d’oro del cinema messicano accompagnandoli con interviste e retroscena. Ad esempio La otra (1946) di Roberto Gavaldón, un capolavoro noir degno di Hitchcock. El poder en la mirada (2018) di José Ramón Mikelajáuregui, l’epopea della rivoluzione messicana tramite immagini d’epoca. «Fantasías y pandemia», una rassegna di fantahorror premonitori.

La Fondazione Cineteca Italiana di Milano offre il secondo film diretto da Riccardo Freda, 6×8/48 alias Tutta la città canta, una farsa canora con Nino Taranto iniziata nel 1943 e portata a termine nel 1945. Milano ’83, il personalissimo pamphlet di Ermanno Olmi. Amor pedestre (1918) di Marcel Fabre, un esperimento esilarante. Femmine folli (Foolish Wives, 1921), del genialissimo autore e divo Erich von Stroheim…

Il Maysles Documentary Center di Harlem, New York, un’istituzione attivissima creata nel 2005 dal leggendario documentarista Albert Maysles, ha in cartellone una miriade di reportages in collaborazione con festival, siti specializzati e autori impegnati nel sociale. Le opere giovanili di Pawel Pawlikowski, i non-fiction di Penny Lane, la première di Stalking Chernobyl: Exploration After Apocalypse (2020) di Iara Lee…

La Filmoteca de Catalunya di Barcellona regala la personale di Pere Portabella realizzata in stretta collaborazione con il novantunenne regista e esponente politico catalano. L’avanguardista autore di opere acclamate quali Cuadecuc, vampir (1971), con Christopher Lee, Nocturno 29 (1968), Die Stille vor Bach (2007)…

La Cinémathèque Française di Parigi ha creato il sottosito «Henri» – in omaggio al fondatore Henri Langlois – per esporre incunaboli di Abel Gance, René Clair, Paul Nadar, Henri Georges Clouzot, Raoul Ruiz. Gioielli dello studio Albatros, rifugio parigino degli esuli russi capitanati dal grande Ivan Mosjoukine. I godardofili non perderanno due backstage di Jacques Rozier dal set de Il disprezzo, interpretato dagli immortali BB e Michel Piccoli…

La Cineteca di Bologna, in attesa di varare la 34 edizione del Cinema Ritrovato, anticipa prelibati «fuori sala». Pathé a colori, Chaplin esordiente, reportages di Luca Comerio e Giovanni Vitrotti, corti di Marcello Baldi e Raffaele Andreassi. Una perla rara: Guida per camminare all’ombra (1954) di Renzo Renzi, l’illustre storico del cinema e fellinologo della prima ora…

Il National Film Institute di Budapest raccoglie in bell’ordine un battaglione di mirabili capolavori diretti da maestri magiari quali István Szabó (Il colonnello Redl, 1984), Zóltan Fábri (Venti ore, 1965), il pioniere Sándor (Alexander) Korda, István Gaál, Miklós Jancsó, Sándor Sára, Pál Gábor (Angi Vera, 1978), Károly Mákk, Péter Bacsó, oltre a cartoni animati, cicli monografici…

La Cineteca del Friuli di Gemona, Cinemazero di Pordenone e il Visionario di Udine propongono su «AdessoCinema» una serie di documentari realizzati o conservati sul nostro territorio in varie epoche e restaurati dall’Archivio Film del FVG. Gloria: apoteosi del soldato ignoto (1921) della Federazione Cinematografica Italiana, Grappoli d’oro (1957) di Elio Ciol e Riccardo Castellani, Dongje il fogolar (1962) di Giorgio Trentin, FMM: Fellini, Mastroianni, Masina (1985), un inedito di Gideon Bachmann dalla collezione di Cinemazero, Prime di sere (1993) di Lauro Pittini, La città di Angiolina (2010) di Gloria De Antoni e Oreste De Fornari…

“Con assoluta determinazione”

Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                                 sentieri di cinema!

Di Andrea Crozzoli

Da tempo immemore la destra in Italia ha una palese carenza di intellettuali d’area.

Situazione che permette, ad esempio, al buon Sgarbi, nonostante gli eccessi e i turpiloqui, di rimanere al suo posto, sotto l’ala del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano.

Situazione di carenza che riemerge anche in questo frangente in cui devono, “con assoluta determinazione”, occupare tutti i posti disponibili. A prescindere.

Ecco, quindi, che per nominare il nuovo direttore del Torino Film Festival (nomina dal 2024 in quanto questa edizione 2023 viene conclusa da Steve Della Casa), il Comitato di Gestione del Museo del Cinema di Torino redige un bando che prevede un solo anno di contratto e nemmeno la certezza assoluta dell’assegnazione effettiva dopo la scelta. Questo per renderlo non certo appetibile ai grandi nomi del girone festivaliero. In più il buon Ministro Sangiuliano, protagonista, suo malgrado, di infiniti meme ironici sui social, si prodiga per sostenere la candidatura di Giulio Base (classe 1964, laureato in Lettere Moderne e Teologia) gradito anche a Giorgia Meloni. Sponsorship di assoluto peso, quella Ministro, che ha immediatamente portato Base al soglio di direttore del Torino Film Festival 2024. Un festival, quello torinese, secondo per importanza solo alla Mostra del Cinema di Venezia, che ha avuto nella sua lunga e gloriosa storia direttori come Gianni Rondolino, Alberto Barbera, Nanni Moretti, Paolo Virzì, Gianni Amelio etc.. Quindi una poltrona appetibile per l’attuale governo.

Dopo la fumata bianca uscita dal conclave del Comitato di Gestione, lo stesso ha diffuso subito un comunicato nel quale si dichiara: «Il presidente Enzo Ghigo ci tiene ad affermare con assoluta determinazione che questa scelta è avvenuta esclusivamente valutando i meriti del candidato e non è stata in alcun modo condizionata da valutazioni esterne.».

Excusatio non petita, accusatio manifesta direbbero i più colti, oppure prosaicamente la prima gallina che canta ha fatto l’uovo per commentare questa, non necessaria, preventiva giustificazione: tutti sapevano già come sarebbe andata a finire.

Ma con “assoluta determinazione” si dichiara che non è stata la forte sponda della politica romana a sospingerlo ma i meriti. Meriti che vanno dall’aver diretto come regista 29 film fra cui Poliziotti (1995), Il pretore (2014), Il banchiere anarchico (2018), oltre a varie regie per il piccolo schermo come Padre Pio.Tra cielo e terra (2000), Maria Goretti (2003) 47 episodi di Don Matteo, etc.. Ulteriore illuminante dettaglio, sempre in odor di incenso: la società di produzione di sua moglie, Tiziana Rocca, si chiama Agnus Dei. È stato anche attore Giulio Base, il ruolo per cui è ricordato è la sua comparsa in Caro Diario (1993) di e con Nanni Moretti. Una piccola, fugace apparizione la sua in una scena cult. Base è a bordo di un’auto, fermo al semaforo, Nanni Moretti gli rivolge il famoso monologo “Io credo nellepersone, però non credonella maggioranza dellepersone: mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza.”. Un momento indimenticabile del film che Base, con sguardo stralunato, chiude con un “vabbé!”.

I malpensanti sussurrano che Giulio Base non ha nel suo curriculum né significative pubblicazioni a tema cinematografico, né specifiche esperienze nell’organizzazione di festival, ovvero due dei quattro requisiti espressamente richiesti dal bando per il ruolo di direttore. Ma «l’assoluta determinazione» del presidente Ghigo sgombra il campo ad ogni dubbio. Eppure a noi sembra che organizzare un festival di ampio respiro e di prestigio come quello di Torino richiede, più che l’aiuto del buon Dio, una specifica esperienza nel settore. A Rotterdam, ad esempio, la nuova direttrice Vanja Kaludjercic è esperta di mercato della coproduzione internazionale e responsabile delle acquisizioni per Mubi, una manager della cultura con vasta esperienza organizzativa, preparata e in grado di tessere rapporti transnazionali.

Tutta la vicenda torinese appare, a prima vista, come l’ennesima conferma che in Italia i bandi sono farlocchi e le nomine decise da chi sta al potere. «Propongo di ritirare gli artigli e di essere giudicato per il lavoro che farò!» ha dichiarato ecumenicamente Giulio Base, nel tentativo di stemperare il vento della polemica sempre pronto a soffiare. Ed è quello che faremo, senza pregiudiziali ma anche senza sconti.

Berlinale DOCS

Fra conferme e delusioni, un’edizione luci e ombre

Di Riccardo Costantini

Si sa, ci sono anni in cui “tutte le ciambelle riescono col buco”, e altri in cui è complicato servire anche un toast. Certo che da un festival come Berlino, alla sua 70° edizione e con un’ottima svolta generale impostata dal neo-direttore Carlo Chatrian (con un manipolo di valorosi italiani al suo seguito), ci si aspettava molto di più. In particolare, la sezione Forum, che quest’anno compiva 50 anni e che da sempre è stato territorio di sperimentazioni originali e provocatorie, ha deluso molto le aspettative, con lavori spesso al limite dello stilisticamente scorretto (inquadrature a camera fissa con urto accidentale della macchina, salti d’asse dissennati, montaggio di minuti e minuti completamente inutili…). Difficile, dalla selezione di Forum, per quel che abbiamo potuto vedere, salvare alcuni lavori.

Altro discorso merita il concorso internazionale. Il premio per il miglior documentario è andato a Irradiated di Rithy Panh, da anni uno dei grandi maestri dell’uso della materia reale per realizzare film: il suo lavoro, articolato in un trittico – fisicamente tripartito a schermo – di assoluta originalità visti anche i contenuti, affronta il dolore fisico e psicologico che la guerra “irradia” su chi le è sopravvissuto. Un film, purtroppo, eternamente attuale, che merita davvero il premio ricevuto. Peccato, appunto, che il resto non fosse all’altezza di questo lavoro. Un menzione fa fatta di sicuro per l’originale – e a tratti poetica (ma scontata negli esiti) – storia della scrofa Gunda (che da titolo anche al film raccontata da un altro grande del documentario come Victor Kossakovsky, in cui i protagonisti umani – artefici, ovviamente, di crudeli destini – sono relegati fuori da 90′ minuti di puro mondo animale, in bianco e nero e ad altezza bestie. Colpiscono invece, e non per sola similità di temi, due lavori dedicati alla disforia di genere: Petit Fille di Sébastien Lifshitz e Always Amber di Lia Hietala, Hannah Reinikainen. Nel primo la protagonista è una bambina, che in realtà all’anagrafe è Sasha, di sesso maschile, ma da sempre, univocamente, femminile in tutto e per tutto. Con grande delicatezza il film affronta la vicissitudine della protagonista e della sua famiglia, pronta ad amare incondizionatamente e accogliere senza giudizio, con rispetto e partecipazione nelle difficoltà di tutti i giorni, aiutando la bimba – di soli 7 anni – ad affrontare le complessità che regole, usi e costumi le impongono ogni giorno. Una toccante storia d’amore allargata, familiare, che in qualche modo assomiglia a quella di Amber – invece ragazza -, che vive in altra età disagi simili, legatissima al suo amico Sebastian, a sua volta protagonista delle stesse problematiche, ma a sesso invertito. Una vicenda piena di dolcezza e momenti di pura bellezza, in cui davvero nelle storia d’amore e di amicizia che si sviluppano nel corso della vicenda di Amber la definizione netta del sesso (per noi abitualmente elemento fondativo del nostro esistere) diventa completamente secondaria.

Di rilievo anche Aufzeichnungen aus der Unterwelt, l’ultimo lavoro di Tizza Covi e Reiner Frimmel, da noi noti per lo splendido La pivellina: la loro ultima fatica è dedicata alla scena artistica/musicale underground viennese degli anni ’60, con un sapiente uso di uno strumento principe del documentario, le interviste.

Il resto, in particolare per quel che concerne Forum…meglio non pronunciarsi, e invitare i selezionatori a fare un lavoro migliore per il 51° anniversario, sicuri che non sarà certo un anniversario tondo mancato a rovinare il lavoro di mezzo secolo.


«L’Italia sullo schermo» di Gian Piero Brunetta

Intervista con lo storico del cinema

Di Lorenzo Codelli

Da parecchi lustri il nostro amico Gian Piero Brunetta, infaticabile colonna dell’ateneo padovano, riscrive, aggiorna, rimette in discussione la propria Storia del cinema italiano, una bibbia apparsa in diverse versioni. Ha pubblicato ora L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale (Carocci Editore, 368 p.), una raccolta che spazia dalle tematiche del Risorgimento a quelle dell’attualità. Il regista Marco Tullio Giordana ammira in Brunetta «la capienza dello sguardo d’assieme, la capacità di iscrivere singoli film e autori nel grande flusso generale, come un esperto capace di ritrovare le acque degli affluenti nel grande fiume tranquillo che corre verso il mare». Abbiamo posto a Brunetta alcune domande.

Sfatare i miti è compito dello storico. Lo fai ad esempio per l’immagine di  Caporetto, così come per quella di Mussolini e delle sue imprese militari in Africa e in Spagna.

Sono uno storico che ama confrontarsi con le forme e metamorfosi del mito, ma in molti capitoli del libro, ho voluto vedere sotto luci, sfaccettature e misure di scala diverse le immagini  che costituivano mitologie legate alle sconfitte o ai trionfi bellici.  Caporetto in realtà si è  fissata nella memoria  come sinonimo di catastrofe in assenza di immagini  rappresentative di fonte italiana. Le uniche esistenti sono di parte tedesca e puntano a sottolineare, più verbalmente che visivamente, la diserzione e la viltà dei soldati e dell’esercito italiano in fuga. I vincitori non entrano in scena a Caporetto. Quanto alle immagini della conquista dell’Impero e della partecipazione alla guerra di Spagna  mi è sembrato che l’analisi dei testi non restituisse nulla di eroico o trionfale, ma mettesse in evidenza i limiti della potenza militare italiana alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il periodo aureo del neoorealismo lo descrivi in controluce, senza isolare cioè i maestri famosi.

In effetti degli autori del neorealismo mi sono occupato a lungo nelle mie opere precedenti, qui mi interessava mettere in evidenza il prevalere di un senso del Noi che guida  il percorso della rinascita nazionale e internazionale del cinema del dopoguerra, sia per quanto riguarda i soggetti del racconto che gli autori e la capacità del nostro cinema nel suo insieme di cogliere ed evidenziare, nel bene e nel male, caratteri identitari forti dei nuovi protagonisti della storia repubblicana visti nel loro muoversi incerto e in ordine sparso verso nuovi orizzonti europei.

Malgrado l’oggettività braudeliana del tuo approccio trasmetti spesso sprazzi di nostalgia per i bei tempi dei Fellini, Scola, Monicelli ecc.

Più che nostalgia è il senso di perdita di non pochi elementi connettivi del cinema italiano del dopoguerra che ne hanno fatto insieme una bottega artigiana, un luogo di condivisione, interazione  e  dialogo, e uno spazio unico di riconoscimento e riconoscenza nei confronti di alcuni padri e di vasti rapporti di parentela stilistica, narrativa, ideale e ideologica.

Com’è cambiata la metodologia storiografica nel corso dei decenni?

Si è passati attraverso varie fasi: la prima era fondata sul ricorso  alle incertezze e vuoti della memoria da parte di giornalisti che  cercavano di mettere  in ordine le loro conoscenze e ricordi, poi si è passati  ai primi veri tentativi di affrontare il cinema, nato da pochi decenni, con gli strumenti dello storico (penso per tutti a Pasinetti, Sadoul e Mitry). Nelle loro storie entrano strumenti di tipo positivistico e accumulativo ma anche strumenti più maturi di tipo connettivo e capaci di usare diversi tipi di fonti e di osservare la storia nel suo aspetto globale e interconnesso sia dal punto di vista dell’evoluzione linguistica che delle strategie economiche. Quando ancora le fonti filmiche erano pressoché off limits per lo storico sono state importanti le doti di serendipity e di abduzione, che hanno consentito, con pochi esempi filmici a disposizione di interpretare insiemi più generali. Oggi uno storico dispone di strumenti facilmente accessibili grazie alla rete e alle diverse piattaforme, inimmaginabili per la mia generazione. Il cinema del passato è riemerso progressivamente ai nostri occhi come il regno di Atlantide. La crescita delle discipline universitarie e la legittimazione della materia sul piano scientifico hanno aperto in questi ultimi decenni non poche strade nuove e consentito un vero scambio di metodi e informazioni sul piano internazionale.

Scrivendo dei film italiani post-2000 ti dimostri molto ottimista.

Mi dimostravo ottimista quando ho scritto quelle pagine agli inizi del millennio. Il paesaggio è molto cambiato, ma per quanto mi è stato possibile vedere anche negli anni che hanno preceduto questo arresto importante di tutte le attività produttive e dell’esercizio mi sembra che  sia sempre possibile imbattersi in film che fanno venire a persone come me la voglia di andare al cinema in sala, ma anche di vederlo in qualsiasi formato e di avvertire la voglia di tornare a scriverne, perché quel film  a vari livelli, di regia, di racconto, di recitazione, di scrittura, di effetti speciali, di usi dei suoni e rumori, ti ha trasmesso segnali di vitalità significativi. Grazie ancora a non pochi film di questi anni avverto ancora l’orgoglio di  dichiararmi cittadino del cinema italiano.

Su quali fonti potranno basarsi gli storici a venire?

In questi mesi di coronavirus è cresciuto in maniera malthusiana il rapporto con la rete sia in nuove forme attive che passive.  Alcune cineteche, che in passato erano inaccessibili come Fort Knox, ora consentono a tutti l’accesso ai loro tesori e non solo agli storici. Molte cineteche avevano già da tempo messo in rete la loro collezione di riviste e i loro archivi, e nel giro di qualche decennio gli storici potranno godere della possibilità di esplorare  diversi strati di fonti con ottiche sempre più comprensive e interdisciplinari con una semplice connessione e l’uso di una password. Nuove enormi praterie, dalle dimensioni smisurate, possono ancora aprirsi agli storici delle nuove generazioni, quando tutto questo sarà finito.