Le sfide di Hazanavicius

di Andrea Crozzoli

«Predire è un’arte difficile, soprattutto quando parliamo del futuro!» risponde sorridendo così Michel Hazanavicius a chi gli chiede di vaticinare sulla crisi della sala cinematografica. Regista cult della nuova generazione, di origini lituane ma nato e cresciuto a Parigi, è a Gorizia per ritirare il premio Amidei 2022 all’opera d’autore e per seguire l’omaggio che la manifestazione gli ha riservato. Fattosi conoscere in Francia con le due parodie sull’agente segreto più famoso del mondo: OSS 117: Le Caire, nid d’espions (2006) e OSS 117: Rio ne répond plus (2009), Michel Hazanavicius è esploso a livello mondiale con i cinque Oscar vinti con The Artist (2011), sentito omaggio al cinema muto che, oltre ai premi ottenuti dai due attori, ha ricevuto tra gli altri il premio per il miglior film ai Golden Globes 2012, il premio come miglior regista ai BAFTA 2012 e il premio come miglior film e regia ai César 2012. Proporre un film in bianco e nero, muto è stato un atto d’amore verso il cinema ma anche un azzardo produttivo che rischiava di essere un flop. Girato negli Stati Uniti in sei settimane The Artist ha goduto di una pioggia di Oscar e un successo internazionale che hanno cambiato la vita al regista. Cambiamento  che Hazanavicius, in maniera ironica e distaccata ma estremamente lucida, sintetizza così: «Vincere l’Oscar radicalizza il tuo rapporto con il pubblico e la critica. Chi ti stimava poi ti adora. Chi non ti stimava poi ti odia!». Ma Michel Hazanavicius ama osare, spiazzare, percorrere sentieri non convenzionali. Anomala figura nel panorama autoriale d’oltralpe, la sua smodata cinefilia lo ha portato a ripercorrere il cinema attraverso remake, rivisitazioni, rielaborazioni dei diversi generi cinematografici: dallo spionaggio, con il già citato agente OSS117, al cinema muto e ora all’horror. Ad ottobre, infatti, vedremo sugli schermi italiani il suo nuovo film Coupez (Final Cut) che ha inaugurato a maggio il 75mo Festival di Cannes. Fedele remake di Zombie contro zombieOne Cut of the Dead di Shinichirou Ueda, il film di Hazanavicius è uno scatenato divertissement che ricorda a tratti la frenesia dello stile slapstick già peraltro omaggiato in Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World) del 1963 di Stanley Kramer. Va ricordato che Zombie contro zombieOne Cut of the Dead di Shinichirou Ueda venne presentato in anteprima, nel 2018, all’udinese Far East Film Festival, riscuotendo un incredibile successo. Non un film sull’horror, quello di Hazanavicius, ma un atto d’amore nei confronti del fare cinema, il racconto di un film sul film, la celebrazione di tutto quel sottobosco del cinema horror di serie B costretto a condividere spazi e tempi per un obiettivo comune. Un mondo capace di far emergere punte di genialità e solidarietà dove c’era solo incomprensione. «Il punto di contatto fra film e pubblico sono gli attori – ha dichiarato a Gorizia Hazanavicius – puoi fare il più bel film ma se gli attori non sono all’altezza il messaggio non passa al pubblico!». Non è un caso quindi la scelta di Romain Duris, eccellente attore di culto in Francia (nella sua vasta filmografia troviamo anche Tutti i battiti del mio cuore) nel ruolo portante del frenetico e convulso regista che in Coupez (Final Cut) deve girare questo horror in maniera “veloce, economica e dignitosa”. Duris riesce alternativamente a essere aggressivo e titubante, vittima degli eventi e artefice dl proprio destino, ottimo interprete e pessimo attore, in definitiva quasi un avatar dello stesso Hazanavicius che, comme d’habitude, utilizza anche la moglie Bérénice Bejo. Ma non basta, trova qui spazio anche per sua figlia Simone (nel film è la figlia di Romain Duris). Al centro di tutto c’è però l’amore e la passione per il cinema, sapientemente stemperate in una risata liberatoria davanti a quest’opera che si pone tra il buono e il buonissimo. Qui siamo più vicini al secondo a nostro modesto avviso. Ma Michel Hazanavicius ama le sfide, lo spiazzamento, le sorprese e a Gorizia ha annunciato il suo prossimo lavoro: «Sono una persona molto regolare. Lavoro ogni giorno dalle 10.00 alle 18.00. Scrivo sempre ascoltando musica. La musica è importante. Leggo molto, mi documento. Ora sto preparando un film di animazione sulla shoah. Vedremo!» conclude sorridendo.

Lo chiama(va)no Trinità

di Paolo D’Andrea

Il 2022 è l’anno dei centenari. Su tutti, per ovvi motivi, spiccano quelli di Pier Paolo Pasolini e di Ugo Tognazzi; un poco svantaggiati dalla concorrenza quelli del “nostro” Damiano Damiani – nativo di Pasiano di Pordenone – e di Mauro Bolognini. In verità, un altro classe ’22 si sbraccia dalle retrovie: è quell’Enzo Barboni, alias E.B. Clucher, autore di alcuni dei più amati film della coppia Bud Spencer-Terence Hill, dal seminale Lo chiamavano Trinità (1970) a Non c’è due senza quattro (1984).

In un Paese che ancora fatica a fare i conti col suo cinema popolare, Barboni è spesso e volentieri relegato nel limbo dei registi che a cavallo tra gli anni settanta e ottanta conducono il film di genere nostrano ai suoi esiti più crassi e ridanciani. Se da un lato gli si attribuisce il merito di aver codificato una delle coppie cinematografiche più fortunate e remunerative degli ultimi cinquant’anni [1], dall’altro gli si riconosce tutt’al più un onesto professionismo, un inelegante ma efficiente artigianato. Quest’approccio pregiudiziale, invero e in generale assai limitato e limitante, non solo squalifica una carriera cominciata ben prima dell’exploit degli anni settanta, ma svilisce l’intelligenza e la novità dell’operazione parodica messa in campo con il dittico di Trinità. Con largo anticipo rispetto a Mel Brooks, il cui Mezzogiorno e mezzo di fuoco (Blazing Saddles) uscirà soltanto nel 1974, Barboni realizza la più compiuta e penetrante dissacrazione del western – americano e nostrano – che la storia del cinema ricordi.

Fratello minore di Leonida Barboni – uno dei maggiori “bianconeristi” del dopoguerra, collaboratore storico di Pietro Germi –, Enzo frequenta il set dall’età di vent’anni. Come operatore ha modo di partecipare alla lavorazione di capisaldi della Hollywood sul Tevere quali Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) e Ben-Hur (Id., 1959) di William Wyler, oltre a Spartacus (Id., 1960) di Stanley Kubrick. Come direttore della fotografia in proprio, lega il suo nome soprattutto allo spaghetti-western: portano la sua firma due capolavori di Sergio Corbucci, Django (1966) e I crudeli (1967), ma ci permettiamo di segnalare in questa sede anche due gioiellini misconosciuti quali The Bounty Killer (1966) di Eugenio Martin e Un treno per Durango (1968) di Mario Caiano. L’esordio alla regia è segnato dal crepuscolare e tragico – nel senso greco del termine – Ciakmull – L’uomo della vendetta (1970), del quale cura anche la fotografia debitrice delle atmosfere post-apocalittiche di Django: il film sarà tuttavia eclissato dal successo di Lo chiamavano Trinità, uscito nello stesso anno.

  Come ha intelligentemente osservato Alberto Pezzotta, Trinità è percorso da uno spirito rabelaisiano: una forma di realismo grottesco in primis, una vena carnascialesca di capovolgimento in secondo luogo. L’incipit parla chiaro: il protagonista non conduce un cavallo, ma è condotto da un cavallo; non si presenta fiero e ieratico, ma sudicio e dormiente. Un’immagine, più di ogni altra, esplicita l’intenzione: quella che inquadra una vacca sul tetto della locanda ove si ristora – abbondantemente – Trinità: è l’inversione del basso con l’alto, autentica cifra del film. Stanco dei body count gargantueschi – a proposito di Rabelais… – del tardo spaghetti-western, Barboni unisce alla dissacrazione un ritorno alle origini in termini di rappresentazione della violenza: certo, qualche morto ammazzato c’è ancora – Bambino, all’inizio, ne stende a revolverate tre in un colpo solo, memore del Joe di Per un pugno di dollari –, ma alla fine tutto si risolve con la logica delle comiche mute: schiaffoni inoffensivi, cadute acrobatiche e distruzione del set tramite oggetti sempre più giganteschi e improbabili. Il tutto ha un che di parrocchiale, inutile negarlo, ma fa ridere grandi e piccini a tutt’oggi: esattamente come i capolavori di Chaplin, Keaton e Stanlio & Ollio.

È stato bello rivedere Lo chiamavano Trinità in sala, in una versione preziosamente restaurata dalla Cineteca di Bologna. Raramente ho visto un pubblico tanto eterogeneo: dal bambino di sette anni al signore di ottanta. Ho sentito i più piccoli esultare agli uppercut invertiti di Bambino e ridere a crepapelle alle acrobazie di Trinità. Quanti film italiani con oltre cinquant’anni d’età possono vantarsi di suscitare lo stesso effetto? La risposta a questa domanda ci ricorda quanto questo film abbia bisogno di riconoscenza e valutazioni esenti da preconcetti e luoghi comuni.


[1]Codificato e non inventato: l’intuizione delle potenzialità comiche del duo Spencer-Hill va attribuita a Giuseppe Colizzi. Nella trilogia composta da Dio perdona… io no! (1967), I quattro dell’Ave Maria (1968) e La collina degli stivali (1969) i caratteri dei due virano gradatamente verso il comico.

Un’estate di cinema… senza intervalli!

di Marco Fortunato

Buona la prima. E anche la seconda, la terza… e così via. Non poteva esserci inizio migliore per l’arena, anzi le arene, di Cinemazero che pochi giorni fa hanno dato avvio alla ricchissima estate cinematografica che sarà letteralmente “senza intervalli” nel senso che Cinemazero offrirà una proposta ogni giorno della settimana.

L’inaugurazione ufficiale si è tenuta venerdì 1° luglio nella nuova location di Largo San Giorgio, sede della più grande delle arene – per la prima volta ad ingresso gratuito grazie al sostegno di Comune e dei numerosi sponsor – che ha ospitato la proiezione de LA CITTÀ INCANTATA il capolavoro di Hayao Miyazaki. Una serata tutta all’insegna del Giappone, impreziosita dalla presenza del musicista e traduttore Mitsugu Harada che ha introdotto la visione raccontando curiosità e aneddoti sull’opera del Maestro e resa unica dalla splendida cornice di pubblico che ha affollato la piazza, desideroso di rivivere l’emozione di un’esperienza collettiva. Esperienza, quella di ritrovarsi sotto un cielo stellato con gli occhi incollati al grande schermo, che si è ripetuta anche pochi giorni dopo con UCCELLACCI E UCCELLINI firmato da Pasolini interpretato da Totò e Ninetto Davoli, ospite d’onore della serata. L’attore, in splendida forma, ha divertito e affascinato il pubblico con i suoi ricordi e gli aneddoti dell’incontro con il Principe della risata e il suo lungo rapporto con Pasolini. L’occasione, spesso unica, di conoscere protagonisti ed esperti della settima arte sarà una costante di quest’estate cinematografica. Tra gli appuntamenti da segnare fin da ora sul calendario venerdì 22 luglio, con la proiezione di TOP GUN: MAVERICK introdotta dal colonello Alberto Moretti, ex comandante delle Frecce Tricolori e venerdì 29 luglio quando Marco Tullio Barboni, sceneggiatore e aiuto regista del cult LO CHIAMAVANO TRINITÀ racconterà il dietro le quinte del film che ha affidato alla storia la coppia Bud Spencer e Terence Hill.

Ospiti, film d’autore ed eventi speciali che non mancheranno anche in agosto. Ci sarà solo l’imbarazzo della scelta, tra i migliori successi della stagione (ASSASSINIO SUL NILO, BELFAST, È STATA LA MANO DI DIO) e le più attese novità (THOR: LOVE AND TUNDER, ELVIS, PETER VA SULLA LUNA), omaggi ai grandi del cinema e serate speciali. Immancabili gli appuntamenti di venerdì 26 agosto quando incontreremo l’alpinista Tamara Lunger, seconda donna italiana nella storia a raggiungere, nel 2014, la vetta del K2 che, introdurrà ITALIA K2 in una serata speciale realizzata in collaborazione con la Sezione CAI di Pordenone. Pochi giorni più tardi mercoledì 29 agosto si terrà invece il cineconcerto con Zerorchestra che musicherà dal vivo AURORA una delle vicende amorose che hanno fatto la storia del cinema

A pochi passi da quest’arena si trova lo spazio UAU!, un salotto a cielo aperto e a ingresso gratuito, fortemente voluto da Cinemazero per valorizzare un luogo ameno e poco frequentato della nostra città. Una speciale programmazione pensata per il pubblico giovane – ma non solo – che ogni martedì proporrà documentari originali, fuori dai canoni della grande distribuzione, di elevata qualità e interesse, acclamati da critica e grandi maestri, con un occhio speciale per il viaggio, per i paesi del mondo, per quello che – soprattutto in questi ultimi due anni – avremmo voluto conoscere, ma non abbiamo potuto vedere. UAU! Uno spazio per il cinema che sa sorprendere e incantare, un’arena per un pubblico che ama essere stupito. Focus quest’anno sul tema del viaggio: per i paesi del mondo, per quello che – soprattutto in questi due anni – avremmo voluto conoscere ma non abbiamo potuto vedere.

Non a caso lo spazio UAU! sarà anche la sede della XVIII edizione di FMK. Una tre giorni – dal 26 al 28 luglio – densissima di eventi, tutti a ingresso libero. Un’edizione speciale, all’insegna dell’alchimia del numero tre, con un programma messo a punto da un gruppo di under33 e giovanissimi saranno i protagonisti delle tre giornate del festival. Tra i presentatori, la principale sarà una sedicenne che non era ancora nata in occasione della prima edizione di FMK. Tutti i dettagli del programma sono sul sito: www.fmk-festival.it

Chiudono la carrellata, e la “settimana”, gli appuntamenti di Cinemadivino, che fino al 4 agosto ogni giovedì propone un appuntamento imperdibile per chi ama la magia del cinema all’aperto, abbinata alle storie di vignaioli ed enologi e alla degustazione di vini di qualità e delle eccellenze gastronomiche locali.

La cinepresa non è una bomba molotov

di Riccardo Costantini

È stato ritrovato un documentario importantissimo, praticamente inedito, con Damiano Damiani (ricorre il centenario della nascita del regista originario di Pasiano di Pordenone) e con protagonisti anche Bernardo Bertolucci e Cesare Zavattini. “La cinepresa non è una bomba Molotov”, del fotografo, regista e giornalista tedesco Gideon Bachmann, considerato perduto dopo un solo passaggio televisivo a fine anni ’70 in Germania, torna al pubblico, proprio nell’anno dell’anniversario di Damiani, che fa da narratore e demiurgo del film.

Il documentario pone domande attualissime: il cinema può essere politicamente utile? Può causare sconvolgimento sociale? Il film è davvero una tale forza di cambiamento come si è sempre creduto, o può solo introdurre nuove abitudini, nuove mode, nuove ossessioni? A dare il titolo, “La cinepresa non è una bomba Molotov”, è una frase pronunciata nel film da Bernardo Bertolucci.

Il documentario verrà presentato a Bologna, presso l’Auditorium DAMSLab, lunedì 27 giugno alle 14:45, nell’ambito della XXXVI edizione del festival “Il cinema ritrovato”. L’introduzione è affidata a Riccardo Costantini, responsabile archivi di Cinemazero e coordinatore del festival Pordenone Docs Fest: il documentario infatti è stato restaurato dall’associazione culturale pordenonese presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata, a partire da una copia 16mm conservata dalla Cineteca del Friuli.

Protagonista, in un insolito mockumentary, è Damiano Damiani, regista, scenografo e sceneggiatore originario di Pasiano di Pordenone, scomparso a Roma nel 2013, che ha diretto, tra l’altro “Il giorno della civetta” (1968) e alcuni episodi del celebre sceneggiato televisivo sulla mafia “La piovra” (1984-95). Bachmann, per garantirsi la fiducia della produzione tedesca committente, aveva promesso di realizzare un film sulla vita del regista italiano ma durante le riprese scoprì che «Damiani era molto più interessato a lavorare con noi a un film sul cinema di strada che a essere oggetto di un normale lavoro biografico». Così è nato un grande documentario politico, fatto, prosegue l’autore «con la speranza che la politica potesse motivare i giovani e che i film potessero essere veicolo di tale motivazione. Io ero allora, come molti post-sessantotto, convinto che l’educazione e la coscienza fossero le strade future del miglioramento sociale. Io credevo ancora che il cinema fosse uno strumento di rivoluzione».

Oggi, a 44 anni di distanza, immersi in una crisi forse ancor più profonda di allora, rivedere quel documentario e ascoltare le riflessioni di grandi cineasti dell’epoca, può fornire nuovi spunti per interpretare il ruolo del cinema nella società. Per Bachmann, «ciò che i film politici possono fare per noi è darci la sensazione di non essere soli là fuori nella tempesta. Che qualcuno condivida le nostre opinioni. Il cinema può fornire solidarietà».

A seguire, dopo “La camera non è una bomba molotov”, verrà presentato “Il Carso”, cortometraggio di Franco Giraldi ritrovato e restaurato da Cinemazero, Pordenone Docs Fest e Fondazione Cineteca di Bologna, dalla copia d’epoca 35mm di Videa. Il film, prodotto nel 1960 dalla Documento Film e girato durante le vacanze di Natale del 1959 sul Carso triestino era stato dato per perduto, fino al ritrovamento da parte di Lorenzo Codelli di una copia conservata in ottimo stato negli archivi della Cineteca di Bologna. Il regista, attore, scrittore e sceneggiatore sloveno Franco Giraldi, all’epoca ex giornalista cinematografico emigrato a Roma e attivo come assistente alla regia, firmava un personalissimo, dolceamaro affresco ‘western’ sulla propria terra d’origine. Giuseppe Pinori – in seguito direttore della fotografia per Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana, i fratelli Taviani – immortalava tramite immagini indelebili il duro lavoro quotidiano dei pescatori e dei contadini di Santa Croce / Sveti Križ. Un villaggio in rapido spopolamento, schiacciato tra il confine con la Jugoslavia di Tito e le pendici a strapiombo sul Golfo di Trieste. È del critico triestino Callisto Cosulich, anche lui emigrato nella capitale, il lirico commento fuori campo.

«In questo documentario, ma anche magnificamente nei suoi film di fiction, il Carso è un vero protagonista: non posso non ricordare lo splendido “Un anno di scuola”, film che ho amato molto e che ho visto nascere, – è il commento di Claudio Magris – Il Carso, per me e per Giraldi, diventa personaggio indissolubile dalla storia di quell’epoca: un territorio aspro, slataperiano, in contrasto con la “vecchia Europa” della città, dove i ragazzi si danno “del lei”. Vedendo questo documentario, non posso non ricordare il magnifico Carso che appare in un film che ritengo un autentico capolavoro di Giraldi, “La frontiera”. Un film bellissimo, forse il suo più bello».