Un’inaccettabile discriminazione. E tanta confusione.

di Marco Fortunato

Una decisione discriminatoria e per questo inaccettabile. Dal primo di maggio nella stragrande maggioranza dei luoghi al chiuso la mascherina (non la FFP2 ma la semplice mascherina) è solo raccomandata e si fa leva sul senso di responsabilità delle persone. Al cinema invece no e l’obbligo di indossare la mascherina FFP2 è stato prorogato fino al 15 giugno, come negli ospedali e nei mezzi di trasporto. Per i trasporti l’esigenza è legata al cronico problema del sovraffollamento, per gli ospedali, ambienti dove la tutela dei più fragili e deboli costituisce la massima priorità per la collettività, la FFP2 sembra imprescindibile anche se la nuova normativa testualmente richiede ai visitatori un generico dispositivo di protezione delle vie respiratorie.

Davvero, dunque, appare senza logica la richiesta di obbligare il pubblico ad indossare la mascherina FFP2 in un momento in cui, purtroppo, il comparto è ancora in grande difficoltà e il rischio del sovraffollamento è decisamente remoto. Ma anche se così non fosse è bene ricordare che la normativa di pubblico spettacolo italiana, comprendente anche le disposizioni in tema di obbligo di ricambio d’aria, di installazione di idonei impianti dimensionati sul massimo affollamento e sul volume delle sale, è tra le più stringenti imposte a livello internazionale. E allora perché questo accanimento?

Chiunque sia entrato in una sala cinematografica negli ultimi due anni ha potuto verificare personalmente il grande impegno nel rispetto di tutte le normative sia da parte degli operatori che del pubblico, malgrado l’oggettiva complessità nel farlo: complici leggi e regolamenti poco chiari, spesso comunicati all’ultimo minuto (e non è un modo di dire, basti ricordare quanto accaduto alla Vigilia di Natale quando furono emanate le norme valide dal giorno successivo!)

Ma ciò che conta è il principio di uguaglianza. Non ci siamo mai opposti alle regole ma pretendiamo che ci sia uniformità di trattamento. Altrimenti appunto diventa una discriminazione senza significato che avrà il solo risultato di penalizzare un settore che ha già subito un enorme contraccolpo dalla pandemia.  

Esiste, per fortuna, ancora una possibilità di rimediare. Nel percorso di conversione del Decreto Legge il Parlamento potrebbe, con un emendamento, cancellare quest’assurdità. Sarebbe un primo passo ma molto significativo. Ad esso dovrebbero poi fare seguito i più volte auspicati interventi strutturali da parte del Ministero per porre rimedio alle criticità strutturali del settore. Proprio su quest’ultime, a partire dal tema delle windows (a cui più volte abbiamo accennato e sulle quali si stanno rincorrendo dichiarazioni contraddittorie) fino alla distribuzione delle risorse all’interno della filiera, è necessario un approfondimento per elaborare un’immediata revisione.

“La Solitudine dell’ala destra”. Pasolini e il calcio in mostra a Pordenone

di Riccardo Costantini

Apre al pubblico sabato 23 aprile alle 15 alla Galleria Harry Bertoia La solitudine dell’ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio, una grande mostra composta per lo più da materiale inedito, realizzata da Cinemazero e Comune di Pordenone, con il sostegno della Regione Friuli-Venezia Giulia e il patrocinio del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. Con 120 fotografie, filmati, scritti, gadget, il percorso espositivo, curato da Piero Colussi, ricostruisce le tappe salienti della passione sportiva, lunga tutta la vita, di Pasolini, nell’anno del centenario della nascita.

In un’intervista all’Europeo il 31 dicembre 1970, l’intellettuale dichiarava: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».

La mostra in Galleria Bertoia narra questa passione dalle origini, a Bologna, la città natale di Pasolini, dove frequentava il Liceo Galvani e il calcio riempiva le sue giornate. Affermava infatti: «I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei, sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora…) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso».

In quegli anni, il Bologna Football Club era uno squadrone capace di vincere ben quattro scudetti di fila e Pasolini ne divenne un accanito tifoso. Durante le vacanze estive, a Casarsa, nella casa della famiglia della madre Susanna Colussi, indossava la maglia bianconera della società del paese, partecipando al campionato della Gioventù Italiana del Littorio. Le partite si giocavano nel campo sportivo dietro la ferrovia. A fungere da spogliatoio, c’era una stanza dell’albergo Leon d’Oro. Finita la guerra, Pasolini fu tra i promotori della nascita della Società Artistico Sportiva Casarsa, che nell’autunno del 1946 fissò la propria sede nello stanzone adiacente a Casa Colussi Batiston, dove erano ospitate le attività dell’Academiuta di lenga furlana. Sempre in quell’anno, Pasolini fu tra i promotori dell’Unione Sportiva Sangiovannese. Nel 1947 iniziò anche a scrivere di calcio come corrispondente de Il Friuli Sportivo.

A Roma, nei campetti di calcio delle borgate romane, Pasolini conobbe coloro che in seguito sarebbero diventati i protagonisti dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. A metà degli anni Sessanta fu fra gli ideatori, assieme a Ninetto Davoli e Franco Citti, della squadra chiamata Attori e Cantanti, che qualche anno più tardi divenne la Nazionale dello Spettacolo, di cui Pasolini portò a lungo la fascia di capitano. Nella primavera del 1975, qualche mese prima di venire assassinato, organizzò a Parma la partita tra la troupe di Salò e quella che a pochi chilometri di distanza stava girando Novecento di Bernardo Bertolucci. Fra i protagonisti della sonante vittoria di Bertolucci, per 5 a 2, c’era il giovane calciatore della squadra “primavera” del Parma, Carlo Ancellotti, che, per l’occasione, era stato “assunto” come attrezzista nella troupe di Novecento e aveva segnato pure un goal.

Nell’anno del centenario della nascita, la mostra di Pordenone è un’occasione per scoprire quanto fosse forte il legame di Pasolini con il calcio, tanto che nel 1973, alla domanda di Enzo Biagi per La Stampa, dichiarava che senza cinema, senza scrivere, quello che gli sarebbe piaciuto diventare era: «un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri». Ogni venerdì alle 17.30 sarà possibile visitare la mostra, accompagnati dal curatore Piero Colussi: per prenotarti invia una mail a press@cinemazero.it

Un percorso che continua venerdì 13 maggio con la proiezione a Cinemazero ad ingresso gratuito del film “L’ultima partita di Pasolini”, alla presenza dell’autore Giordano Viozzi.

Rassegna video-cinematografica del CAI Pordenone “Incontri a Cinemazero – Patrimonio green: parchi, riserve naturali, boschi”

di CAI – Pordenone

Covid e Guerra in Ucraina stanno da mesi, giustamente, catalizzando la nostra attenzione. Corriamo il rischio però di distogliere il nostro interesse, e la nostra preoccupazione, nei riguardi delle tematiche ambientali, che tanto sono importanti e determinanti per la salute e la sopravvivenza stessa del nostro pianeta e dei suoi abitanti. La Sezione del Club Alpino Italiano di Pordenone vuole quindi, con la programmazione dei suoi Incontri a Cinemazero, riportare la giusta attenzione su questi temi, in particolare rispetto al loro legame e alla loro influenza sul mondo della Montagna, focalizzandosi per questa rassegna primaverile sul Patrimonio green. Tre serate, ad ingresso gratuito fino ad esaurimento dei posti, che vogliono rappresentare con lo strumento cinematografico e di documentazione, e con la presenza di autori e protagonisti, lo straordinario mondo dei parchi, riserve naturali e boschi, per portare conoscenza e stimolare una maggiore consapevolezza.

Il programma degli Incontri si apre giovedì 5 maggio alle ore 21:00 con “C’era una volta il bosco”. Paola Favero, forestale, alpinista e scrittrice, racconterà le montagne e i boschi ai tempi della crisi climatica, attraverso le immagini e le parole del suo libro e con la proiezione artistica del fotografo Paolo Spigariol. L’azione dell’uomo si ripercuote indiscutibilmente sull’evoluzione del clima e degli eventi metereologici. Il grande errore che commettiamo è che riteniamo l’ambiente naturale una risorsa da usare a nostro piacimento, senza renderci conto delle conseguenze delle nostre azioni.

“Perché fuggiamo dalla civiltà per scegliere la solitudine, la semplicità di una vita nei boschi o fra le montagne?” È a questa domanda che vuol dare risposta Marco Albino Ferrari, scrittore e giornalista, nell’Incontro del 19 maggio. Sarà proiettato il documentario “La via incantata”, di cui egli è il protagonista. Il racconto del viaggio verso il più antico e vasto santuario di natura selvaggia delle Alpi, la riserva integrale del Pedum, nel Parco Nazionale della Val Grande, luoghi abitati fino a metà del secolo scorso, prima che un inarrestabile spopolamento segnasse la sorte di intere comunità. La via incantata è l’esperienza di due uomini a contatto con questa wilderness così emotiva e tangibile.

Al Parco Naturale Prealpi Giulie sarà dedicato l’Incontro del 26 maggio. I parchi sono un sistema territoriale di particolare interesse per valori naturali, scientifici, storico-culturali e paesaggistici e la loro finalità è quella di tutelare, conservare e ripristinare l’ambiente naturale e le sue risorse. Il direttore del Parco, Antonio Andrich, con l’ausilio di immagini e filmati, parlerà di quest’area protetta della nostra Regione, della specificità della zona, determinata dal contatto di tre aree biogeografiche diverse (mediterranea, illirica ed alpina) che concorrono a determinare una straordinaria biodiversità, e dei numerosi progetti in essere.

«Porto da minha infância»

di Lorenzo Codelli

Manoel Cândido Pinto de Oliveira ci ha lasciato a 106 anni e 4 mesi compiuti, il 2 aprile 2015. Mi trovavo a Lisbona quel tristissimo giorno di lutto nazionale. Un feeling di saudade paragonabile ai sentimenti collettivi provati il giorno dell’addio in Italia a Federico Fellini, in Svezia a Ingmar Bergman, in Svizzera a Charlie Chaplin.

Avevo avuto la fortuna di conoscere de Oliveira alla Mostra di Venezia quand’era già più o meno centenario. Habitué di antica data del Lido, lucidissimo, brillante conversatore, se ne stava diritto in piedi al bar dell’Excelsior assieme alla moglie, Maria Isabel Brandão de Meneses de Almeida Carvalhais, un’elegante dama dieci anni più giovane di lui. C’era anche il suo direttore della fotografia, il mitico globetrotter svizzero Renato Berta, il quale nella sua recente autobiografia ha dedicato al cineasta portoghese delle pagine bellissime (Photogrammes, Grasset, Parigi 2021).

L’ascesa in Paradiso di San Manoel ci regalò un lungometraggio che egli aveva concepito per i posteri, un autoritratto nostalgico girato nel 1982 che aveva deciso di non mostrare in vita: Visita ou Memórias e Confissões. Capolavoro assoluto.

Lo Stato portoghese ci ha riflettuto assai bene su come rendere un omaggio, vitale e non sepolcrale, al padre-padrone del cinema muto e sonoro nazionale più celebre nell’universo. La scelta non avrebbe potuto essere più azzeccata, anzi più deoliveriana.

Situata a Porto naturalmente, la “città della mia infanzia”, tuttora traboccante di antichi caffé, di teatri e palazzi storici délabrés, di lungofiume e piazzali nei quali de Oliveira visse, amò e filmò.

Un po’ fuori città, sull’estuario del Douro, fauna fluvial (1931, esordio del regista), nel verdissimo parco di Serralves si erge il neo-lloydwrightiano Museu de Arte Contemporânea. Nelle sue diverse ale i massimi artisti di oggi, da Ai Wei Wei a Jeff Koons, propongono mostre temporanee di forte impatto.

Girando per il parco, tra fontane stile Boboli, prati infiniti che evocano i fasti di Versailles, gloriet cosparsi di sculture surrealiste giganti, si arriva alla Casa do Cinema Manoel de Oliveira.

Se Fellini ha il proprio cenotafio nei fortilizi della natia Rimini, Bergman sull’adorata isola di Fårö, Charlot nella propria villa di Vevey, a de Oliveira è toccato di meglio.

La palazzina a due piani è intima, disadorna come certi suoi film. Al pianoterra un’esposizione temporanea, al primo piano quella permanente. Tutto di piccole dimensioni volumetriche però di grandissime ambizioni, didattiche e spettacolari.

Alla mostra permanente si possono passare giornate intere a rivedere alcuni film in versione integrale, a studiare la bio-filmografia interattiva, in un semibuio affascinante cosparso qua e là di Leoni d’oro, Palme d’oro e altri premi internazionali. 

La mostra temporanea in aprile non poteva essere più geniale dal punto di vista metodologico. Intitolata “O princípio da incerteza. Manoel de Oliveira e Augustina Bessa Luís”. Ovvero i rapporti di lavoro e amicizia durati due vite tra il prolifico regista e la sua principale sceneggiatrice, una romanziera di successo tradotta in molte lingue.

Non trascurate assolutamente una tappa al vasto bookshop del Museo. Vi troverete a prezzi modici sia i dvd dei film diretti da Manoel de Oliveira che i voluminosi cataloghi delle mostre a lui dedicate, pubblicati in portoghese e in inglese. Scoprirete così che de Oliveira è stato anche un eccellente fotografo e saggista.

https://www.serralves.pt/en/ciclo-serralves/1906-manoel-de-oliveira-exposicao-permanente/