50 sfumature di virus
Di Andrea Crozzoli
Il virus nella letteratura è presente dagli albori della civiltà, da quasi tremila anni. Ovvero dall’Iliade quando Apollo, per vendicare Crise, fa scoppiare una terribile pestilenza fra i greci. Proprio la letteratura è stata, nel corso tempo, uno dei principali veicoli per almentare il cinema con storie di virus. Cinema che è stato così in grado di declinare il virus in svariate sottospecie, con un ventaglio di modificazioni tale che ci permetterebbe di compilare un vero e proprio glossario con le “50 sfumature di virus” in grado di far invidia ai virus esistenti in natura.
Uno dei primi film che tocca lo scottante argomento è Nosferatu, eine Symphonie des Grauens di Friedrich Wilhelm Murnau, capolavoro muto del 1922 che già nel titolo “una sinfonia di orrori” precisa la declinazione del virus collocandolo nel genere horror. Il film di Murnau utilizza il vampiro per destabilizzare la collettività e per spargere il terrore attraverso il virus della peste, veicolato nella terra contaminata all’interno delle bare. Una prova generale di cosa significa governare con la paura, attraverso una vera e propria sovversione dell’ordine costituito causato dalla pestilenza. Nel remake del 1979, a firma di Werner Herzog, la peste arriva, invece, attraverso una vera e propria invasione di centinaia e centinaia di topi che dilagano per la città con effetti devastanti. Invasione che risulta, anche dal punto di vista visivo, ancora più perturbante.
Come ben sappiamo, il virus non conosce confini e il nobile cavaliere Antonius Block che torna in Svezia dalle Crociate ne Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman, trova il paese in preda alla peste e ad attenderlo la Morte in persona. Ingaggia con essa, mantenendo il distanziamento sociale, una partita a scacchi per ritardare quanto più possibile la dipartita verso l’aldilà. Ma Bergman, indiscusso maestro svedese, usa l’agente patogeno per dirci altro trasformando la mutazione in meta-virus, ossia pretesto per una riflessione esistenziale. Riflessione che costituisce occasione per raccontare, in questo capolavoro assoluto, il secolo medievale del crollo della “religione delle certezze“. Avvenimento che apre, non solo per il regista ma per tutta l’umanità, una nuova era.
Tale crollo, invece, deve ancora avvenire nella peste medievale, narrata prosaicamente dal mediterraneo e solare, Mario Monicelli in L’armata Brancaleone (1966). Il film è un accurato excursus, in forma di sarcastica e intelligente commedia, sul Medioevo italico percorso dalla peste. Protagonista, nei panni di Brancaleone da Norcia, è Vittorio Gassman, in fuga dall’epidemia, ovvero “lo gran morbo che tutti piglia…” come dichiara egli stesso nel film. Incontra, nell’avventuroso cammino, lo ieratico monaco Zenone (uno straordinario Enrico Maria Salerno) che declama enfaticamente: «La salvazione vi porto! Seguitatemi! Prendete le vostre armi e il morbo non vi tangerà! Venite meco in Terra Santa a liberare lo Santo Sepolcro! E io vi prometto salvi lo corpo e l’anima!». Con evidente, e nemmeno tanto sottile, ironia anticlericale Monicelli promette, al seguito del monaco, una sorta di immunità, di “andràtuttobene” ante litteram, in cui l’uso della paura per il virus è declinato in funzione politica per convincere la strampalata armata Brancaleone a partire per le crociate in cambio della salvezza dell’anima e del corpo. Ancora peste e ancora Medioevo di origine letteraria con un virus stragista in La maschera della morte rossa (1964) di Roger Corman con due attori icone del genere horror come Vincent Price e Hazel Court. Un film distopico, tratto dai racconti di Edgar Allan Poe, che mostra, oltre alla paura per la diffusione del contagio anche i suoi terribili e devastanti effetti mortali tanto che la pellicola termina con le parole di Poe: «...e l’Oscurità e il Decadimento e la Morte Rossa ebbero illimitato dominio su tutto.» alla faccia di “neusciremomigliori”.
Il virus in versione autoriale lo ritroviamo ne Il Decameron (1971) diretto da Pier Paolo Pasolini, in cui la peste del 1348 a Firenze, narrata nell’introduzione del testo originario del Boccaccio, viene sublimata da Pasolini con un suo personale percorso narrativo. Un “orrido cominciamento” dove il morbo viene rappresentato da Pasolini attraverso Ciappelletto che trasporta un sacco sulle spalle con dentro una persona che massacra a suon di bastonate e scarica poi in un pendio. Il virus di origine letteraria, sempre presente nel cinema, muta, si trasforma, assume valenze più articolate, più problematiche, si aggiorna.
Dal romanzo di Richard Mateson Io sono leggenda (1954) arriva il virus antropofago che muta gli uomini in non uomini, ossia in vampiri che dilaniano gli uomini. Se ne occupa per primo il regista Ubaldo Ragona che ha tratto dal libro il film L’ultimo uomo della Terra (1964) sempre con Vincent Price, dove un’epidemia causata da un misterioso virus ha trasformato l’umanità in vampiri. Alla fine, concretizzando l’hastag “celafaremo”, la pandemia ‘non umana’, e quindi inaccettabile, verrà sconfitta. Il romanzo avrà in seguito due nuove versioni: una nel 1971 dal titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra per la regia di Boris Sagal con Charlton Heston e una, più recente, nel 2007 a firma di Francis Lawrence dal titolo Io sono leggenda con Will Smith, che eredita dal romanzo il titolo e lo status di ultimo essere umano.
Nella declinazione fanta-virus rientra l’interessante esperimento di Elio Petri regista de La decima vittima (1965), film interpretato da Marcello Mastroianni e Ursula Andress. La storia si snoda in un futuro prossimo dove, per contenere il germe della violenza e dell’aggressività, viene concessa una sorta di licenza di uccidere e dieci occasioni per concretizzare l’omicidio. «Una trasposizione allegorica di aspirazioni ed inquietudini dell’oggi dove verngono fustigati certi costumi, la ferocia dei rapporti individuali e collettivi, l’arrivismo sociale dei tempi moderni.» dichiarerà lo stesso Petri a proposito di questo fanta-virus sempre in agguato nella società. Nello stesso ambito rientra di diritto il capolavoro di Alfred Hitchcock Gli uccelli (1963) con Tippi Hedren, dove il «mago del brivido» sembra alludere nel sottotesto a un misterioso virus che scatena l’aggressività degli uccelli. Mimesi apocalittica di un virus rappresentato da un’alga rossa tossica in grado di provocare nei volatili crisi epilettiche, oltre a disorientamento e morte. Ancora mistero e paura quindi.
Virus, timore del contagio ed armi batteriologiche in Satan Bug (1964) di John Sturges dove il virus eponimo, quello maggiormente aggressivo, è sfuggito al controllo e scatta quindi «la paura paranoica per un killer invisibile» e altamente contagioso. Ma è con La città verrà distrutta all’alba (1973) di George A. Romero, remakerizzato poi nel 2010 da Brek Eisner, che viene raggiunta l’autentica cuspide del cinema virologico. Il film anticipa per molti aspetti gli odierni concetti di “zona rossa”, “quarantena”, “isolamento” e “sistema di controllo”. Un’opera che riconduce le colpe del contagio non al comportamento dell’essere umano ma, in maniera diretta e specifica, al mondo della politica e ai governanti. Un’equazione virus e politica che rappresenterà d’ora in avanti un punto di riferimento nel mondo dei virus-movie. Sul contagio da virus ruota anche Cassandra Crossing (1976) di George Pan Cosmatos con un cast stellare, come si usava all’epoca, fra cui la nostra Sophia Loren. Un terrorista viene contagiato da nuovi e micidiali virus; fugge su un treno e trasmette il patogeno ad alcuni passeggeri. Il treno viene così sigillato e spedito in quarantena verso il “Cassandra Crossing”, un fatiscente ponte in Polonia. Si fatica non poco a ritrovare in questo film ambizioso le intenzioni del regista che voleva rappresentare la prigionia sul treno e la quarantena come metafora di un trattamento assimilabile ad nuovo regime nazista.
La paura del contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam con un virus ambientalista che ha devastato l’intero pianeta e ha costretto gli unici superstiti a vivere nel sottosuolo per colpa di scempi che hanno reso l’aria irrespirabile e fatto scomparire la natura. Un film che, nel raggruppare tutte le ossessioni tipiche del cinema di Gilliam, può essere letto sia come puro intrattenimento che come articolata opera d’autore.
Nel comparto virus e politica, con il futuro sconvolto da un patogeno mortale, si colloca Virus letale (1995) di William Petersen, film che nuovamente mette sotto accusa dei governanti. Politici senza scrupoli che preferiscono negare l’esistenza del virus e del suo antidoto in vista di un futuro impiego bellico. Tra le opere con virus catartici ecco il film del taiwanese Tsai Ming-liang The Hole-Il buco (1998) storia collocata a sette giorni dalla fine del secondo millennio a Taiwan. La città è in preda ad un ecosistema in disfacimento ed è percorsa da una misteriosa epidemia unita ad una incessante pioggia che tutto pervade. La pandemia porta la gente a comportarsi come insetti kafkiani, come scarafaggi che temono la luce. Ma questa discesa nel buio diverrà un viaggio metaforico di rigenerazione. Fra i tanti titoli, relativamente recenti, che legano il virus ancora alla politica c’è anche I figli degli uomini (2006) di Alfonso Cuaròn, film in cui l’umanità rischia la scomparsa a causa di una dilagante infertilità. Ma, anche qui, in fondo al tunnel c’è una luce che da una speranza, quasi un’anticipazione dell’odierno hastag “celafaremo”.
Nel road-virus si colloca invece il film dei fratelli spagnoli David e Alex Pastor Carriers-Contagio letale (2009) che racconta la fuga in auto dalla pandemia di quattro persone. Incuranti del pericolo, (avrebbero dovuto seguire l’indicazione di “iorestoacasa”) scappano, invece, verso il Messico e, nel periglioso viaggio, contraggono il virus fatale che seminerà la morte. È ancora un virus di stampo allegorico quello di Blindness-Cecità (2008) di Fernando Meirelles dall’omonimo romanzo del premio Nobel José Saramago, dove la diffusione della cecità, assimilabile a una vera e propria pandemia ha il valore metaforico dell’incapacità di guardare oltre, e più in profondità, alle dinamiche oppressive del potere, di qualsiasi potere. Una metafora riuscita pienamente nel libro ma molto meno nella trasposizione cinematografica. Nella declinazione virus-da-animali rientra, infine, il recente Contagion (2011) di Steven Soderbergh, film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino. Dopo il dilagare della cosiddetta “febbre suina”, nel film del giovane statunitense si scatenano i tentativi dei potenti di accaparrarsi con ogni mezzo i vaccini, senza trascurare neppure l’omeopatia a dimostrazione che l’avidità è sempre pronta ad intervenire.
Dopo questa breve manciata di sfumature sui virus balza agli occhi in maniera evidente come tali film abbiamo la paura come contraltare costante al virus, il panico per il diverso, per la malattia, per la morte. Dicono gli psicanalisti che il motore della libido è legato alla paura, alla sottile eccitazione dell’ignoto. Paura che, dicono, dovrebbe allenare al coraggio e di conseguenza il “piacere” del coraggio come assenza di paura. La messa in campo di energie per superare la paura crea, dicono sempre loro, quello stato di eccitazione, di piacere, di soddisfazione spesso impagabile. Eccitazione che in tutti i bambini arriva confrontandosi con la paura attraverso le fiabe percorse da orchi, lupi, draghi, streghe maligne eccetera. Ecco, quindi, che i bimbi si addormentano sereni ascoltando una tale fiaba. Visto il sempre grande successo dei “film di paura” a questo punto dobbiamo credergli.