50 sfumature di virus

Di Andrea Crozzoli

Il virus nella letteratura è presente dagli albori della civiltà, da quasi tremila anni. Ovvero dall’Iliade quando Apollo, per vendicare Crise, fa scoppiare una terribile pestilenza fra i greci. Proprio la letteratura è stata, nel corso tempo, uno dei principali veicoli per almentare il cinema con storie di virus. Cinema che è stato così in grado di declinare il virus in svariate sottospecie, con un ventaglio di modificazioni tale che ci permetterebbe di compilare un vero e proprio glossario con le “50 sfumature di virus” in grado di far invidia ai virus esistenti in natura.

Uno dei primi film che tocca lo scottante argomento è Nosferatu, eine Symphonie des Grauens di Friedrich Wilhelm Murnau, capolavoro muto del 1922 che già nel titolo “una sinfonia di orrori” precisa la declinazione del virus collocandolo nel genere horror. Il film di Murnau utilizza il vampiro per destabilizzare la collettività e per spargere il terrore attraverso il virus della peste, veicolato nella terra contaminata all’interno delle bare. Una prova generale di cosa significa governare con la paura, attraverso una vera e propria sovversione dell’ordine costituito causato dalla pestilenza. Nel remake del 1979, a firma di Werner Herzog, la peste arriva, invece, attraverso una vera e propria invasione di centinaia e centinaia di topi che dilagano per la città con effetti devastanti. Invasione che risulta, anche dal punto di vista visivo, ancora più perturbante.

Come ben sappiamo, il virus non conosce confini e il nobile cavaliere Antonius Block che torna in Svezia dalle Crociate ne Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman, trova il paese in preda alla peste e ad attenderlo la Morte in persona. Ingaggia con essa, mantenendo il distanziamento sociale, una partita a scacchi per ritardare quanto più possibile la dipartita verso l’aldilà. Ma Bergman, indiscusso maestro svedese, usa l’agente patogeno per dirci altro trasformando la mutazione in meta-virus, ossia pretesto per una riflessione esistenziale. Riflessione che costituisce occasione per raccontare, in questo capolavoro assoluto, il secolo medievale del crollo della “religione delle certezze“. Avvenimento che apre, non solo per il regista ma per tutta l’umanità, una nuova era.

Tale crollo, invece, deve ancora avvenire nella peste medievale, narrata prosaicamente dal mediterraneo e solare, Mario Monicelli in L’armata Brancaleone (1966). Il film è un accurato excursus, in forma di sarcastica e intelligente commedia, sul Medioevo italico percorso dalla peste. Protagonista, nei panni di Brancaleone da Norcia, è Vittorio Gassman, in fuga dall’epidemia, ovvero “lo gran morbo che tutti piglia…” come dichiara egli stesso nel film. Incontra, nell’avventuroso cammino, lo ieratico monaco Zenone (uno straordinario Enrico Maria Salerno) che declama enfaticamente: «La salvazione vi porto! Seguitatemi! Prendete le vostre armi e il morbo non vi tangerà! Venite meco in Terra Santa a liberare lo Santo Sepolcro! E io vi prometto salvi lo corpo e l’anima!». Con evidente, e nemmeno tanto sottile, ironia anticlericale Monicelli promette, al seguito del monaco, una sorta di immunità, di “andràtuttobene” ante litteram, in cui l’uso della paura per il virus è declinato in funzione politica per convincere la strampalata armata Brancaleone a partire per le crociate in cambio della salvezza dell’anima e del corpo. Ancora peste e ancora Medioevo di origine letteraria con un virus stragista in La maschera della morte rossa (1964) di Roger Corman con due attori icone del genere horror come Vincent Price e Hazel Court. Un film distopico, tratto dai racconti di Edgar Allan Poe, che mostra, oltre alla paura per la diffusione del contagio anche i suoi terribili e devastanti effetti mortali tanto che la pellicola termina con le parole di Poe: «...e l’Oscurità e il Decadimento e la Morte Rossa ebbero illimitato dominio su tutto.» alla faccia di “neusciremomigliori”.

Il virus in versione autoriale lo ritroviamo ne Il Decameron (1971) diretto da Pier Paolo Pasolini, in cui la peste del 1348 a Firenze, narrata nell’introduzione del testo originario del Boccaccio, viene sublimata da Pasolini con un suo personale percorso narrativo. Un “orrido cominciamento” dove il morbo viene rappresentato da Pasolini attraverso Ciappelletto che trasporta un sacco sulle spalle con dentro una persona che massacra a suon di bastonate e scarica poi in un pendio. Il virus di origine letteraria, sempre presente nel cinema, muta, si trasforma, assume valenze più articolate, più problematiche, si aggiorna.

Dal romanzo di Richard Mateson Io sono leggenda (1954) arriva il virus antropofago che muta gli uomini in non uomini, ossia in vampiri che dilaniano gli uomini. Se ne occupa per primo il regista Ubaldo Ragona che ha tratto dal libro il film L’ultimo uomo della Terra (1964) sempre con Vincent Price, dove un’epidemia causata da un misterioso virus ha trasformato l’umanità in vampiri. Alla fine, concretizzando l’hastag “celafaremo”, la pandemia ‘non umana’, e quindi inaccettabile, verrà sconfitta. Il romanzo avrà in seguito due nuove versioni: una nel 1971 dal titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra per la regia di Boris Sagal con Charlton Heston e una, più recente, nel 2007 a firma di Francis Lawrence dal titolo Io sono leggenda con Will Smith, che eredita dal romanzo il titolo e lo status di ultimo essere umano.

Nella declinazione fanta-virus rientra l’interessante esperimento di Elio Petri regista de La decima vittima (1965), film interpretato da Marcello Mastroianni e Ursula Andress. La storia si snoda in un futuro prossimo dove, per contenere il germe della violenza e dell’aggressività, viene concessa una sorta di licenza di uccidere e dieci occasioni per concretizzare l’omicidio. «Una trasposizione allegorica di aspirazioni ed inquietudini dell’oggi dove verngono fustigati certi costumi, la ferocia dei rapporti individuali e collettivi, l’arrivismo sociale dei tempi moderni.» dichiarerà lo stesso Petri a proposito di questo fanta-virus sempre in agguato nella società. Nello stesso ambito rientra di diritto il capolavoro di Alfred Hitchcock Gli uccelli (1963) con Tippi Hedren, dove il «mago del brivido» sembra alludere nel sottotesto a un misterioso virus che scatena l’aggressività degli uccelli. Mimesi apocalittica di un virus rappresentato da un’alga rossa tossica in grado di provocare nei volatili crisi epilettiche, oltre a disorientamento e morte. Ancora mistero e paura quindi.

Virus, timore del contagio ed armi batteriologiche in Satan Bug (1964) di John Sturges dove il virus eponimo, quello maggiormente aggressivo, è sfuggito al controllo e scatta quindi «la paura paranoica per un killer invisibile» e altamente contagioso. Ma è con La città verrà distrutta all’alba (1973) di George A. Romero, remakerizzato poi nel 2010 da Brek Eisner, che viene raggiunta l’autentica cuspide del cinema virologico. Il film anticipa per molti aspetti gli odierni concetti di “zona rossa”, “quarantena”, “isolamento” e “sistema di controllo”. Un’opera che riconduce le colpe del contagio non al comportamento dell’essere umano ma, in maniera diretta e specifica, al mondo della politica e ai governanti. Un’equazione virus e politica che rappresenterà d’ora in avanti un punto di riferimento nel mondo dei virus-movie. Sul contagio da virus ruota anche Cassandra Crossing (1976) di George Pan Cosmatos con un cast stellare, come si usava all’epoca, fra cui la nostra Sophia Loren. Un terrorista viene contagiato da nuovi e micidiali virus; fugge su un treno e trasmette il patogeno ad alcuni passeggeri. Il treno viene così sigillato e spedito in quarantena verso il “Cassandra Crossing”, un fatiscente ponte in Polonia. Si fatica non poco a ritrovare in questo film ambizioso le intenzioni del regista che voleva rappresentare la prigionia sul treno e la quarantena come metafora di un trattamento assimilabile ad nuovo regime nazista.

La paura del contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam con un virus ambientalista che ha devastato l’intero pianeta e ha costretto gli unici superstiti a vivere nel sottosuolo per colpa di scempi che hanno reso l’aria irrespirabile e fatto scomparire la natura. Un film che, nel raggruppare tutte le ossessioni tipiche del cinema di Gilliam, può essere letto sia come puro intrattenimento che come articolata opera d’autore.

Nel comparto virus e politica, con il futuro sconvolto da un patogeno mortale, si colloca Virus letale (1995) di William Petersen, film che nuovamente mette sotto accusa dei governanti. Politici senza scrupoli che preferiscono negare l’esistenza del virus e del suo antidoto in vista di un futuro impiego bellico. Tra le opere con virus catartici ecco il film del taiwanese Tsai Ming-liang The Hole-Il buco (1998) storia collocata a sette giorni dalla fine del secondo millennio a Taiwan. La città è in preda ad un ecosistema in disfacimento ed è percorsa da una misteriosa epidemia unita ad una incessante pioggia che tutto pervade. La pandemia porta la gente a comportarsi come insetti kafkiani, come scarafaggi che temono la luce. Ma questa discesa nel buio diverrà un viaggio metaforico di rigenerazione. Fra i tanti titoli, relativamente recenti, che legano il virus ancora alla politica c’è anche I figli degli uomini (2006) di Alfonso Cuaròn, film in cui l’umanità rischia la scomparsa a causa di una dilagante infertilità. Ma, anche qui, in fondo al tunnel c’è una luce che da una speranza, quasi un’anticipazione dell’odierno hastag “celafaremo”.

Nel road-virus si colloca invece il film dei fratelli spagnoli David e Alex Pastor Carriers-Contagio letale (2009) che racconta la fuga in auto dalla pandemia di quattro persone. Incuranti del pericolo, (avrebbero dovuto seguire l’indicazione di “iorestoacasa”) scappano, invece, verso il Messico e, nel periglioso viaggio, contraggono il virus fatale che seminerà la morte. È ancora un virus di stampo allegorico quello di Blindness-Cecità (2008) di Fernando Meirelles dall’omonimo romanzo del premio Nobel José Saramago, dove la diffusione della cecità, assimilabile a una vera e propria pandemia ha il valore metaforico dell’incapacità di guardare oltre, e più in profondità, alle dinamiche oppressive del potere, di qualsiasi potere. Una metafora riuscita pienamente nel libro ma molto meno nella trasposizione cinematografica. Nella declinazione virus-da-animali rientra, infine, il recente Contagion (2011) di Steven Soderbergh, film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino. Dopo il dilagare della cosiddetta “febbre suina”, nel film del giovane statunitense si scatenano i tentativi dei potenti di accaparrarsi con ogni mezzo i vaccini, senza trascurare neppure l’omeopatia a dimostrazione che l’avidità è sempre pronta ad intervenire.

Dopo questa breve manciata di sfumature sui virus balza agli occhi in maniera evidente come tali film abbiamo la paura come contraltare costante al virus, il panico per il diverso, per la malattia, per la morte. Dicono gli psicanalisti che il motore della libido è legato alla paura, alla sottile eccitazione dell’ignoto. Paura che, dicono, dovrebbe allenare al coraggio e di conseguenza il “piacere” del coraggio come assenza di paura. La messa in campo di energie per superare la paura crea, dicono sempre loro, quello stato di eccitazione, di piacere, di soddisfazione spesso impagabile. Eccitazione che in tutti i bambini arriva confrontandosi con la paura attraverso le fiabe percorse da orchi, lupi, draghi, streghe maligne eccetera. Ecco, quindi, che i bimbi si addormentano sereni ascoltando una tale fiaba. Visto il sempre grande successo dei “film di paura” a questo punto dobbiamo credergli.

MEDIATECAMBIENTE.IT

Pubblicato il nuovo sito per l’educazione ambientale!

È stata pubblicata online la nuova versione di www.mediatecambiente.it, uno spazio web che raccoglie progetti, sperimentazioni e novità che riguardano l’educazione ambientale attraverso l’audiovisivo.

Mediatecambiente è un progetto nato nel 2007 grazie alla collaborazione tra l’ARPA FVG – Laboratorio Regionale di Educazione Ambientale (LaREA) e il Sistema Regionale delle Mediateche del Friuli Venezia Giulia (di cui fanno parte la mediateca Pordenone di Cinemazero, la mediateca Mario Quargnolo di Udine, la mediateca di Gorizia Ugo Casiraghi e la mediateca di Trieste La Cappella Underground).

Il progetto si sviluppa grazie a un incrocio di competenze: da un lato l’ARPA FVG, sul piano scientifico ed educativo, dall’altro le mediateche su quello della comunicazione e cultura dell’audiovisivo.

Nel sito sono descritti e raccolti tutti i progetti svolti negli ultimi anni e i progetti in corso; inoltre sono disponibili più di 60 video, tra spot realizzati con le scuole, minidoc, tutorial e documentari.

Una delle sezioni più ricche del sito è quella dedicata agli spot realizzati con le scuole secondarie di secondo grado e con le università. In particolare, durante i laboratori audiovisivi della durata di circa 20 ore, gli studenti scelgono uno o più aspetti chiave legati al tema ambientale trattato, per sviluppare un’idea e trasformarla in uno spot video, legando così conoscenze tecniche del montaggio audiovisivo (curate da un esperto delle mediateche) all’approfondimento della tematica ambientale con un esperto dell’ARPA FVG.

Un altro format audiovisivo sul quale ha puntato il progetto Mediatecambiente è quello dei documentari quali veicolo culturale per sviluppare sul territorio riflessioni e progettualità volte alla sostenibilità. A tal proposito, dopo il successo di Un paese di primule e Caserme del 2014, dedicato al recupero delle caserme abbandonate in Friuli Venezia Giulia, sono stati prodotti tre documentari sugli aspetti socio culturali legati ai fenomeni meteo e il documentario Binari, sull’abbandono e recupero delle linee ferroviarie per promuovere progettualità legate al turismo lento e alla mobilità sostenibile. Binari è stato ufficialmente selezionato tra i migliori documentari italiani nell’edizione 2018 del Festival Cinemambiente di Torino.

Nel sito è visualizzabile anche un catalogo tematico per ricercare audiovisivi e progetti su tematiche inerenti l’ambiente e la sostenibilità. Sempre dal sito è possibile verificare quali film sono disponibili nelle diverse mediateche della regione.

Dal 2007, grazie alla collaborazione tra ARPA FVG e il Sistema Regionale delle Mediateche del Friuli Venezia Giulia, sono state organizzate più di 250 manifestazioni tra proiezioni cinematografiche e altri eventi per le scuole e il pubblico in regione. In particolare, ogni anno Mediatecambiente trova spazio in due festival regionali: Le voci dell’inchiesta organizzato da Cinemazero di Pordenone con una selezione specifica di documentari dedicati alle tematiche ambientali e il Trieste Science+Fiction Festival organizzato da La Cappella Underground con la sezione Future Environment sulla fantascienza e ambiente.

Mediatecambiente si rivolge ad appassionati di cinema e di ambiente, può essere utile agli studenti per approfondire tematiche ambientali in modo informale, agli educatori per progettare dei percorsi di educazione ambientale attraverso l’audiovisivo e ai videomaker per promuovere i loro progetti.

Nel contesto dell’educazione ambientale i mass media ricoprono un ruolo fondamentale. Per questo motivo dal 2018, è esistente un accordo con la RAI FVG per la messa in onda sistematica dei materiali video prodotti da Mediatecambiente.

La nostra costruzione della realtà è basata, in larga misura, sulle immagini della realtà stessa che oggi sono veicolate in gran quantità dal sistema mediatico. Anche per ciò che riguarda le tematiche dello sviluppo sostenibile, la loro rappresentazione mediatica è oggi, e continuerà ad essere nel futuro, fondamentale per indirizzare la consapevolezza e considerazione dei cittadini, e per il modo in cui le persone si relazionano a queste materie. In questa direzione, Mediatecambiente è un progetto mirato a valorizzare il ruolo degli strumenti audiovisivi per l’educazione, la divulgazione e disseminazione delle tematiche legate all’ambiente e alla sostenibilità.

«L’Italia sullo schermo» di Gian Piero Brunetta

Intervista con lo storico del cinema

Di Lorenzo Codelli

Da parecchi lustri il nostro amico Gian Piero Brunetta, infaticabile colonna dell’ateneo padovano, riscrive, aggiorna, rimette in discussione la propria Storia del cinema italiano, una bibbia apparsa in diverse versioni. Ha pubblicato ora L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale (Carocci Editore, 368 p.), una raccolta che spazia dalle tematiche del Risorgimento a quelle dell’attualità. Il regista Marco Tullio Giordana ammira in Brunetta «la capienza dello sguardo d’assieme, la capacità di iscrivere singoli film e autori nel grande flusso generale, come un esperto capace di ritrovare le acque degli affluenti nel grande fiume tranquillo che corre verso il mare». Abbiamo posto a Brunetta alcune domande.

Sfatare i miti è compito dello storico. Lo fai ad esempio per l’immagine di  Caporetto, così come per quella di Mussolini e delle sue imprese militari in Africa e in Spagna.

Sono uno storico che ama confrontarsi con le forme e metamorfosi del mito, ma in molti capitoli del libro, ho voluto vedere sotto luci, sfaccettature e misure di scala diverse le immagini  che costituivano mitologie legate alle sconfitte o ai trionfi bellici.  Caporetto in realtà si è  fissata nella memoria  come sinonimo di catastrofe in assenza di immagini  rappresentative di fonte italiana. Le uniche esistenti sono di parte tedesca e puntano a sottolineare, più verbalmente che visivamente, la diserzione e la viltà dei soldati e dell’esercito italiano in fuga. I vincitori non entrano in scena a Caporetto. Quanto alle immagini della conquista dell’Impero e della partecipazione alla guerra di Spagna  mi è sembrato che l’analisi dei testi non restituisse nulla di eroico o trionfale, ma mettesse in evidenza i limiti della potenza militare italiana alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il periodo aureo del neoorealismo lo descrivi in controluce, senza isolare cioè i maestri famosi.

In effetti degli autori del neorealismo mi sono occupato a lungo nelle mie opere precedenti, qui mi interessava mettere in evidenza il prevalere di un senso del Noi che guida  il percorso della rinascita nazionale e internazionale del cinema del dopoguerra, sia per quanto riguarda i soggetti del racconto che gli autori e la capacità del nostro cinema nel suo insieme di cogliere ed evidenziare, nel bene e nel male, caratteri identitari forti dei nuovi protagonisti della storia repubblicana visti nel loro muoversi incerto e in ordine sparso verso nuovi orizzonti europei.

Malgrado l’oggettività braudeliana del tuo approccio trasmetti spesso sprazzi di nostalgia per i bei tempi dei Fellini, Scola, Monicelli ecc.

Più che nostalgia è il senso di perdita di non pochi elementi connettivi del cinema italiano del dopoguerra che ne hanno fatto insieme una bottega artigiana, un luogo di condivisione, interazione  e  dialogo, e uno spazio unico di riconoscimento e riconoscenza nei confronti di alcuni padri e di vasti rapporti di parentela stilistica, narrativa, ideale e ideologica.

Com’è cambiata la metodologia storiografica nel corso dei decenni?

Si è passati attraverso varie fasi: la prima era fondata sul ricorso  alle incertezze e vuoti della memoria da parte di giornalisti che  cercavano di mettere  in ordine le loro conoscenze e ricordi, poi si è passati  ai primi veri tentativi di affrontare il cinema, nato da pochi decenni, con gli strumenti dello storico (penso per tutti a Pasinetti, Sadoul e Mitry). Nelle loro storie entrano strumenti di tipo positivistico e accumulativo ma anche strumenti più maturi di tipo connettivo e capaci di usare diversi tipi di fonti e di osservare la storia nel suo aspetto globale e interconnesso sia dal punto di vista dell’evoluzione linguistica che delle strategie economiche. Quando ancora le fonti filmiche erano pressoché off limits per lo storico sono state importanti le doti di serendipity e di abduzione, che hanno consentito, con pochi esempi filmici a disposizione di interpretare insiemi più generali. Oggi uno storico dispone di strumenti facilmente accessibili grazie alla rete e alle diverse piattaforme, inimmaginabili per la mia generazione. Il cinema del passato è riemerso progressivamente ai nostri occhi come il regno di Atlantide. La crescita delle discipline universitarie e la legittimazione della materia sul piano scientifico hanno aperto in questi ultimi decenni non poche strade nuove e consentito un vero scambio di metodi e informazioni sul piano internazionale.

Scrivendo dei film italiani post-2000 ti dimostri molto ottimista.

Mi dimostravo ottimista quando ho scritto quelle pagine agli inizi del millennio. Il paesaggio è molto cambiato, ma per quanto mi è stato possibile vedere anche negli anni che hanno preceduto questo arresto importante di tutte le attività produttive e dell’esercizio mi sembra che  sia sempre possibile imbattersi in film che fanno venire a persone come me la voglia di andare al cinema in sala, ma anche di vederlo in qualsiasi formato e di avvertire la voglia di tornare a scriverne, perché quel film  a vari livelli, di regia, di racconto, di recitazione, di scrittura, di effetti speciali, di usi dei suoni e rumori, ti ha trasmesso segnali di vitalità significativi. Grazie ancora a non pochi film di questi anni avverto ancora l’orgoglio di  dichiararmi cittadino del cinema italiano.

Su quali fonti potranno basarsi gli storici a venire?

In questi mesi di coronavirus è cresciuto in maniera malthusiana il rapporto con la rete sia in nuove forme attive che passive.  Alcune cineteche, che in passato erano inaccessibili come Fort Knox, ora consentono a tutti l’accesso ai loro tesori e non solo agli storici. Molte cineteche avevano già da tempo messo in rete la loro collezione di riviste e i loro archivi, e nel giro di qualche decennio gli storici potranno godere della possibilità di esplorare  diversi strati di fonti con ottiche sempre più comprensive e interdisciplinari con una semplice connessione e l’uso di una password. Nuove enormi praterie, dalle dimensioni smisurate, possono ancora aprirsi agli storici delle nuove generazioni, quando tutto questo sarà finito.

Qualcosa è cambiato

Di Marco Fortunato

Chi non ricorda l’omonimo film di James Brooks del 1997 nel quale al protagonista (Melvin, uno straordinario Jack Nicholson meritatissimo Premio Oscar come miglior attore) serve un lungo viaggio per rendersi conto della necessità di un cambiamento nella propria vita? Stesso destino tocca oggi alle sale cinematografiche che, in verità, ben prima dello scoppio della pandemia si stavano interrogando – anche se senza troppa convinzione – sul proprio futuro e che oggi si trovano costrette a fare i conti con una realtà (forse) definitivamente cambiata e a cui sarà necessario adattarsi.

E dunque a che punto siamo con questo viaggio verso il cambiamento? Cosa ci ha insegnato questo periodo di stop forzato e cosa, invece, dobbiamo ancora imparare?

Per prima cosa il lockdown ci ha messo di fronte alle criticità intrinseche al nostro sistema di mercato che derivano dalla sua peculiare struttura: il cinema è un mercato molto interconnesso (forse più di qualsiasi altro) dove, muoversi da soli e in maniera disorganizzata significa disperdere energie e ottenere scarsi risultati. E guai a dimenticarselo.

Altra constatazione è l’assenza di un piano B e l’enorme difficoltà anche solo ad immaginarlo. Numerose aziende, di ogni ramo e dimensione hanno scelto di riconvertirsi introducendo profonde revisioni nei propri processi produttivi per far fronte ad una realtà nuova che impone nuove sfide ma apre anche nuove opportunità. Il sistema cinema, in questo senso, ha invece manifestato tutta la sua rigidità.

Ma per fortuna qualche segnale incoraggiante si intravede all’orizzonte. Sul primo versante soprattutto. In tempo di crisi l’esercizio, da sempre il comparto più frammentato della filiera cinematografica, sta riscoprendo il valore dell’unione, scegliendo di affidarsi alle associazioni di categoria – che a loro volta riscoprono il loro ruolo – per organizzare le proprie richieste e tradurre i propri desiderata in proposte concrete. Si tratta di un passaggio fondamentale, poiché solo questa consapevolezza permette il passaggio successivo, ovvero quello di rendersi conto che, oltre a quelli interni, si possono creare ulteriori collegamenti con altri settori, sempre dello spettacolo, che hanno le stesse esigenze del cinema come ad esempio il teatro, la musica, ecc. In questo modo si crea massa critica che possa far valere il “peso” della cultura agli occhi dei decisori politici, si costruisce autorevolezza e ci si candida ad essere parte attiva e non passiva dei processi di cambiamento. In altre parole, si fa “lobby”, parola ben nota ad altri comparti economici che da molto prima dell’arrivo del Covid sanno come far sentire la propria voce in maniera forte ed unitaria.

Sul secondo fronte, quello dell’attitudine al cambiamento in senso vero e proprio, la strada sembra più lunga. Gli esempi sono tanti (le piattaforme streaming in primis o il ritorno a vecchie modalità di fruizione come il “drive-in”) ma, in generale, l’approccio del settore alle proposte di modifica dello status quo è apparso timoroso e frammentario.

Al di là delle legittime opinioni di ciascuno sulle singole ipotesi quello che è mancato è stato un confronto tempestivo, chiaro e soprattutto carico di quello spirito propositivo che avrebbe potuto essere determinante per arrivare a soluzioni condivise. Invece il mercato si spaccato con l’inevitabile conseguenza della nascita di progetti disorganici, la maggior parte dei quali risulterà difficilmente sostenibile nel lungo periodo.

La soluzione dunque, oggi come nel prossimo futuro, appare una sola, quella dell’unità di intenti e di azioni. Il primo passo è una presa di coscienza del proprio ruolo, che è culturale, ma anche economico e sociale. Quello successivo è quello della condivisione: di idee, progetti e se possibile soluzioni. La strada è ancora lunga, percorrerla insieme sarà più facile e, probabilmente, anche molto più stimolante.