“Cine Crea Colombia”, un’istituzione pubblica di Bogotá, è uno degli innumerevoli partner produttivi del bel film che ha conquistato la Concha de Oro al 70 Festival Internazionale del Cinema di San Sebastián: Los Reyes del mundo/Kings of the World, diretto dalla regista colombiana Laura Mora al suo secondo lungometraggio. La sconvolgente odissea nel “selvaggio West” del proprio Paese da parte di un gruppetto di ragazzi di Medellín per tentare di recuperare un terreno ereditato. Il racconto picaresco di Laura Mora s’ispira direttamente al “realismo magico” che aveva scosso la letteratura e il cinema dell’America Latina oltre mezzo secolo fa. Allora registi e romanzieri miravano a rivoluzionare le proprie società ancora in balia a dittature, sottosviluppo, imperialismo. Laura Mora offre un affresco senza speranza della Colombia attuale, in preda al dominio di pochi potenti invisibili e di forze repressive irrazionali. Chapeau ai partner lussemburghesi, norvegesi, francesi e messicani che hanno osato spingersi ben oltre le abituali storielle folk, rassicuranti e turisticheggianti.
A San Sebastián ne abbiamo applaudite alcune altre provenienti dallo stesso continente tuttora in ebollizione. El caso Padilla del cubano Pavel Giroud, un documentario mozzafiato realizzato utilizzando esclusivamente filmati d’epoca portati alla luce da poco. Heberto Padilla, noto poeta e militante rivoluzionario, nella primavera del 1971 venne messo in prigione per sospetto anti-castrismo. Scarcerato, si esibì in ore e ore di “mea culpa” in pubblico, presso l’Associazione degli Scrittori Cubani, mettendo in realtà sotto accusa il regime che stava franando verso una dittatura di tipo staliniano.
Alberto Moravia, Francesco Rosi, Pier Paolo Pasolini, Jean-Paul Sartre e diversi altri intellettuali internazionali sostennero la causa di Padilla prima che lo scrittore fosse costretto all’esilio negli Stati Uniti. La jauría del colombiano Andrés Ramírez Pulido, già vincitore del Grand Prix alla Semaine de la Critique di Cannes 2022, ci immerge anima e corpo in una prigione a cielo aperto nel mezzo della giungla. Un manipolo di teenager tenta di ribellarsi alle turpitudini quotidiane imposte loro da due guardiani. Uno violento e brutale, l’altro inutilmente “riformista”, simile a certi antieroi buñueliani. Il film è stato coprodotto da Colombia, Francia e Spagna. Andrés Ramírez Pulido condivide con la connazionale Laura Mora delle alte ambizioni utopistiche rare nel cinema contemporaneo.
Sono
quasi dieci milioni di chilometri quadrati la superfice del Canada, pressappoco
quella dell’intera Europa, ma abitata
da solo 38 milioni di abitanti. Come la Polonia. Per estensione è la seconda
nazione dopo la Russia e precede nella classifica sia Stati Uniti che Cina. Non
meraviglia quindi che quasi la metà dei film che componevano la sezione Discovery
del TIFF 2022 fossero di
produzione canadese. Un paese vasto, ricco, dinamico, giovane che produce una
grande quantità di film e soprattutto di opere prime di giovani autori. Quel
vivaio di talenti che ha sfornato nel corso del tempo artisti come Dan Aykroyd, David
Cronenberg, Xavier Dolan, Paul Haggis, George A. Romero, Denis Villeneuve, Atom
Egoyan, Denys Arcand, Ryan Gosling, James Cameron etc etc. e che ora ha virato
fluidamente verso un cinema al femminile.
Dei 21 titoli che componevano la sezione Discovery, ossia giovani autori al loro primo lungometraggio, ben 14 erano firmati da donne regista. Esordi nel lungometraggio che hanno portato al cinema un pubblico giovane, motivato e preparato. Un pubblico che mediamente non superava i 35 anni e che ha seguito le molteplici proiezioni festivaliere con ordinate e lunghe code. Uno dei titoli più acclamati è stato il canadese Something You Said Last Night di Luis De Filippis che inizia in auto, luogo universale per il cinema di conflitti e legami familiari, dove si ascolta a tutto volume i Ricchi e Poveri, gruppo musicale molto pop, arcinoto in Italia, ma anche in Canada sembra. O almeno in questa famiglia di origine italiana protagonista del film di Luis De Filippis. La giovane regista trans, alla sua opera prima dopo il corto Nonna Anna, racconta in maniera divertente e dinamica il variegato nucleo familiare che si reca in vacanza nel solito luogo ai bordi di un lago: Mona (Ramona Milano) con il marito Guido (Joe Parro) assieme alla figlia trans Renata (Carmen Madonia) e sua sorella Sienna (Paige Evans). Ispirata anche dalla propria esperienza familiare la regista inquadra con sensibilità e acume l’intimità familiare dei quattro attraverso una serie di piccoli ma significativi momenti domestici. E scardina con questo lavoro la concezione tradizionale della famiglia di origine italiana chiusa ad ogni novità che possa riguardare in qualche modo la sfera sessuale e non solo. Il visionario film d’esordio della regista, di origini italo/canadesi, intimamente tenero e rumorosamente divertente, scardina anche un altro luogo comune: quello della madre, potente e sulfurea matriarca italiana, che ha con la figlia trans non un rapporto conflittuale, come tante volte già visto sullo schermo, ma un rapporto stratificato di sottile complicità, facendo così della relazione madre/figlia la parte di gran lunga più toccante del film. Luis De Filippis rivela una straordinaria capacità di catturare l’imbarazzo e l’intimità dei corpi in relazione l’uno con l’altro. Principalmente con il personaggio di Renata (Carmen Madonia), riservata ma sicura di sé, dove riesce a far coesistere, nello stesso momento, il suo disagio esistenziale, quasi palpabile, accanto alla sua fiducia nel futuro, rappresentando il corpo trans sullo schermo bello, normale, sicuro di sé e amato. Non sorprende quindi che Something You Said Last Night abbia vinto il Change Maker Award del TIFF Next Wave, un premio in onore di film che elevano le voci e le questioni del cambiamento sociale.
Anche Aristotele and Dante Discover the Secrets of the Universe diretto dalla giovane regista trans statunitense Aitch Alberto è un dramma di formazione queer questa volta tratto da un romanzo bestseller del 2012 di Benjamin Alire Sáenz. L’esplorazione dell’identità culturale e sessuale di due adolescenti messicani-americani Aristotele Mendoza (Max Pelayo) e Dante Quintana (Reese Gonzales) nell’estate del 1987, un anno afflitto da disordini sociali e attivismo radicale contro l’AIDS. Il film (e così pure il romanzo) è raccontato attraverso il punto di vista di Aristotele, che non ha molti amici, o meglio, nessuno, prima di Dante. In questo coming out queer la regista Alberto ci mostra come nel 1987 sia duro essere giovani adolescenti e innamorati; come sia complicato il legame intenso e immediato che formano la coppia Aristotele e Dante. Film necessario anche se non sempre tutti gli snodi narrativi si collegano in modo fluido, alludendo a scene extra molto probabilmente eliminate in fase di montaggio.
Altra
donna regista che ha lasciato il segno è Bess Wohl con il suo lungometraggio di
esordio Baby Ruby, un inquietante thriller psicologico sulla maternità, sull’avere
un bambino e comportarsi come se questa esperienza non fosse mai accaduta. Un
film duro e aspro sugli aspetti buoni, e contemporaneamente meno buoni,
relativi al mettere al mondo qualcosa che avrà poi una vita autonoma. La vera
star del film non è tanto, quindi, Noémie Merlant o Kit Harington quanto la
neonata, i cui pianti incontrollabili perforano per 89 minuti i nostri timpani
e quelli della fragile madre in una lenta ma inesorabile discesa verso gli
abissi, che ricorda, in alcuni momenti, le torbide atmosfere del cinema di
David Lynch. Molte altre sono state le sorprese della bella e interessante
selezione Discovery, all’interno di questa 47ma edizione del Toronto
Film Festival, come Snow and the Bear della regista Selcen Ergun o Runner
della giovane regista Mirian Mathias.
Non
è stato facile, quindi, per la giuria della Federazione Internazionale Stampa Cinematografica,
composta dal sottoscritto, da Márcio Sallem (Brasile), Max
Borg (Svizzera), Andrew Kendall (Guyana) e Marriska Fernandes (Canada),
assegnare il premio Fipresci 2022 che deve segnalare, in qualche modo,
l’artista emergente alla sua prima prova. Dopo ampie discussioni alla fine il
premio Fipresci 2022 è stato assegnato unanimemente al film palestinese A
Gaza Weekend di Basil Khalil con la seguente dichiarazione: “Per la sua
empatia e intelligenza nel catturare lo zeitgeist e per il suo approccio audace
alla satira contemporanea e al cinema mondiale. La regia di Basil Khalil trova
spazio per i momenti più dolorosi e teneri delle crisi interpersonali e
contemporaneamente, con abilità, intensifica l’umorismo amaro catturando la
natura utilitaristica della sopravvivenza come una faccenda contemporaneamente molto
seria ma anche molto divertente“. Un’opera prima, quindi,
scoppiettante, carica di humour e ironia su temi come la striscia di Gaza, il
Covid, la sopravvivenza di queste popolazioni, sempre trattati con garbo e
sapienza, senza mai banalizzare situazioni e sensibilità così delicate come i
rapporti israelo-palestinesi.
Fra
i protagonisti anche la bravissima Mouna Hawa già interprete di Libere
disobbedienti innamorate-In Between di Maysaloun Hamoud distribuito in
Italia nel 2016 dalla nostra gloriosa TuckerFilm e ospite a Cinemazero in
quell’occasione. Speriamo ora che tra Mouna Hawa e il premio Fipresci si riesca
a traghettare sugli schermi italiani anche questa significativa opera prima.
Quindi Tucker: “Stay tuned!”
Il 24 settembre è stata inaugurata a Villa Manin e al Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia la mostra fotografica Pier Paolo Pasolini. Sotto gli occhi del mondo, a cura di Silvia Martín Gutiérrez, promossa da Cinemazero e ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, in occasione del centenario dalla nascita del grande artista, poeta, scrittore, intellettuale e regista italiano.
Con oltre 170 ritratti inediti e rari di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Roma, 1975), l’esposizione riporta alla luce interi servizi fotografici – fino ad oggi misconosciuti – puntando soprattutto sui grandi fotografi stranieri (alcuni di eccezionale fama, come Richard Avedon, Herbert List, Henri Cartier-Bresson, Jerry Bauer, Jonas Mekas, Lütfi Özkök, Erika Rabau, Duane Michals, Philippe Koudjina, Marli Shamir e tanti altri) e sui luoghi, i momenti e gli incontri che hanno contraddistinto la vita di Pasolini, restituendone l’immagine di uomo e artista nel mondo, fissata per sempre in decine e decine di pose diverse.
La mostra, che nasce con l’importante contributo di Cinemazero, scaturisce da un progetto di ricerca condotto per molti anni negli archivi di tutto il mondo dalla curatrice, e sviluppato per l’occasione insieme a Marco Bazzocchi, Riccardo Costantinie Guido Comis con un comitato scientifico d’eccezione. Proprio grazie a questa attività di ricerca, il pubblico potrà vedere per la prima volta alcuni servizi fotograficidel tutto inediti: l’incontro di Pasolini con Man Ray, per proporgli di disegnare il manifesto di Salò; Pasolini a Stoccolma (pochi giorni prima di essere ucciso), per farsi conoscere nell’ambiente del Premio Nobel; Pasolini nei Sud del mondo, con Alberto Moravia, Dacia Maraini, Maria Callas.
Quando Pasolini va a cercare l’alterità, l’anomalia, che poi ricostruisce sui set dei suoi film. O ancora nei Festival cinematografici e altre occasioni, dove incontra e si confronta con intellettuali e cineasti della sua stessa caratura come Orson Welles, Agnès Varda, JonasMekas e Jean-Luc Godard.
Pier Paolo Pasolini è stato probabilmente l’artista più fotografato del Novecento. Dai primi anni Cinquanta, quando arriva a Roma, fino ai giorni che precedono la sua morte, è stato colto in centinaia di situazioni, sia pubbliche che private, come se l’obiettivo fotografico lo avesse inseguito in ogni momento della sua vita. La curiosità intorno al Pasolini uomo e artista ha scatenato le macchine fotografiche di tutto il mondo.
Ogni servizio fotografico dedicatogli implica un aspetto particolare del luogo e del momento in cui lo scrittore si trova. Ogni fotografia che lo ritrae costituisce “un mondo”.
Pier Paolo Pasolini ha messo al centro della sua opera i luoghi dove non dominano le regole del mondo borghese occidentale: il Friuli, le periferie di Roma e del Sud, i continenti inesplorati, le grandi città moderne, da Parigi a New York. E i fotografi lo hanno ritratto proprio in questi luoghi, “dove la gioia è gioia e il dolore dolore”, come scrive lui nelle Ceneri di Gramsci (1957).
Così è nata una lotta segreta tra lo scrittore e la macchina fotografica: quando si trova in spazi domestici, Pasolini assume il ruolo dell’intellettuale che sta alla scrivania o del figlio adulto che non si vergogna di presentarsi sempre affiancato dalla madre; quando invece si trova in mondi lontani concentra su di sé la forza degli obiettivi riempiendo ogni scatto con la sua fisicità. In un certo senso li rende ancora più estranei attraverso se stesso. Ogni fotografo ha sottolineato in modi diversi questo rapporto: uno scrittore che si mostra con eleganti vestiti borghesi ma anche in canottiera e costume da bagno, un volto che sembra – talvolta – sorridere ma anche guardare ferocemente verso il mondo, come per sfidarlo, occhi che catturano l’obiettivo ma anche che si sottomettono dolcemente allo scatto del diaframma.
L’esposizione ci racconta con fotografie e numerosi materiali multimediali che gli scatti di Pasolini non possono costruire mai un insieme logico, coerente: egli è pronto a mettere in crisi l’idea della fotografia come immagine ricordo, come attimo di tempo fissato una volta per sempre. Questo “sempre” non vale per Pasolini. La mostra di Villa Manin, con le sezioni complementari del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, vuole proporre nuclei diversi costituiti da servizi fotografici che solo in apparenza sembrano seguire uno sviluppo ma che in realtà ci mostrano come ogni definizione cronologica di “quel” momento o di “quel” periodo risulti impossibile. Nuclei che espongono “mondi “micro” (una casa, un viaggio, un festival, un’occasione mondana…) che diventano “macro” nel testimoniare il suo – sempre personalissimo e originale – attraversare la storia e la società in cui vive. Mondi densi, pieni, vivi, a cui lo spettatore è chiamato a partecipare, dialogando – se possibile – con lo sguardo di Pasolini. A Trastevere nel 1953, a Parigi nel 1961, a New York nel 1966 e di nuovo nel 1969, a Berlino durante il festival, a Stoccolma pochi giorni prima di essere ucciso… Pasolini è sempre “diverso”: differente da come ci aspetteremmo di vederlo, “altro” da come anche grandi autori come Avedon o Cartier-Bresson pensavano di fissarlo con l’obiettivo.
Dunque Pasolini si è sottoposto, si è esposto, ma anche si è nascosto attraverso la fotografia, l’unica tecnica espressiva di cui non ha mai parlato se non con rapidissimi cenni.
Anche per questo il percorso espositivo di Villa Manin presenta, oltre alle fotografie, altri documenti – giornali, dichiarazioni, interviste, video – per contestualizzare le occasioni in cui sono nati i servizi fotografici. E poi fa sentire, con inedite sequenze audio, la voce di Pasolini come ulteriore strumento per rendere presente, o tentare di rendere presente, un autore che è sempre “in fuga”: in fuga da se stesso, in fuga dal mondo, in fuga attraverso le parole e le immagini dei suoi scritti e dei suoi film.
Al Centro Studi Pier Paolo Pasolini sarà presentato il percorso sulle case romane di Pasolini.
Dall’aprile 1954 al giugno 1959 il poeta abitò con la madre nella casa di Via Fonteiana 86, nel quartiere di Monteverde. Si trasferì successivamente nell’appartamento di Via Giacinto Carini 45, da cui nel 1963 si mosse per stabilirsi infine nella casa di Via Eufrate, 9 nel quartiere EUR.
Questi cambiamenti sono testimoniati dagli scatti presentati a Casarsa. I fotografi che documentano le case di Via Fonteiana e Via Carlini (Marisa Rastellini, Elio Sorci e Pietro Pascuttini) ci permettono di entrare dello studio del poeta e osservarlo alla macchina da scrivere, circondato da lettere, documenti, copioni cinematografici. Vediamo i quadri alle pareti e, in un caso, le tendine di organza alla finestra che s’affaccia su un terrazzino. Qualche anno dopo, la casa di Via Eufrate arredata con mobili Ottocento su cui si notano soprammobili esotici ricordo di viaggi in Africa o in India, divani di velluto, tappeti, fa da sfondo a un servizio di Jerry Bauer, fra i più interessanti per conoscere l’intimità del poeta, immortalato con la madre e gli amici più stretti.
La mostra Pier Paolo Pasolini. Sotto gli occhi del mondo vuole portare nel luogo dove Pasolini si è formato come poeta, il Friuli, tutti i luoghi dove è avvenuta la sua inarrestabile evoluzione: dal Friuli al Mondo, Pasolini ci guarda ancora e ci sfida dalle pareti di queste sale, sempre “in fuga dalla fotografia”.
Bertolucci attraverso la lente del taglio: il riscatto degli outtake di Novecento (1976)
Di Martina Zoratto
Affrontando lo
studio di una pellicola che si sia aggiudicata negli anni il titolo di “film di
culto”, è inevitabile confrontarsi con una quantità sterminata di monografie, saggi,
articoli e approfondimenti, accumulatisi negli anni e confluiti in una variegata
quanto interminabile bibliografia, impossibile da censire. Alla luce di questa
consapevolezza, trovandomi al cospetto di un monumento della cinematografia
nazionale quale è Novecento (Bertolucci, 1976), mi è sorto spontaneo
domandarmi: è ancora possibile raccontare un’opera simile da una prospettiva
inedita?
Proprio dal desiderio di carpire nuove
sfumature di una delle pietre miliari del cinema italiano, nasce il progetto Bertolucci
tagliato: gli outtake di Novecento (1976), che si propone di effettuare una
rilettura dell’opera alla luce di quanto reperito rovistando idealmente
nell’incalcolabile deposito di scarti filmici, che costituisce l’appendice
invisibile del nostro patrimonio audiovisivo.
Relegati per decenni ai margini dei cinema
studies, gli outtake diventano dei singolari quanto preziosi
strumenti di ricerca, in virtù della loro condizione di testimoni diretti del
concepimento e dell’evoluzione dell’essere filmico. Attraverso la lente ideale
del taglio, è stato infatti possibile svelare nuovi tasselli del maestoso mosaico
del XX secolo realizzato da Bertolucci, sbirciando in quegli anfratti narrativi
che rappresentano idealmente gli angoli ciechi della macchina da presa. Risalendo
il processo evolutivo dell’opera al fine di scoprire quanto di Novecento
sia rimasto dietro le quinte, sono entrata in contatto con la sfaccettata
dimensione mutilata dell’opera, nella quale le sforbiciature avvenute su
volontà dell’autore convivono con le limature imposte da agenti esterni.
La sfida di restituire le innumerevoli gradazioni
del taglio novecentesco mi ha condotto alla definizione di una serie di
categorie, tra cui i tagli di celluloide, ovvero le porzioni di
pellicola impressionata scartate al momento del montaggio, e i tagli di
cellulosa, coincidenti con i passaggi narrativi trattenuti in
sceneggiatura; non meno rilevanti i cosiddetti tagli abusivi, inflitti
clandestinamente al momento della distribuzione, e i tagli mancati,
associabili alla soppressione dei fotogrammi disturbanti reclamata dagli
spettatori più impressionabili.
Al fine di predisporre l’analisi interpretativa
di ciascun elemento, ho fatto riferimento a una coppia di preziosi documenti –
un trattamento e una stesura della sceneggiatura del film – entrambi conservati
presso il fondo Gideon Bachmann a Cinemazero. Questi, in qualità di fonti
primarie compartecipi della genesi del film, hanno fornito un supporto
insostituibile alla concretizzazione del progetto, a dimostrazione di come gli
archivi della mediateca non costituiscano delle immobili cataste di sterile
materiale, quanto dei pulsanti bacini di risorse.
Da questo fertile terreno, anche agli
scarti di pellicola è concessa l’opportunità di rifiorire.
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