«M’hai provocato e io ti distruggo»
Venti anni dalla scomparsa di Alberto Sordi
Di Andrea Crozzoli
Nel prossimo 2023, ormai alle porte, saranno già venti gli anni trascorsi dalla scomparsa di Alberto Sordi, un attore che ha rappresentato in maniera indelebile l’italiano medio, con le poche virtù e i tanti vizi. Un artista unico e insuperabile “nell’acchiappare rapinosamente i tratti, anche i più nocivi, del temperamento nazionale e restituirli in forma comica”, come scrisse a suo tempo con precisione Filippo Ceccarelli.
Il vero ingresso da protagonista nel cinema, nonostante avesse già alle spalle alcune decine di film, Sordi l’ha avuto nel 1952 con Lo sceicco bianco di Federico Fellini. Il regista romagnolo lo volle a tutti i costi, contro il parere di produttori ed esercenti, e il film fu un clamoroso fiasco. Caparbiamente, però, Fellini lo impose anche nel suo successivo I vitelloni (1953) e fu un successo clamoroso, costellato nel corso degli anni da numerosi altri film memorabili come Un americano a Roma (1954) di Steno, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi. Alcune sue iconiche battute sono entrate nel lessico popolare come: «M’hai provocato e io ti distruggo …» rivolto al piatto di maccheroni in Un americano a Roma. In mezzo secolo di attività ha lavorare in oltre 150 film, diventando l’attore che ha maggiormente rispecchiato le debolezze del nostro paese.
Nel febbraio del 1985 l’ho incontrato a Berlino, in veste di giurato, al FilmFestSpiele; una manifestazione dove, peraltro, era di casa avendo vinto nel 1973 l’Orso d’Argento come miglior attore protagonista in Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy. Nel 1981 poi Il marchese del Grillo di Mario Monicelli si aggiudicò l’Orso d’Argento grazie anche alla magnifica interpretazione di Alberto Soirdi nei panni del caustico marchese.
Durante l’intervista che gli feci in occasione del nostro incontro berlinese, a proposito del numero incredibile di film in cui aveva lavorato, lucidamente mi disse: «Il mio stile è quello di prendere pezzi di cronaca e rappresentarli… nell’immediato dopoguerra sono arrivato a dodici film in un anno. Non avendo il fisico del comico, perché allora doveva essere buffo, prendevo i personaggi della strada e li rappresentavo. Lo spunto era il neorealismo, e anziché fare un film drammatico lo facevo in chiave comica. In questo genere, che poi e stato chiamato “commedia all’italiana”, sono stato il primo, e siccome il costume in quegli anni cambiava così rapidamente, dovevo rappresentare subito la realtà che mi circondava. Prima che un nuovo cambiamento facesse invecchiare quella situazione.». Una scelta quindi programmatica e perseguita con enorme perseveranza e successo.
All’inizio della sua carriera Alberto Sordi fece non poca difficoltà ad imporre la sua cifra stilistica in cui interpretava personaggi comici ma cinici, spesso tragicamente amari nel fondo, che rappresentavano con satirica spietatezza l’italiano medio tendenzialmente bugiardo, doppiogiochista, un po’ codardo, prepotente con i deboli e servile con i potenti per mendicare qualche privilegio. Era arrivato addirittura a vestire, nel film di Vittorio De Sica Il giudizio universale (1961), i panni di un viscido mercante di bambini che li acquista in Italia per poi rivenderli in America, fornendo al personaggio una sua inquietante “etica professionale”; qualcosa, come scrisse acutamente Michele Serra, di “meravigliosamente ambiguo perché non si capisce quanto ci fosse di denuncia e quanto di compiacimento nei suoi personaggi”.
Alberto Sordi, sempre con grande ironia e pungente sarcasmo, nel corso della sua carriera ha rappresentato in maniera così efficace la pervasività dell’italiano medio da indurre, pensiamo, anche lo stesso Pier Paolo Pasolini ne La ricotta (1963), per bocca di Orson Welles, a definire quel tipo di personaggio come «… un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista …». Un’indignazione che arriverà fino a Nanni Moretti quando in Ecce Bombo, (1978) icasticamente griderà: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi… Te lo meriti Alberto Sordi».
Sì, ce lo meritiamo questo grande protagonista del cinema italiano, questo implacabile specchio cinematografico delle nostre debolezze che ancora oggi immutabilmente ci accompagnano “grazie a” quei personaggi qualunquisti e opportunisti, che cercano impunemente di ottenere, a spese del prossimo, il massimo del profitto con il minimo sforzo. Ci manca, però, un nuovo Alberto Sordi a rappresentarli.