Tra epiche battaglie di supereroi-bambini e torvi contadini galiziani, slasher lituani e ambigui turisti olandesi, il “festival diffuso” GRINDHOUSE (8 film per un sistema di 9 sale cinematografiche) è pronto a spiccare il volo e a celebrare il miglior cinema europeo di genere! Da un lato ghettizzati e dall’altro celebrati come reperti del tempo che fu, i film di genere segnano in realtà la ricchezza di una cinematografia (basti pensare alla recente esplosione della cinematografia coreana). Peccato che il circuito delle sale di qualità se ne occupi molto raramente: l’equivalenza “cinema europeo = cinema art house” e “cinema americano = cinema di genere” è ancora molto radicata, nonostante esista un’importante produzione europea di cinema di genere accompagnata da un pubblico interessato e specializzato nel settore. Pubblico mediamente giovane, molto attento e competente, che consuma questi film ai festival o attraverso l’home video e le piattaforme.
Ad aprire la rassegna nelle sale del Friuli Venezia sarà il premiatissimo AS BESTAS di Rodrigo Sorogoyen, vincitore di 9 Premi Goya 2023, il più importante riconoscimento del cinema spagnolo! Una coppia francese si trasferisce in un villaggio della Galizia per realizzare un agriturismo ecosostenibile. Quando si oppone all’installazione di pale eoliche, il voto contrario aggrava l’ostilità degli indigeni nei loro confronti. A farsi sempre più minacciosi sono soprattutto i selvatici fratelli Xan e Loren, proprietari di una piccola fattoria vicino a quella dei francesi. Un angosciante thriller rurale in cui entrambe le parti in causa hanno le loro ragioni e i loro torti ma in cui la spirale che si è innesca risulta più potente e inarrestabile di ogni posizione in campo. AS BESTAS sarà in programma, in versione originale con sottotitoli italiano, a Cinemazero di Pordenone lunedì 20 marzo alle ore 20.45.
I prossimi appuntamenti con GRINDHOUSE vedranno arrivare sugli schermi regionali PENSIVE di Jonas Trukanas, coming of age/ slasher lituano, THE INNOCENTS di Eskil Vogt, epica battaglia tra Bene e Male a metà tra Stephen King e Henrik Ibsen, e SPEAK NO EVIL di Christian Tafdrup, horror psicologico danese che trasporterà lo spettatore dentro un incubo da cui non si potrà tornare indietro!
I film in programma verranno votati dal pubblico di tutti i cinema coinvolti, per decretare il vincitore finale!
GRINDHOUSE – THE NEW EUROPEAN GENRE CINEMA IS COMING è un progetto selezionato all’interno di Collaborate to Innovate: il programma di Europa Cinemas costruito su tre idee fondamentali: innovazione, collaborazione, sostenibilità. Il progetto, curato da Leopoldo Santovincenzo, vede la partecipazione di 6 cinema italiani e 3 cinema sloveni (Kino Union Celje, Mestni Kino Domžale, Cinema Astra Firenze, Kinemax Gorizia, Cinemazero Pordenone, Kosovelov Dom Sežana, Cinema Classico Torino, Cinema Ariston Trieste, Visionario Udine) che, insieme, si sono posti l’obiettivo di conquistare una nuova “audience” per il cinema di genere.
La 73a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino ha recentemente concluso il suo usuale intensissimo viaggio cinematografico, guidata per il quarto anno consecutivo dall’italiano Carlo Chatrian, assieme a Mariette Rissenbeek. La direzione di questi ultimi anni ha portato una ventata di aria nuova a Berlino, rinnovando progressivamente con garbo e gusto la proposta sempre attenta ai temi di attualità e politicamente impegnata del festival. Le stesse classiche sezioni di Panorama e Forum, che seguiamo con attenzione in particolare in relazione alla nostra selezione di Pordenone Docs Fest, sono state in questi ultimi anni foriere di novità, sia sul versante degli autori coinvolti che delle forme narrative a cui hanno dato spazio. Complessivamente l’intero festival ha rinnovato il suo interesse per il documentario, e lo ha dimostrato non a caso la giuria internazionale, presieduta dall’eclettica attrice statunitense Kristen Stewart, e composta da personalità del calibro di Golshifteh Farahani, Valeska Grisebach, Radu Jude, Francine Maisler, Carla Simón e Johnnie To, che ha consegnato l’Orso d’Oro per il miglior documentario al maestro del genere Nicholas Philibert per il suo Sur l’Adamant, un lavoro che ha saputo incantare anche il largo pubblico. La giuria ha poi meritatamente premiato come miglior documentario The Eco di Tatiana Huezo, regista già molto affermata. Si tratta di un eccellente documentario di osservazione che testimonia lo sguardo sul mondo “in divenire” dei giovani di un remoto villaggio messicano, capaci di scoprire il mondo con originalità e profondità pur vivendo fuori da contesti maggiormente civilizzati.
È apparsa invece curiosa la scelta di
premiare Orlando, ma biographie politique,
che ha colpito la giuria proprio per quello che a noi è sembrato un escamotage
datato e fine a se stesso: la voice over narrante, certo splendidamente
scritta e capace di legare il racconto delle diverse vite di persone
transgender, disposta in maniera però abbastanza didascalica su immagini di
tableaux vivants forzatamente ricercate.
L’Italia ha
fatto la sua parte con diversi titoli di qualità o d’importanza sociale, sul
primo versante senz’altro il delizioso Massimo Troisi: laggiù qualcuno mi
ama di Mario Martone (film a cui peraltro Cinemazero ha prestato diversi
materiali d’archivio), mentre sul secondo Le mura di Bergamo di un
regista costantemente innovativo ma coerente con se stesso come Stefano Savona.
Nonostante la bontà di questi titoli e
l’importanza di questi autori, l’Italia ha si è ritagliata un posto nel
palmares nell’ambito della fiction, con il magnifico DiscoBoy di
Giacomo Abruzzese che ha vinto l’Orso d’Argento per il Miglior Contributo
Artistico. Il riconoscimento per Abruzzese conferma l’attenzione della
Berlinale per i registi emergenti, continuando a rappresentare un’occasione
unica per pubblico – ma anche per gli addetti ai lavori – di aggiornare il
proprio panorama cinematografico.
Ogni volta che partecipi ad un festival l’emozione e i buoni propositi sono gli stessi. I giorni precedenti alla partenza vengono spesi per pianificare in maniera maniacale l’agenda delle proiezioni, con un unico obiettivo: vedere il maggior numero di film possibili nel tempo a disposizione. Puntualmente le cose non vanno come previsto, perché i festival – in particolare quello di Berlino, sicuramente tra i più partecipati dalla città che lo ospita – sono anche opportunità d’incontri con i colleghi e di altri piacevoli contrattempi che si rivelano essere l’occasione per rivedere in corsa i propri piani.
Tra i dodici film visti, sui 18 totali, del concorso ufficiale che ha visto trionfare Nicolas Philibert con il suo documentario Sur l’Adamant, l’Orso d’argento per la miglior regia assegnato a Philippe Garrel per Le Grand Chariot e il Gran premio della giuria a Afire firmato dal veterano Christian Petzold, vogliamo segnalare un paio di titoli ci hanno davvero colpito e che speriamo possano arrivare presto sul grande schermo.
Uno di questi è senza dubbio 20.000 especies de abejas potente esordio del regista basco Estibaliz Urresola Solaguren che affronta con grande delicatezza ma allo stesso tempo in maniera molto incisiva il tema della disforia di genere, cioè la condizione di intensa e persistente sofferenza causata dal sentire la propria identità di genere diversa dal proprio sesso biologico. Lo fa attraverso la storia di Aitor, un bambino di otto anni che non accetta il suo nome, si rifiuta di tagliare i capelli, fa spesso la pipì nel letto e vuole sempre dormire nel lettone con la mamma. La sua è una famiglia come tante, con una sorella e fratello un poco più grandi e con genitori impegnati a gestire il lavoro e i loro disaccordi. Complice l’arrivo dell’estate, il contatto con la natura e la compagnia delle amorevoli nonne e zie, più propense ad ascoltarlo, il piccolo Aitor si pone domande via via più stringenti fino ad arrivare a quella cruciale che chiama in causa anche tutti coloro che lo circondano: “Perché tutti gli altri sanno chi sono e io no?”. Intorno a questo quesito, non privo di drammaticità, il giovane autore costruisce una riflessione profonda, delicata e ammantata di dolcezza, attenta a non scivolare mai nel pericoloso terreno del giudizio, specie verso gli “adulti” dei quali invece espone in maniera comprensiva i dubbi e l’immensa difficoltà nell’avere, di fronte ad una condizione così complessa, il comportamento giusto (ammesso che ne esista uno) e le risposte adeguate ai tanti dubbi del bambino.
Di grande interesse anche l’unico titolo italiano in concorso, Disco Boy, firmato di Giacomo Abbruzzese, anch’egli alla sua opera prima. Nel suo film si incontrano le vite di due guerrieri dal cuore puro che sognano una vita diversa. Uno, è Aleksei, bielorusso in fuga dal proprio passato e deciso a rifarsi una vita e disposto, per questo, ad arruolarsi nella Legione Straniera. Non importa cosa sia necessario fare: il suo unico obiettivo è quello di ottenere una nuova vita (e prima ancora una nuova identità) anche a costo di dover combattere guerre non sue. L’altro si chiama Jomo e vive sul delta del fiume Niger dove guida la lotta armata contro l’abuso di potere delle aziende petrolifere che devastano la “sua” terra, quella in cui la sua famiglia è nata, vive, e dai cui frutti ricava la sussistenza. Anche se sa di essere sconfitto in partenza decide di affrontare questa battaglia ed è pronto all’estremo sacrificio pur di difendere le sue radici e la sua identità. Ed è proprio intorno a questo concetto, quell’identità, che ruota il film e la sua scena concettualmente centrale, l’incontro tra i due guerrieri la cui lotta è filmata come una danza, utilizzando la camera termica al posto della macchina da presa, offrendo immagini inedite, dove vittima e carnefice si confondono, in un’alternanza di colori caldi e freddi. È solo una delle, efficacissime, idee narrative del film, che attraverso una serie di metafore, esplora il tema dell’identità. Sarà proprio lo scontro di questi due “soldati per caso”, infatti, a causare in Aleksei una rottura che lo costringe a fare i conti con se stesso, aprendo una strada che porterà ad esaudire, attraverso Alex, il sogno di Jomo: diventare un Disco Boy. Paradossalmente, quindi, la sua nuova identità finisce per diventare quella sognata dal suo nemico.
Una menzione la merita anche Past lives di Celine Song, regista di origini coreane che firma un delicato film sull’amore. Seppure il plot non sia particolarmente originale (quante volte nel corso degli anni capita a tutti noi di pensare alle molteplici pieghe che la nostra vita avrebbe potuto prendere o a cosa sarebbe successo se davanti a un bivio avessimo scelto un percorso diverso) il film sceglie un preciso punto di vista rispetto al dilemma dei protagonisti. Separatisi da ragazzini, troppo presto perché potesse nascere qualcosa, i due si ritrovano adulti tramite i social network e, malgrado siano divisi da migliaia di chilometri (lei si è trasferita a New York) decidono di incontrarsi.
E qui un film che avrebbe potuto essere una banale re-interpretazione di Sliding doors diventa un’acuta riflessione sul nostro rapporto con il destino e con le scelte di vita che abbiamo preso. Se è impossibile negare che una parte della vita sia governata dal caso e guidata da scelte che non abbiamo preso in completa autonomia (come quella di cambiare Paese nel caso della protagonista) è altrettanto vero che esistono delle scelte assunte in maniera consapevole, come quella di costruire una vita a fianco ad una persona. Ed è quando il passato si ripresenta che possiamo mettere alla prova quanto solide siano queste scelte. E scegliere se guardare al passato… o al futuro.
Tre titoli molto diversi tra loro ma accomunati dal fatto di essere opere prime, film che ci hanno colpito non tanto (o per lo meno non solo) per il contenuto ma anche per la forma ed il rigore dello stile. Tre voci nuove del cinema contemporaneo che se avranno l’occasione di incontrare il pubblico faranno sicuramente parlare di sé.
«Sono felice, orgoglioso e onorato di presiedere la giuria del
Festival di Cannes quest’anno. Nessun altro luogo al mondo suscita tanta voglia
di cinema quando si alza il sipario su un film in Concorso. Il cinema è unico.
Lo condividiamo. Guardare insieme intensifica l’esperienza.» ha dichiarato
il regista svedese Ruben Östlund, aggiungendo «In qualità di Presidente
ricorderò ai miei colleghi della Giuria il loro ruolo. Un buon film si collega
anche all’esperienza collettiva, stimola la riflessione e fa venire voglia di
discuterne. Quindi vedremo tutti i film insieme!».
Sulla visione in sala Östlund ha idee molto precise: «Un film
funziona in modo molto diverso se lo guardi su uno schermo individuale o se lo
guardi insieme al cinema. Cambia il ritmo del film. Trovo strano che un critico
cinematografico sieda da solo in un cinema a guardare un film!».
Dopo Francis Ford Coppola ed Emir Kusturica, Östlund è il terzo
regista nella storia del Festival di Cannes ad aver ricevuto due Palme d’Oro e
ricoprire, poi, anche il ruolo di Presidente della Giuria. Ma è il primo ad
assumere questo incarico l’anno successivo alla sua seconda incoronazione.
Per ritrovare una precedente personalità svedese a capo della
giuria cannoise dobbiamo risalire al 1973, cinquant’anni or sono, quando Ingrid
Bergman assegnò la Palma d’Oro a Un uomo da affittare di Alan Bridges ex
aequo con Lo spaventapasseri (Scarecrow) di Jerry Schatzberg.
A titolo di cronaca quell’anno il premio FIPRESCI della stampa
cinematografica fu assegnato a La grande abbuffata di Marco Ferreri.
In ogni caso è curioso riguardare le personalità che hanno
ricoperto il ruolo di Presidente di Giuria in questi ultimi anni e il film a
cui hanno dato la Palma d’Oro.
Ad esempio, Ruben Östlund, coerente autore di film
antropologicamente provocatori, ha ricevuto le sue due Palme d’Oro da
personalità estremamente diverse come Pedro Almodóvar, nel 2017 per The
Square, e Vincent Lindon, nel 2022 per Triangle of Sadness.
Per il resto nell’ultima decade la poltrona di Presidente di
Giuria è stata ad appannaggio quasi esclusivo del cinema hollywoodiano e
dintorni: nel 2013 Steven Spielberg (Palma d’oro a La Vie d’Adèle di
Abdellatif Kechiche), nel 2014 Jane Campion (Palma d’oro a Il regno
d’inverno di Nuri Bilge Ceylan), nel 2015 Joel ed Ethan Coen (Palma d’Oro a
Dheepan di Jacques Audiard), nel 2018 Cate Blanchett (Palma d’oro a Un
affare di famiglia di Hirokazu Kore’eda), nel 2019 Alejandro González
Iñárritu (Palma d’oro a Parasite di Bong Joon-ho) e nel 2021 Spike Lee
(Palma d’Oro a Titane di Julia Ducournau). Nel 2020 non c’è stata la
manifestazione causa Covid.
Per trovare un italiano a capo della giuria dobbiamo risalire fino
al 2012 con Nanni Moretti che premiò lo splendido Amour di Michael
Haneke.
Ruben Östlund è candidato quest’anno anche all’Oscar – sempre per Triangle of Sadness – in
due sezioni: miglior regista e migliore sceneggiatura non originale, a Cannes è
quasi di casa. Dei sei lungometraggi che compongono la sua breve filmografia,
oltre alle sopracitate due Palme D’Oro è stato selezionato due
volte nella sezione Un Certain Regard, dove ha vinto il Premio della
Giuria nel 2014 con Turist.
Claes Olle Ruben Östlund, questo il suo nome completo, nato il 13
aprile 1974 a Styrsö, contea di Västra Götaland, dopo aver studiato cinema a
Göteborg, nel 2004 dirige il suo primo lungometraggio, The Guitar Mongoloid,dove l’umorismo, come strumento di descrizione sociologica, già si stava
manifestando nel solco di una dialettica provocatoria che diventerà un po’ la
sua firma.
Ha dichiarato spesso la sua voglia di confrontarsi, di guardarsi
allo specchio e fare domande. Domande che sollecita nel pubblico affinché ”mettesse
in discussione come è costruita la società”. Altro suo fermo credo è che “il
film deve funzionare al cinema. È una configurazione completamente diversa
rispetto a quando guardi qualcosa su uno schermo individuale da solo. Cambiano
le dinamiche stesse del film!”.
Dichiara anche di essere stato, da sempre, ispirato dal film Sympathy
for the Devil (1968) di Jean Luc Godard. Il regista francese filmando i
Rolling Stones, ovvero la seconda rock band più famosa al mondo, veicolava nel
contempo dei contenuti politici in modo da raggiungere un più vasto pubblico.
I termini più spesso spesi per definire la sua cifra stilistica sono
“dialettica provocatoria”, “esame sociologico”, “umorismo corrosivo”. Bisogna,
infatti, riconoscere a Östlund un formidabile senso dell’humour visuale e
verbale nelle sue acide commedie, dove rifiuta la logica del bianco o nero e
rivolge il suo acuto studio del comportamento umano a tutte le categorie
sociali, come nell’elaborata scena in Triangle of Sadness, quando i
passeggeri della crociera di lusso, durante una tempesta, vengono presi da
conati di vomito. Una folle sequenza di 15 minuti, che supera persino il cinema
dei Monty Python; «Volevo girare in un film la prima scena al mondo con
qualcuno che caga e vomita allo stesso tempo!» ha dichiarato ridaccchiando
in un’intervista Östlund, fregandosene contemporaneamente dei critici
cinematografici che (sono parole sue) “vogliono spesso apparire più
intelligenti del film”.
A quarantanove anni Ruben Östlund ha ancora una luminosa carriera
davanti e una probabile terza Palma d’Oro con il suo prossimo film The
Entertainment System Is Down che si svolgerà durante un volo aereo a lungo
raggio. Subito dopo il decollo, i passeggeri ricevono la notizia che gli
schermi sui sedili non funzionano quindi le persone saranno costrette a
rimanere sole con i propri pensieri, senza altre distrazioni. Sarà interessante
ed istruttivo vedere come Östlund svilupperà l’osservazione del comportamento
degli esseri umani quando viene loro tolto l’oggetto di distrazione di massa.
Nel frattempo lo aspettiamo in Costa Azzurra nei panni di
Presidente di Giuria al prossimo 76mo Festival di Cannes (16-27 maggio). Viva
il cinema in sala!
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