Da
quattro anni in qua al veterano Festival di San Sebastián / Zinemaldia, giunto
alla 71 edizione, trionfano le registe. Nel 2023 la prima vincitrice spagnola a
conquistare la Concha de Plata è stata Jaione Camborda – nata 40 fa a San
Sebastián – grazie al film O corno. L’odissea d’una pugnace galiziana
costretta dagli eventi storici a emigrare in Portogallo. Una minuziosa
rievocazione psicosociale del regime franchista allo sfascio.
Ricca come e più di sempre la selezione di opere provenienti dall’America Latina, per gran parte coprodotte da enti e compagnie iberici ed europei. Un’occasione per i cineasti argentini, presenti in massa, per denunciare pubblicamente le mire trumpiane, autolesioniste, del candidato presidente Javier Milei.
Dal loro martoriato paese è giunto il film che più abbiamo apprezzato a San Sebastián: Puan, diretto da Maria Aiché e Benjamín Naishtat, coprodotto dall’italiana Kino Produzioni. Una satira pungente del milieu universitario con al centro il personaggio woodyalleniano di un docente di filosofia in crisi (il bravissimo Marcelo Subiotto, premiato con la Concha d’Argento). Il finale prefigura il crollo del sistema didattico nel suo complesso.
Nell’antico Teatro Victoria Eugenia è stata bene accolta la miniserie Nada di Mariano Cohn e Gastón Duprat, una perla della sezione “Culinary Zinema”. Una miniserie argentina dedicata alle pietanze favorite in Argentina, con Robert De Niro come guest star.
Il clima generale del Festival si è riconfermato mitissimo. Non solo per la perpetua presenza di surfisti a placare le onde oceaniche, spesso burrascose; soprattutto per il calore umano col quale le platee del Festival – persino quelle composte da austeri giornalisti – accolgono plaudenti, a ritmo di rap, la brillantissima sigla ufficiale che precede ogni proiezione. Che rara esperienza!
A
tre anni esatti da quel 9 settembre 2020, in cui Domenico (detto Nico) Naldini
ci ha lasciato, il Comune di Casarsa gli ha, doverosamente, intitolato la
Biblioteca Civica situata nella nuova e prestigiosa sede di Palazzo Burovich de
Zmajevich.
Ma Nico
Naldini non è stato solo poeta e scrittore.
Nella sua unica, pienissima e lunga vita è stato molto altro, anche se affettuosamente il cugino Pier Paolo Pasolini, a proposito delle sue poesie, scriveva: “Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere.”.
Sette
anni separavano Nico Naldini da Pier Paolo Pasolini. Nico era nato il 1° marzo 1929 a
Casarsa, in Friuli, da Enrichetta Colussi e Antonio Naldini, pilota di auto da
corsa, mentre Pier Paolo era nato il 5 marzo 1922 a Bologna da Susanna Colussi,
sorella di Enrichetta, e da Carlo Alberto Pasolini militare di carriera con
nobili origini ravennate.
Nico Naldini “era un poeta dall’animo fanciullesco … un
orso in forma umana, con la testa grossa, modi a volte fin troppo spicci, la
tendenza a passare in fretta dalla gentilezza all’irritabilità, se qualcosa non
gli andava bene.” come scrisse Alessandro Mezzena Lona in DoppioZero, l’11/09/2020, e rimase, volutamente,
sempre un passo dietro al cugino fino alla sua morte. Forse per la sua profonda
timidezza o forse per scelta, per non mettere mai nell’ombra le persone a cui
teneva tanto.
Ma
Nico Naldini aveva anche quella sferzante e contemporaneamente delicata
capacità di narrare gli altri senza nulla nascondere, compresa l’orientamento sessuale: «L’omosessualità
è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto.»
aveva dichiarato una volta.
Dopo l’università a
Trieste andò a Milano come direttore editoriale della Longanesi, per
trasferirsi infine a Roma, agli inizi degli Anni Settanta dove, come ebbe a
dichiarare Naldini stesso, «… con manovre tipiche di un Eugène de
Rastignac da strapazzo mi sono conquistato le simpatie di un grande produttore
come Alberto Grimaldi…». Al soldo di Grimaldi, Naldini svolgeva un
delicato lavoro di selezione dei moltissimi progetti che piovevano sulla
scrivania del produttore; un assistente/collaboratore di fiducia con mansioni
che comprendevano anche l’addetto stampa.
Affermava
con orgoglio e civetteria di essere stato «un ruffiano sopraffino» al
servizio di quello che, nella seconda metà degli Anni Settanta, produsse in
Italia tutto il cinema migliore: da Sergio Leone a Federico Fellini, da
Bernardo Bertolucci a Pier Paolo Pasolini, Petri, Ferreri ed altri ancora.
A
proposito di Fellini affermò una volta: «Gli ho fatto da ruffiano per tanto
tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me
poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva
volentieri, con Fellini.».
Con Alberto Grimaldi il cinema italiano godrà di una irripetibile stagione di
libertà
creativa unita ad ingenti capitali che permetteranno di realizzare opere come Novecento
di Bertolucci o Casanova di Fellini. «Nel cinema giravano molti più
soldi che nell’editoria – sottolineava con beffardo sorriso Naldini – dunque
molte più invidie e ghigliottine fra cui quella di rifiutare di produrre una Dama
delle camelie proposta da Franco Zeffirelli».
Naldini
raccontava che Grimaldi non andava mai sui set dei film che produceva, restava
sempre in ufficio circondato da una serie di telefoni per parlare con le Major
americane e farsi anticipare capitali attraverso prevendite dei diritti di
sfruttamento delle pellicole. «Il mio ufficio era quello delle
sofisticazioni maligne, oltre che delle esecuzioni: dalla sceneggiatura dovevo
tornare al trattamento, con tutti gli ingredienti che piacevano ai finanziatori
americani. Un lavoro perverso.» disse Naldini a proposito della
preparazione dell’abstract dalla sceneggiatura di Salò e le 120 giornate di
Sodoma da sottoporre agli americani senza spaventarli. Grimaldi all’epoca
cercava un fotografo di scena per il film di Pasolini che fosse discreto, fuori
dai giri romani, che non facesse trapelare nemmeno un’immagine prima
dell’uscita del film. Naldini suggerì una giovane fotografa inglese, del tutto
estranea ai giri romani, discretissima oltreché brava e sensibile. Fu così che
Deborah Imogen Beer divenne l’unica fotografa ufficiale dell’ultimo tormentato
lavoro di Pasolini Salò e le 120 giornate di Sodoma. Tutte le immagini
della Beer sono ora custodite in un fondo presso gli archivi di Cinemazero.
Nel
mondo della celluloide Nico Naldini cedette anche, nel 1974, alla tentazione
della regia con Fascista, documentario prodotto, ça
va sans dire, da Alberto Grimaldi, che suscitò all’epoca non poche
polemiche. “Naldini ha preso delle decisioni stilistiche direi ferree nel
progettare il film. Niente retorica antifascista, niente facile ‘ridicolo’ sul
fascismo, rappresentazione del fascismo attraverso materiale elaborato dai
fascisti stessi, cioè attraverso la loro idea falsa e vera di sé. […] Materiali
che si accumulano, e infine esplodono in una espressività abnorme e
involontaria. È stato un terribile gioco, e il film di Naldini gioca con questo
gioco. Per questo è un film bellissimo. Ma anche pericoloso, perché sono i
destinatari in buona fede che accettano il gioco. Quelli in cattiva fede fanno
il ‘loro’ gioco, cioè, come si sa, non sanno giocare. Il fascismo è un tetro
comportamento coatto.” scrisse acutamente Pier Paolo Pasolini in “Il
Messaggero” del 17 ottobre 1974.
Il
documentario di Naldini, dopo decenni di oblio, nel 2021 è stato restaurato in
2K ed editato in dvd grazie alla Grimaldi Film, CG Entertainment e,
naturalmente, Cinemazero.
Nico Naldini continuò a sfiorare il cinema anche nel suo ultimo trasferimento a Treviso, dove faceva il pendolare con Sidi Bou Said in Tunisia, e dove scrisse praticamente tutta la sua produzione letteraria. Fece da consulente nel 2014 per Abel Ferrara impegnato a girare Pasolini, un film che si interrogava sulla tragica fine del poeta, interpretato da Willem Dafoe. Mentre, a pochi mesi dalla morte, con la sua consueta verve, fece da voce narrante nel documentario In un futuro aprile. Il giovane Pasolini diretto da Francesco Costabile e Federico Savonitto, sugli anni difficili e incantati della giovinezza in Friuli. Impegni assolti per amicizia, come spesso gli accadeva. Una frase di La Rochefoucauld che sottoscriveva in pieno e che meglio lo ritrae dice che “Il più grande sforzo dell’amicizia non è quello di mostrare i nostri difetti a un amico, ma quello di fargli vedere i suoi.” Nico Naldini l’ha posta nel testo introduttivo del suo Alfabeto degli amici del 2004 come franca ma delicata dichiarazione d’amore verso il prossimo.
Una constatazione? Un auspicio?
Probabilmente entrambi, o almeno questa è l’impressione che è emersa a margine
del convegno – dal titolo omonimo a quello dell’articolo – che si è tenuto a
Mantova pochi giorni fa nell’ambito degli Incontri del cinema d’Essai
organizzati dalla Federazione Italiana dei Cinema Essai, ormai diventati l’osservatorio
privilegiato sulla situazione del settore. Quest’anno il focus è stato sulla
produzione nazionale, spesso accusata di essere eccessiva e di livello non
adeguato, con la conseguenza di saturare spazi di mercato senza ottenere un
corrispondente riscontro di pubblico e dunque, in ultima analisi, di non
contribuire alla ripresa del mercato.
Sul primo aspetto i numeri
forniti da Cinetel lasciano poco spazio all’interpretazione. Nel 2023 (e il
dato si ferma al 30 settembre!) sono stati prodotti complessivamente ben 560
film di cui 250 in Italia o in coproduzione con il nostro Paese. Nell’ultimo
triennio prepandemico 2017-19, per avere un confronto, i lungometraggi erano 442
in totale di cui 172 italiani. Un dato che deve far riflettere perchè, come ha
ricordato Alberto Barbera è sintomo di un’ansia di produrre eccessiva
probabilmente figlia anche dei meccanismi di sostegno pubblico che
hanno messo a disposizione sempre più risorse evidentemente non sempre utilizzate
nel modo adeguato. Perché il
cinema non ha bisogno di più film (e il ragionamento ovviamente non vale solo
per quelli italiani) ma di film più belli. Di film che sappiano parlare al
pubblico e di un sistema che si sappia muovere con una linea strategica chiara.
La prova è sotto gli occhi di
tutti ed è quel Io capitano che,come ha sottolineato Benedetto
Habib, presidente Unione produttori Anica, alla quarta settimana di
programmazione raccoglie ancora risultati lusinghieri e, ad oggi, come si può
vedere nella tabella sottostante rappresenta il 7° risultato della stagione,
sfiorando i 2,5 milioni d’incasso.
Un film che, al di là dei gusti
personali, può contare su un lungo lavoro di scrittura durato oltre tre anni,
su scelte distributive strategiche forti – in primis quella di uscire
immediatamente dopo la Mostra del Cinema, per massimizzarne l’impatto
comunicativo – e su un attento lavoro di promozione sul territorio e nelle sale
che ha visto il regista, Matteo Garrone, impegnato in prima persona tanto che proprio
durante la kermesse mantovana l’autore ha voluto incontrare ancora una volta il
pubblico visto che il suo film era ancora in programmazione proprio al cinema
Ariston sede degli Incontri FICE.
Una disponibilità, quella dei
cosiddetti “talent”, ancora troppo spesso sottovalutata, e invece fondamentale
a tutti i livelli per recuperare quel rapporto con gli spettatori. Lo ha
ribadito, con forza, anche Marina Marzotto, presidente AGICI – Associazione
Generale Industrie Cine-Audiovisive Indipendenti. Non è un caso che in vetta
alla classifica dei film italiani più visti, se escludiamo alcuni titoli
mainstream (come Me contro te e Tramite amicizia) ci siano proprio
quei titoli accompagnati da lunghe tournée di incontri con regista e cast come L’ultima
notte di Amore e Il sol dell’avvenire.
C’è poi il tema del livello
qualitativo, che è strettamente connesso a quello quantitativo. Se le strutture
produttive non crescono (come i dati dicono) in proporzione al numero di film
prodotti è evidente che non si sta facendo altro che fare di più con le stesse
forze in campo. È inevitabile che questo surplus sia di qualità minore perché
sconta una riduzione dell’impegno, economico e concettuale, in tutte le fasi
della lavorazione. Sarebbe al contrario utile investire più tempo e risorse
nella realizzazione delle singole opere e dare maggiore rilevanza alla fase
creativa, come ha chiesto espressamente Francesco Martinotti di ANAC che
ha suggerito ad esempio ai produttori ad
organizzare momenti di confronto per socializzare i progetti in lavorazione. Potrebbe
essere un’operazione interessante soprattutto se, in parallelo, verrà attivata
una politica di seria analisi del pubblico, portata avanti dagli esercenti.
Perché se da anni sentiamo ripetere che non esiste più UN pubblico ma TANTI
pubblici spesso ci si ferma qui nel senso che non ci si chiede come fare per
conoscere meglio i propri pubblici, operazione che sarebbe tanto più necessaria
dopo un evento come la pandemia che, probabilmente, ha cambiato in maniera
significativa molte abitudini di consumo, tra cui anche quelle culturali.
Appare opportuna, dunque, un’operazione di analisi dei diversi “pubblici”:
quali caratteristiche e abitudini li accomunano e quali li dividono? Quali sono
i pesi percentuali delle diverse fasce d’età? Com’è possibile fidelizzarli?
Troppo spesso le risposte a queste domande sono affidate a studi generali
mentre su questo aspetto dovrebbero lavorare, quotidianamente, i gestori delle
singole sale perché questa conoscenza è il prerequisito indispensabile per
costruire quel rapporto di fiducia tra IL cinema e I SUOI spettatori, aspetto
questo che rappresenta l’essenza dell’esercizio d’essai.
Nel corso del dibattito sono
anche emerse altre proposte concrete, che interessano i diversi attori della
filiera. Dal punto di vista produttivo si è auspicata una revisione del sistema
di contribuzione e sostegno che possa superare alcuni automatismi e ritornare a
privilegiare i progetti che ottengano un ragionevole riscontro in sala (come
avveniva peraltro in passato). Dal punto di vista comunicativo e promozionale è
stata sottolineato come una maggior partecipazione dei talent alle
presentazioni potrebbe essere incentivata contrattualizzandola già in fase di
produzione del film. Infine alcuni esercenti, intervenuti in chiusura di
convegno, hanno esortato i loro colleghi a fare sistema per esportare le buone
pratiche sia rispetto agli strumenti di contatto che di fidelizzazione degli
spettatori.
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