UNSERE BERLINALE
di Marco Fortunato
Ogni volta che partecipi ad un festival l’emozione e i buoni propositi sono gli stessi. I giorni precedenti alla partenza vengono spesi per pianificare in maniera maniacale l’agenda delle proiezioni, con un unico obiettivo: vedere il maggior numero di film possibili nel tempo a disposizione. Puntualmente le cose non vanno come previsto, perché i festival – in particolare quello di Berlino, sicuramente tra i più partecipati dalla città che lo ospita – sono anche opportunità d’incontri con i colleghi e di altri piacevoli contrattempi che si rivelano essere l’occasione per rivedere in corsa i propri piani.
Tra i dodici film visti, sui 18 totali, del concorso ufficiale che ha visto trionfare Nicolas Philibert con il suo documentario Sur l’Adamant, l’Orso d’argento per la miglior regia assegnato a Philippe Garrel per Le Grand Chariot e il Gran premio della giuria a Afire firmato dal veterano Christian Petzold, vogliamo segnalare un paio di titoli ci hanno davvero colpito e che speriamo possano arrivare presto sul grande schermo.
Uno di questi è senza dubbio 20.000 especies de abejas potente esordio del regista basco Estibaliz Urresola Solaguren che affronta con grande delicatezza ma allo stesso tempo in maniera molto incisiva il tema della disforia di genere, cioè la condizione di intensa e persistente sofferenza causata dal sentire la propria identità di genere diversa dal proprio sesso biologico. Lo fa attraverso la storia di Aitor, un bambino di otto anni che non accetta il suo nome, si rifiuta di tagliare i capelli, fa spesso la pipì nel letto e vuole sempre dormire nel lettone con la mamma. La sua è una famiglia come tante, con una sorella e fratello un poco più grandi e con genitori impegnati a gestire il lavoro e i loro disaccordi. Complice l’arrivo dell’estate, il contatto con la natura e la compagnia delle amorevoli nonne e zie, più propense ad ascoltarlo, il piccolo Aitor si pone domande via via più stringenti fino ad arrivare a quella cruciale che chiama in causa anche tutti coloro che lo circondano: “Perché tutti gli altri sanno chi sono e io no?”. Intorno a questo quesito, non privo di drammaticità, il giovane autore costruisce una riflessione profonda, delicata e ammantata di dolcezza, attenta a non scivolare mai nel pericoloso terreno del giudizio, specie verso gli “adulti” dei quali invece espone in maniera comprensiva i dubbi e l’immensa difficoltà nell’avere, di fronte ad una condizione così complessa, il comportamento giusto (ammesso che ne esista uno) e le risposte adeguate ai tanti dubbi del bambino.
Di grande interesse anche l’unico titolo italiano in concorso, Disco Boy, firmato di Giacomo Abbruzzese, anch’egli alla sua opera prima. Nel suo film si incontrano le vite di due guerrieri dal cuore puro che sognano una vita diversa. Uno, è Aleksei, bielorusso in fuga dal proprio passato e deciso a rifarsi una vita e disposto, per questo, ad arruolarsi nella Legione Straniera. Non importa cosa sia necessario fare: il suo unico obiettivo è quello di ottenere una nuova vita (e prima ancora una nuova identità) anche a costo di dover combattere guerre non sue. L’altro si chiama Jomo e vive sul delta del fiume Niger dove guida la lotta armata contro l’abuso di potere delle aziende petrolifere che devastano la “sua” terra, quella in cui la sua famiglia è nata, vive, e dai cui frutti ricava la sussistenza. Anche se sa di essere sconfitto in partenza decide di affrontare questa battaglia ed è pronto all’estremo sacrificio pur di difendere le sue radici e la sua identità. Ed è proprio intorno a questo concetto, quell’identità, che ruota il film e la sua scena concettualmente centrale, l’incontro tra i due guerrieri la cui lotta è filmata come una danza, utilizzando la camera termica al posto della macchina da presa, offrendo immagini inedite, dove vittima e carnefice si confondono, in un’alternanza di colori caldi e freddi. È solo una delle, efficacissime, idee narrative del film, che attraverso una serie di metafore, esplora il tema dell’identità. Sarà proprio lo scontro di questi due “soldati per caso”, infatti, a causare in Aleksei una rottura che lo costringe a fare i conti con se stesso, aprendo una strada che porterà ad esaudire, attraverso Alex, il sogno di Jomo: diventare un Disco Boy. Paradossalmente, quindi, la sua nuova identità finisce per diventare quella sognata dal suo nemico.
Una menzione la merita anche Past lives di Celine Song, regista di origini coreane che firma un delicato film sull’amore. Seppure il plot non sia particolarmente originale (quante volte nel corso degli anni capita a tutti noi di pensare alle molteplici pieghe che la nostra vita avrebbe potuto prendere o a cosa sarebbe successo se davanti a un bivio avessimo scelto un percorso diverso) il film sceglie un preciso punto di vista rispetto al dilemma dei protagonisti. Separatisi da ragazzini, troppo presto perché potesse nascere qualcosa, i due si ritrovano adulti tramite i social network e, malgrado siano divisi da migliaia di chilometri (lei si è trasferita a New York) decidono di incontrarsi.
E qui un film che avrebbe potuto essere una banale re-interpretazione di Sliding doors diventa un’acuta riflessione sul nostro rapporto con il destino e con le scelte di vita che abbiamo preso. Se è impossibile negare che una parte della vita sia governata dal caso e guidata da scelte che non abbiamo preso in completa autonomia (come quella di cambiare Paese nel caso della protagonista) è altrettanto vero che esistono delle scelte assunte in maniera consapevole, come quella di costruire una vita a fianco ad una persona. Ed è quando il passato si ripresenta che possiamo mettere alla prova quanto solide siano queste scelte. E scegliere se guardare al passato… o al futuro.
Tre titoli molto diversi tra loro ma accomunati dal fatto di essere opere prime, film che ci hanno colpito non tanto (o per lo meno non solo) per il contenuto ma anche per la forma ed il rigore dello stile. Tre voci nuove del cinema contemporaneo che se avranno l’occasione di incontrare il pubblico faranno sicuramente parlare di sé.