Il cinema al cinema 2023: ricominciamo da tre!

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              Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                                     sentieri di cinema!

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Di Andrea Crozzoli

Con l’arrivo di dicembre fioriscono, come sempre, classifiche sui migliori film dell’anno, bilanci sull’annata cinematografica, riflessioni sull’andamento del cinema al cinema e via discorrendo. Non possiamo quindi sottrarci dal fare anche noi una piccola riflessione su cosa resterà, a futura memoria, dei tanti film italiani usciti in questo travagliato 2023.

A nostro avviso tre sono i titoli che hanno segnato l’annata cinematografica: Io capitano di Matteo Garrone, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti e C’è ancora domani di Paola Cortellesi; tutti film portatori di un forte messaggio civile, politico, sociale, anche se ognuno declinato secondo la particolare sensibilità dell’autore. Matteo Garrone ha affrontato il tema dell’immigrazione dall’Africa in Io capitano con la sua particolare capacità di guardare ben oltre il proprio ombelico, di indagare mondi che non sono i suoi, ma a cui dà voce in chiave poetica, per lanciare contemporaneamente una sfida su alcune cose che crediamo di conoscere, come i folli viaggi a piedi nel Sahara o i campi di tortura gestiti dalla mafia libica. Un viaggio, quello di Io capitano, come ricerca dell’emancipazione e non semplice fuga per la sopravvivenza. Ma più che la migrazione, la materia sulla quale sembra indagare magistralmente Garrone è il percorso di maturazione del giovane Seydou, che nella scena finale esplode, dopo aver provato tutte le emozioni del mondo, in una precoce presa di coscienza, una raggiunta maturità. Il film può considerarsi una sorta di rilettura contemporanea dell’Odissea che si rispecchia nel sogno dei migranti di “realizzarsi” altrove, quell’altrove davanti il quale Garrone si ferma, senza sbarcare in Italia. Dopo il Leone d’Argento a Venezia Io capitano di Matteo Garrone è stato indicato dall’Italia a comporre la shortlist dei papabili per concorrere all’Oscar 2024 come miglior film straniero. Sono quindici, infatti, i titoli internazionali all’interno dei quali verrà selezionata, il 24 gennaio 2024, la cinquina finale per la corsa all’Oscar la cui cerimonia è prevista a Los Angeles il 12 marzo 2024.

L’altro film che rimarrà a futura memoria di questa annata è il surreale, incredibile, ammirevole ma anche affettuosamente insopportabile Il sol dell’avvenire dello splendido settantenne Nanni Moretti che confeziona un melting pot del proprio immaginario filmico/esistenziale: dalle canzoni in macchina, alle coreografie da musical in strada, allo sguardo a tratti “allucinato” del protagonista. Dentro un pesante passato (Guerra Fredda, Comunismo, rivolta del ’56 in Ungheria), si affianca un confuso presente (rapporto matrimoniale in crisi, nuovi registi, piattaforme streaming), che sfocia in un onirico futuro che può avere solo la dimensione di un sogno. Un importante film che è una riflessione, senza sconti sul tempo andato, sull’invecchiare e sulla difficoltà di rapportarsi di fronte al mondo che cambia troppo in fretta. Tre film in uno per quest’opera politica, ironica e sentimentale, una sorta di matrioska cinematografica fatta di autocitazioni; quasi un film testamento sulla morte, nelle sue diverse declinazioni: della politica, dell’amore, della morale e del cinema stesso. Ma alla fine arriva il sol dell’avvenire seppur in forma onirica.

Il terzo film di questo 2023 è, senza ombra di dubbio, C’è ancora domani di Paola Cortellesi, un fenomeno dagli aspetti che travalicano il cinema stesso per addentrarsi nel mondo della violenza sulle donne, nel patriarcato. Nel film della Cortellesi il discorso sulla donna è evidente dalla prima scena che si apre con uno schiaffo alla protagonista come violenza domestica di routine, perpetrato come atto dovuto. Un film apprezzabile nello scuotere lo spettatore di fronte a una problematica come la violenza domestica, purtroppo, ancora di scottante attualità, narrata nel film attraverso svariati cambi di tono che servono a stemperare qualcosa che gli occhi non vorrebbero vedere e le orecchie non vorrebbero sentire. Non, quindi, un roboante grido di protesta, ma una poetica astrazione della violenza che in un caso si trasforma in uno struggente tango a sostituire le botte inferte e ricevute. Astrazione che scuote ancora di più lo spettatore. Nel film le donne, complessivamente, sono molto più solide degli uomini, in particolare dell’ottuso marito della protagonista, che si vergogna di essere povero e giustifica la propria rabbia affermando: «Ho fatto due guerre». Il film è sostanzialmente un monito forte ed orgoglioso contro la violenza domestica perpetrata sulle donne cui farà da contraltare quell’apertura che nel 1946 permise a tutte le donne di poter esprimere il proprio pensiero politico e sociale. Alcune date possono in qualche modo chiarire cronologicamente il susseguirsi degli enormi cambiamenti avvenuti in un Paese tutto da rifare: il 19 luglio 1943 avviene il primo bombardamento su Roma occupata dai nazisti con 3.000 morti; il 4 giugno 1944 le truppe americane entrano a Roma che diviene “città aperta”; il 2 giugno 1946 il primo suffragio universale che segna la nascita della Repubblica con le donne al voto per la prima volta (82% l’affluenza alle urne). La continuità fra passato e presente nella pellicola della Cortellesi è suggerita dalla scelta di accompagnare con brani musicali moderni alcuni snodi narrativi, dando una connotazione pop nuova e, a suo modo, originale, dove tutto è detto, spiegato, mostrato, in un percorso, tutto sommato, di profonda prevedibilità, seppure permeato da brevi lampi di ironia. Un film perfetto per ogni tipo di pubblico, come afferma la critica più sofisticata, con uno svolgimento confezionato così bene da lasciare ammirati: piace al critico come alla zia Pina. È cinema popolare, di cui si sentiva, però, estremo bisogno dopo quasi tre anni di sofferenza delle sale per la pandemia. C’è ancora domani è un intelligente film che parte dal passato per lanciare un messaggio di speranza sul futuro, prendendo spunto dalla condizione femminile raccontata con passione e amarezza. Come in ogni film che si rispetti c’è la realtà ma ci sono anche i sogni. Come a dire che c’è ancora un domani.

A Natale puoi… andare a Cinemazero!

A Natale puoi… venire in sala!

Sfruttare la pausa natalizia per venire al cinema è ben più di una tradizione, è quasi un obbligo, soprattutto considerato il ricco programma che ci aspetta quest’anno sul grande schermo, anzi sui grandi schermi, di Cinemazero.

Immancabile l’ultimo film di Woody Allen, cinquantunesima opera di uno dei cineasti più prolifici del nostro tempo, che con Coup de chance – Colpo di fortuna ritorna con (l’ennesima) variazione sul tema, anzi sui temi, che hanno caratterizzato la sua filmografia: l’amore e il ruolo del caso.  Emblematica la scena iniziale del film, un piano sequenza che coglie il primo incontro tra i due amanti Fanny e Alain, lei impiegata in una casa d’aste, lui scrittore, che si incontrano, appunto per caso, in una strada di Parigi dopo essersi conosciuti anni prima in un liceo di New York. C’è un senso preciso dietro questa scelta tecnica – quella del piano sequenza – che, grazie anche alla maestria di Vittorio Storaro storico direttore della fotografia di Allen, spinge immediatamente lo spettatore a riflettere sulla “casualità” (chi di noi non ha avuto almeno una volta nella vita un incontro casuale che ha cambiato la giornata?) e ad immedesimarsi nello stato d’animo della protagonista il cui obiettivo sarà capire da che parte sta andando la sua vita. Il senso del film ci viene dunque svelato subito e lo svolgimento, costruito sul contrasto tra il caso e la premeditazione, trova incarnazione nei due uomini che si incrociano nella vita di Fanny. Da una parte Alain, artista senza radici innamorato dell’incertezza, dall’altra Jean, il marito di Fanny, ricchissimo consulente finanziario, uomo possessivo e abitudinario, convinto al contrario che il caso non esista e la fortuna di un uomo vada costruita e manipolata. Presa in mezzo tra i due uomini, la donna – che incarna in qualche modo entrambe le posizioni essendo un ex animo ribelle convertitasi a una vita di agi e sicurezza – rappresenta il vertice debole di questo triangolo amoroso. Come decidere da che parte stare? Se è il caso a far nascere il dubbio, sarà anch’esso a dirimerlo? Basterà seguire l’amore o servirà anche un colpo di fortuna? Pochi autori hanno l’abilità di Allen nel raccontare come gli scherzi del caso possano intervenire nei rapporti di coppia, anche con esiti drammatici, senza tuttavia sconfinare nella tragedia più cupa, ma mantenendo sempre uno sguardo ironico, beffardo e quasi canzonatorio nei confronti degli sforzi dei suoi personaggi che si affannano a controllare un destino del quale pensano essere artefici, ma che in realtà sfugge loro continuamente di mano

Chi di fortuna ne ha avuta ben poca è stato di certo Enzo Ferrari protagonista di Ferrari, film che riporta dietro la macchina da presa il maestro Michael Mann, autore, tra gli altri di film cult come Heat – La sfida (il primo film a vedere insieme Roberto De Niro e Al Pacino come protagonisti) e Insider – Dietro la verità che ricevette ben 7 candidature agli Oscar. Per inquadrare al meglio Ferrari conviene, come spesso accade con i film stranieri, partire dal titolo originale “Enzo Ferrari: The Man and The Machine” per capire meglio il senso di un’operazione che non è un semplice biopic e che rifugge, l’opzione, forse assai più semplice, di raccontare il mito di Ferrari per concentrarsi sull’uomo e sulle macchine, passione e ragion d’essere di un’intera vita. Un ritratto che mescola motori meccanici e sentimentali con continui passaggi tra i tormenti e le contraddizioni dell’uomo e quelle dell’imprenditore, disposto a tutto pur di salvare la sua azienda e il suo sogno. Per raccontarlo Mann fa una precisa scelta di campo, quella di focalizzarsi su un periodo molto breve seppure ricchissimo di eventi, della vita di Ferrari, l’estate del 1957. Un momento chiave per l’azienda e la vita familiare del patron delle rosse, in cui è stato costretto a giocarsi tutto, sia a livello professionale che personale, andando incontro, rigorosamente alla massima velocità, ad un rischio imponderabile, nel quale si giocherà il tutto per tutto.

Il film di Mann seppur non esente da difetti (su tutti la scelta di far parlare Penelope Cruz in italiano, che risulta davvero straniante, almeno all’inizio) è però un esempio di grande cinema. Dedicato a Sydney Pollack, che avrebbe dovuto essere uno dei produttori, la maniacalità impressionante con cui il regista ricostruisce soprattutto le parti legate alle corse – e gli inevitabili incidenti – è solo il più evidente dei tanti indizi dell’importanza che questo lavoro rappresenta per l’autore che ha dichiarato come questo film costituisca uno dei progetti più importanti della sua vita. In effetti Mann ci lavora da oltre 20 anni, probabilmente anche molto di più. Il risultato, da un punto di vista tecnico, è impressionante e si traduce anche a livello narrativo perché, grazie all’attenzione ai dettagli lo spettatore si immerge alla perfezione in un mondo antico (quello dell’Italia provinciale di quegli anni) non solo grazie alle riprese d’ambiente ma anche al sapiente uso dei primi piani dove i volti sono come ingranditi, occupano l’inquadratura facendo risaltare le emozioni degli attori che sembrano avvolgere tutto ciò che li circonda.

Attesissimo è anche l’ultimo – in questo caso non solo in senso cronologico ma anche nel senso che sarà il film che chiuderà definitivamente la sua carriera – lavoro del maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone, che arriva a dieci anni di distanza da quello che già a suo tempo era già stato annunciato come il suo film di congedo dalla scene (Si Alza il Vento).

In quest’opera che ha avuto una genesi molto difficoltosa sia per la sua natura di film d’animazione tradizionale, sia per l’età del cineasta che per le conseguenze della Pandemia che ne hanno rallentato la realizzazione, Miyazaki nasconde dietro l’apparente semplicità di una storia fantastica (quella del giovane Mahito, un ragazzino orfano di madre che improvvisamente comincia ad essere seguito da uno strano airone, che gli promette di ricongiungerlo con la madre) una profonda riflessione sui grandi temi della vita: la maternità, l’ambientalismo e i legami tra persone. Il suo obiettivo è quello di ricordarci come l’unico efficace antidoto al male sia l’altruismo, che dobbiamo abituarci a praticare verso un “altro” che non è sempre riconoscibile. Molti sono gli elementi di continuità con la filmografia precedente, sia a livello concettuale che visivo. Fino alla fine Miyazaki ci tiene a sottolineare come il “male” assoluto non esista. Anche in questo come in tutti i suoi lavori precedenti le azioni malvagie e loro conseguenze non sono frutto della volontà deliberata di danneggiare qualcuno quanto piuttosto di azioni affrontate o con eccessiva leggerezza o senza gli strumenti adeguati di valutazione. Lo stesso vale per l’invito che il Maestro ci fa – attraverso le vicissitudini del protagonista – a vivere sempre la vita come un viaggio da percorrere senza rimpianti e pregiudizi ma imparando ad accettare l’aiuto di una guida se necessario (l’airone in questo caso, che guida Mahito nel viaggio di scoperta). Dal punto di vista visivo l’autore, anche se sembra impossibile, si supera, mescolando autocitazioni da opere precedenti con trovate geniali ed una maestria nel disegnare, e ancora prima immaginare, nuovi personaggi, nuove specie, nuovi ambienti e nuove idee frutto di una creatività che sembra non avere limiti.

Chiudiamo questa carrellata di anticipazioni con quello che, innegabilmente, è il nostro film di Natale, Foglie al vento di Aki Kaurismaki cui già abbiano fatto cenno in precedenti articoli. Essenziale è forse l’aggettivo che meglio sintetizza un’opera che ha la capacità – tutt’altro che banale – di raggiungere nella maniera più diretta possibile il cuore delle emozioni, dei protagonisti e dello spettatore.

Kaurismaki è essenziale prima di tutto nella messa in scena: qualsiasi cosa voglia far dire, o far fare ai suoi personaggi, non ci sono giri di parole, si va dritti al punto, facendo risparmiare tempo e spesso creando anche un inconfondibile effetto comico che è una delle grandi chiavi del film. Essenziale è il contesto del mondo in cui si muovono i personaggi: i costumi, le scenografie passando per i movimenti sia di macchina che degli stessi attori che fanno esclusivamente ciò che è necessario fare. Essenziale è l’esistenza dei due protagonisti che si barcamenano, da soli, in una vita piena di preoccupazioni, tra misere condizioni di lavoro e pochissimi svaghi (nel loro paese il massimo del divertimento è andare a bere al bar o cantare al karaoke). Ma essenziale non significa semplice, perché in questo apparente minimalismo si cela un mondo di emozioni che, scena dopo scena, ci scaldano il cuore e ci spingono a tifare per un lieto fine che sappiamo potrà avvenire solo se le essenzialità dei due protagonisti riusciranno ad incontrarsi.  A proposito il film dura solo 81 minuti. E in un’epoca di film lunghi, come abbiamo spiegato nel precedente editoriale, quella di Kaurismaki è una piacevole ma soprattutto istruttiva eccezione. Il suo film, che andrebbe mostrato nelle scuole di sceneggiatura, è la dimostrazione che con idee chiare ed originali si può fare un film eccellente capace di essere universale e godibile per tutti. 

CUSTODI

“Custodi” di Marco Rossitti arriva a Cinemazero giovedì 14 dicembre alle 20:45, in collaborazione con il Club Alpino Italiano di Pordenone. Intervengono in sala il regista, anche docente di cinema all’Università di Udine, il direttore della fotografia Luciano Gaudenzio, Daniela Pizzarotti (suono in presa diretta) e alcuni protagonisti del film. Presentato al 71° Trento Film Festival, il documentario ha ricevuto il Premio Dolomiti Patrimonio Mondiale della Fondazione Dolomiti UNESCO e della SAT Società degli Alpinisti Tridentini, al miglior film sulla consapevolezza delle comunità rispetto agli eccezionali valori universali riconosciuti dalle Nazioni Unite e la capacità di una conservazione attiva del territorio. Dalla Val Resia all’Appennino di Reggio Emilia, passando per le lagune di pesca e i Magredi friulani, l’autore traccia brevi ritratti che sottolineano l’importanza del prendersi cura del territorio, il valore di tradizioni rivitalizzate nel rispetto di un patrimonio collettivo, della memoria, del delicato equilibrio fra uomo e natura.  

Così Rossitti descrive la sua opera: «I luoghi appartengono a chi li abita, ovvero a chi ne ha cura e li sente essenziali alla propria identità. In latino habitare significa “avere abitualmente”. Nulla a che fare con la proprietà o il possesso: è costruire, difendere, custodire. I veri custodi non esibiscono il loro operato. Li riconosci per la profonda padronanza del territorio nel quale vivono e lavorano, acquisita dapprima attraverso la lezione dei padri, poi con l’osservazione attenta, la dedizione, la fatica: una consapevolezza dei luoghi intagliata nel volto e nelle mani, riflessa nella voce e nello sguardo, scolpita nella memoria e nell’anima. Negli anni, incontrando in diverse regioni del Nord Italia Cecilia, Bepo, Egidio, Miriam, Mauro, Konrad, Erika, Gianfranco, Tobia, Xiaolei, Roberto, Matteo, Massimo, ho capito che si può essere custodi sotto le spinte e per le motivazioni più diverse: per istinto, elezione, passione, tradizione, lungimiranza, destino, vocazione, scelta…». 

Il male non esiste

Arriva in sala mercoledì 6 dicembre sotto il doppio segno della Tucker Film e della Teodora Film Il male non esiste (Evil Does Not Exist) di Hamaguchi Ryusuke! Vincitore a Venezia del Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria e osannato dalla critica di tutto il mondo, IL MALE NON ESISTE (Evil Does Not Exist) è il nuovo attesissimo film del regista premio Oscar per Drive My Car

Nel villaggio di Mizubiki, vicino a Tokyo, un’azienda senza scrupoli vuole costruire un campeggio di lusso (glamping) rischiando di rompere l’equilibrio ecologico del luogo. Tra gli abitanti che si oppongono al progetto ci sono un padre single, Takumi, e sua figlia Hana, custodi di una vita ancora in perfetta armonia con la natura. La loro resistenza dovrà però affrontare una situazione inaspettata, che cambierà per sempre il destino di tutti.

Anche grazie alle musiche evocative di Ishibashi Eiko, Hamaguchi esplora con maestria un tema di grande attualità, trasformandolo in un’appassionante parabola universale. Un’opera potente e misteriosa, una riflessione spiazzante e acuminata sugli equilibri e i disequilibri di cui si nutre il rapporto tra l’uomo e la natura. Da un lato, dunque, il ritmo della terra, dell’aria, dell’acqua e delle foreste, dall’altro, come in un gioco di specchi, il ritmo delle musiche di Eiko Ishibashi, punto d’innesco del lavoro di Hamaguchi.

È la natura, con i suoi cicli e le sue leggi, a disegnare la vita nel piccolo villaggio montano. Il tempo sembra fermo, il passato e il presente sembrano separati soltanto da una linea di confine sottile. La comunità di Mizubiki, di cui fanno parte Takumi e la figlia Hana, sta bene così: dentro una quotidianità mite e modesta che ha ereditato dalla generazione precedente e che tramanderà alla generazione successiva.

«Per me, prima di girare Il male non esiste, la natura era rappresentata solo dai parchi urbani – racconta Hamaguchi – e non andavo oltre. Appena ho cominciato a lavorare sul progetto del film, però, ho avvertito immediatamente la sensazione che la natura ci può guarire…».

Molto amato e conosciuto in Italia per grandi titoli come Happy Hour, Il gioco del destino e della fantasia e Drive My Car (Oscar 2022 per il miglior film internazionale), tutti distribuiti dalla Tucker Film, Hamaguchi rappresenta sicuramente il futuro del Nuovo Cinema Giapponese: un autore profondamente legato alle proprie radici e, al tempo stesso, capace di affrontare temi universali che sanno parlare davvero a tutti. Al di là delle appartenenze culturali e geografiche.