Sergio Leone ritorna!

di Lorenzo Codelli

J. G. Ballard aveva recensito così la biografia Sergio Leone. Danzando con la morte di Christopher Frayling: «Il più divertente libro di cinema che ho letto di recente. Il grande regista italiano che aveva inventato il western spaghetti e aveva trasformato Clint Eastwood in una star era un grande ciarlatano e nello stesso tempo un genio del cinema, godibilissimo sempre e comunque» (Daily Telegraph, 8 luglio 2000). 

        L’amico Frayling aveva presentato quel suo bestseller internazionale, edito in Italia da Il Castoro, alle Giornate del Cinema Muto di Sacile nell’ottobre 2000, a braccetto con Carla Leone, la vedova del cineasta. Grandi emozioni nel ricordare in pubblico con lei le due visite a Pordenone in compagnia del marito, nel 1985 e nel 1986. Le ha rievocate su queste colonne Andrea Crozzoli un paio di mesi fa. 

Sergio Leone by Himself

      Sir Christopher Frayling ci regala ora uno straordinario “autoritratto postumo” intitolato Sergio Leone by Himself edito da Reel Art Press. Non semplicemente un opus magnum di dimensioni bibliche, un’esperienza immersiva, un catalogo critico e onnivoro dei mille lasciti leoniani, estetici, politici e apocalittici. Fin dall’originale copertina: un dipinto struggente realizzato ad hoc da Tony Stella. Infinite le foto scattate dal fedele reporter Angelo Novi – e conservate dalla Cineteca di Bologna nella propria iperbolica Collezione Leone -, assieme  a una messe di documenti di valore inestimabile raccolti dallo studioso inglese in tutto il mondo: che cavalcata poliglotta!

      L’autore menziona nel testo le agnizioni pordenonesi di Leone e, modestia a parte, pure certe « spaghettate » cucinate col sottoscritto a Udine nell’aprile 1997 per la rassegna Eurowestern

       Duplice figlio d’arte, Leone aveva coscientemente ribaltato via via i miti della storia americana inventando parametri espressivi in seguito emulati dai più ambiziosi registi americani, da Robert Altman a Martin Scorsese. Ce ne rendiamo conto ancor meglio proprio nel momento in cui la loro civiltà, e non solo quella cinematografica, si sta ormai dissolvendo. 

       Spiega Frayling: «Leone intendeva dare un nuovo incanto al cinema con vicende americane, esprimendo il proprio disincanto nei confronti del mondo contemporaneo e, allo stesso tempo, trasmettendo l’euforia che provava personalmente vedendo e girando film. Quando raccontava storie ci credeva completamente e si aspettava che gli spettatori facessero lo stesso. Le trasmetteva con tutto l’entusiasmo e il brio di un bambino, inclusa un’attenzione quasi feticistica ai dettagli visivi al fine di sospendere l’incredulità. La serietà del gioco. Le sue storie erano popolate da dei, eroi e guerrieri, un mondo al maschile di miti, amicizia virile e soluzioni fisiche ai problemi della vita. “L’epica, per definizione, è un universo maschile”, affermava. Ma sempre con un tocco di attualità, più legato alla Roma moderna che a quella antica, e spesso pervaso dalla malinconia del rimpianto “per il mondo che abbiamo perduto”. Sul set mimava ciò che voleva dai suoi attori, in parte per ragioni linguistiche, e così trasformava i suoi protagonisti in moderni lazzaroni romani. Una delle sue espressioni preferite in inglese rivolte agli attori americani era: “Watch me!” ».

Michelangelo Antonioni, analista dei sentimenti, poeta e ipnotizzatore

di Andrea Crozzoli

«La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.» (Pier Paolo Pasolini)

Sono passati esattamente trenta anni da quel lontano 1995 quando la piccola Sacile sobbalzò all’arrivo del grande Michelangelo Antonioni. Era un anno cruciale, quel 1995, per il regista ferrarese che aveva appena concluso il suo ultimo film, dopo tredici anni di silenzio, quel Al di là delle nuvole firmato con l’assistenza alla regia del suo grande estimatore Wim Wenders. Antonioni era anche fresco reduce da Los Angeles dove aveva ricevuto l’Oscar alla carriera dalle mani di Jack Nicholson. Regista considerato tra i più grandi di tutti i tempi, precursore e inarrivabile indagatore di tematiche psicologiche come l’incomunicabilità, Antonioni nella realtà quotidiana era gioviale, curioso, amante del buon cibo e del buon bere, così come amava le donne. La malattia paradossalmente gli aveva tolto la possibilità di comunicare ma il suo sguardo era più eloquente di tante parole. La sua mimica facciale era comunicativa, sapeva sottolineare con ironia la verbosità dilagante di Carlo Di Carlo o l’approvazione davanti a un’immagine che gli veniva sottoposta. Al cameriere che gli chiedeva se volesse vino fermo o con le bollicine rispose “entrambi”, tamburellando indice e medio sul tavolo. Osservandolo capivi cosa significa uno sguardo magnetico; comprendevi appieno il significato della sua dichiarazione: «Mi sono fatto da solo. Credo di aver avuto per maestri i miei occhi!».

Occhi che hanno inaugurato un nuovo corso nel cinema fatto di grandi silenzi, sguardi infiniti, frasi secche, essenziali, con i suoi personaggi che si muovevano in paesaggi “lunari”, come il buio della notte, il rosso del suo deserto, i cieli plumbei, isole, e ancora città inquietanti per i silenzi. Roland Barthes in occasione della consegna di un premio a Michelangelo Antonioni ebbe a dichiarare: «Quando in un’intervista con Godard affermavi: ‘Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici’, tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. È proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante”. Ospite a Sacile del festival Ambiente-Incontri – grazie all’intercessione del capo ufficio stampa della manifestazione, Paolo Micalizzi, ferrarese d’adozione, studioso di cinema e redattore de Il resto del Carlino – Michelangelo Antonioni, oltre ai suoi documentari sull’ambiente, incantò il pubblico del teatro Zancanaro (stracolmo) con la proiezione di Al di là delle nuvole davanti a un parterre composto, fra i tanti rappresentanti istituzionali, dal regista Franco Piavoli presidente del festival, da Giorgio Tinazzi professore emerito dell’Università di Padova per la consegna di una laurea ad honorem ad Antonioni, da Carlo di Carlo sceneggiatore, assistente alla regia e dalla moglie Enrica Fico.

Del resto, Sacile era già conosciuta da Antonioni grazie al suo scenografo di fiducia, il sacilese Piero Poletto, col quale collaborò da L’avventura (1960) a Professione Reporter (1975). Assieme erano usi scorrazzare per la bassa friulana, in cerca di buon cibo, ogni volta che Antonioni presentava un suo film alla Mostra del Cinema di Venezia. Purtroppo, Poletto era morto nel 1978 e Antonioni da allora aveva sospeso le sue incursioni friulane, per cui il suo ritorno, a quasi venti anni di distanza, aveva messo in fibrillazione la cittadina e i suoi abitanti. Si scatenò una singolar tenzone fra alcune facoltose famiglie sacilesi per avere l’onore di offrire nella loro dimora un ricevimento di benvenuto all’illustre ospite. Per dipanare questo inestricabile nodo gordiano intervenne la spada del sindaco di allora che decise di ricevere solennemente in Municipio il regista senza alcun party privato.

Antonioni, ignaro di tutto questo, era instancabilmente curioso e nonostante l’ictus che lo aveva colpito dieci anni prima e che lo aveva lasciato semi paralizzato nella parte destra del corpo e privato dell’uso della parola, volle recarsi a Codroipo per vedere la mostra su Pasolini a Villa Manin mentre alla sera presenziò all’anteprima del suo film Al di là delle nuvole. Nonostante l’età e l’invalidante malattia che lo aveva colpito, esprimeva, assieme ad una incredibile disponibilità, una grande energia e vitalità, un’insaziabile curiosità e voglia di vedere il mondo. Stargli accanto per due giorni è stato uno degli incontri più emozionanti della mia vita professionale, che mi fa dire, al pari di Alain Resnais: «Questo regista è un sottile analista dei sentimenti, un poeta e un ipnotizzatore geniale».

Un anno in cifre

di Marco Fortunato

“Inside Out 2 salva il cinema” “Il botteghino italiano supera i numeri prepandemia, trainato dal pubblico giovane” “Dati incoraggianti”. All’indomani della pubblicazione dei dati dell’anno che si è appena concluso basta sfogliare qualche giornale (anche specialistico) o scorrere qualche sito di settore per leggere – come spesso accade – analisi, e soprattutto conclusioni, diametralmente opposte sullo stato di salute del cinema nel nostro Paese. La verità sta nel mezzo, ma i numeri dicono molto non sull’andamento del mercato ma anche su alcuni problemi strutturali dello stesso che abbiamo spesso avuto occasione di analizzare

Partiamo dal risultato complessivo. Il 2024 per il cinema in Italia si chiude con un risultato analogo a quello del 2023, sfiorando quota 70 milioni di biglietti venduti e 500 milioni di euro d’incasso. Premesso che all’inizio del 2024 sarebbe stato utopistico ipotizzare di pareggiare il risultato del 2023 in termini di biglietti – vista l’annunciata carenza di titoli internazionali, pesantemente condizionati dagli scioperi del 2023 e la forte competizione dei grandi eventi sportivi durante l’estate – non possiamo far finta di non vedere che rimane ancora una distanza molto marcata rispetto al dato prepandemico che era di oltre 90 milioni di biglietti. Tradotto in percentuale significa -24% sulla media ingressi del 2017-2019. Credo che la prima domanda da farsi sia se esistono le condizioni perché si torni su quelle cifre o, diversamente, se e come il mercato può adattarsi a questo nuovo e più ridotto numero di spettatori.

Ma i numeri di presenze ed incassi fanno emergere un altro dato interessante. Nel confronto tra 2024 e 2023 si è registrato un -0,4% negli incassi e -1,3% nelle presenze rispetto all’anno scorso. Questa differenza per quanto piccola, indica che c’è stato un lieve aumento del costo medio del biglietto (che in effetti è passato da 7,02€ nel 2023 al 7,08€ nel 2024 con una crescita dello 0,8%), ma quello del prezzo del biglietto è ancora uno dei temi “strutturali” di cui troppo poco si discute. Quanto costa andare al cinema in Italia rispetto al resto d’Europa e come si sta evolvendo il prezzo del biglietto? A livello europeo la situazione è molto varia e il nostro Paese si posiziona circa nella metà più bassa della classifica, tra i paesi del Nord (capitanati da Svezia e Danimarca dove un ingresso può costare 15/17 euro ma il costo della vita è molto più alto e lo stesso vale per gli stipendi) e i paesi dell’est, tutti ben al di sotto dei 7€ e la Spagna, addirittura sotto la soglia dei 6 euro. Il nostro biglietto medio costa come quello dei francesi che però ogni anno staccano oltre il doppio dei nostri tickets.

Negli ultimi 10 anni il costo del biglietto è salito pochissimo: dal 2013 al 2023 il prezzo medio per vedere un film in sala è, infatti, aumentato di soli 67 centesimi (+9% in un decennio, il pane per fare un esempio è cresciuto di oltre il 5% solo l’anno scorso, il caffè del 16% in un triennio). Insomma, non solo il costo del biglietto non aumenta ma addirittura diminuisce, se paragonato all’inflazione. A quanto pare, però la strategia di mantenere bassi i prezzi non ha incentivato la ripresa dell’affluenza, anzi. Ricordiamo un caso su tutti (ma gli esempi potrebbero essere molti), quello dei BTS: Permission to Dance on Stage – Seoul il film evento della band sudcoreana che, in tempi di immediata post pandemia (era marzo) incassò in un solo giorno oltre 400mila euro con poco più di 17mila spettatori. La divisione è semplice e il risultato sconvolgente: prezzo medio di un biglietto oltre 23 euro!

Tanto? Troppo? Non è questo il punto, il concetto è si è riusciti a catalizzare l’interesse del pubblico su un evento (non live) lavorando su esclusività e valorizzando il fattore tempo secondo cui l’accesso a quel contenuto per primi ne giustificava il maggior costo. Da qualche mese i circuiti hanno iniziati a sperimentare politiche di prezzo diverse a seconda della visibilità dei posti in sala (in altre parole chi si siede in basso o nelle prime file, ad esempio, paga il biglietto un po’ meno, ma da tempo i film in prima visione o in certi giorni della settimana costano più che in altri e così via). Con questo non vogliamo dire che il biglietto deve costare di più ma semplicemente che una maggiore flessibilità dei prezzi – che significa magari il biglietto un po’ più caro in alcune fasce orarie e un po’ più economico in altre – potrebbe aiutare ad aumentare l’efficienza dei cinema liberando delle risorse che potrebbero a loro volta essere reinvestite nell’aumento delle attività.

Perfect Days

Tornando ai dati, è interessante anche scorrere l’andamento mensile delle presenze. L’anno era partito molto bene, i primi mesi hanno registrato ottimi risultati, superiori al 2023, con un grande exploit di film d’autore, Perfect Days di Wim Wenders e Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki su tutti, per un primo trimestre complessivamente in forte crescita Il mercato ha poi subito una brusca battuta d’arresto nei mesi di aprile e maggio soprattutto a causa della carenza di film americani. A fare la differenza è stato il periodo estivo che superato il record stabilito lo scorso anno (in cui c’erano Barbie e Oppenheimer). In questo periodo sono usciti due dei tre film campioni d’incassi della stagione come Inside Out 2 e Deadpool & Wolverine. Dopo un pessimo mese di settembre fortemente condizionato dalla nuova assenza di titoli americani il mercato si è ripreso in ottobre. A novembre si sono pareggiati i dati dell’anno precedente con un importante contributo del cinema italiano. Nonostante lo scorso anno avesse visto l’uscita di C’è ancora domani di Paola Cortellesi il cinema tricolore ha registrato incassi comunque importanti in particolare grazie a Il ragazzo dai pantaloni rosa e Parthenope, rispettivamente 1° e 2° incasso dell’anno tra i film nazionali. Infine, lo sprint a dicembre, con un’ottima performance durante le feste, che ha fatto segnare un +28% rispetto allo scorso anno. Un colpo di coda importante, sicuramene agevolato dal calendario favorevole che non ha visto sovrapposizioni tra il weekend e le fese comandate che ha permesso di massimizzare il numero di giorni festivi, dove si registra il maggior afflusso di pubblico.[1]

Parthenope

Ed ecco un altro tema, anzi due. Speriamo che con il 2024 si sia definitivamente archiviata la querelle sulla “stagionalità” del nostro mercato. Per il secondo anno di fila i dati dimostrano che, se i film ci sono e sono ben promossi gli spettatori vengono in sala, indipendentemente dal meteo e da altre offerte, come quella sportiva. Finora però l’allungamento dell’offerta ha riguardato quasi esclusivamente il prodotto commerciale ma forse anche i titoli d’essai potrebbero beneficiare di maggiore spazio e visibilità avendo anche i tre mesi estivi a disposizione. Sarebbe ora che le distribuzioni, in particolare quelle più strutturate, prendessero in considerazione un riposizionamento dei propri titoli, per alleggerire il periodo autunnale e invernale e per valorizzare l’iniziativa di Cinema Revolution che, proprio a causa dell’assenza di film nuovi durante l’estate, di fatto ad oggi lavora quasi solo con recuperi della stagione precedente.

Passiamo adesso alla situazione del cinema di casa nostra. “Con quasi 122 milioni di euro al box office il cinema italiano nel 2024 ha incassato una cifra pari alla media 2017-2019, possiamo dire che ha superato il periodo di crisi ed è tornato ai livelli precedenti” ha dichiarato il presidente di Anica, Alessandro Usai. E questo è corretto, e sarebbe un’ottima notizia se non fosse che per farlo, anche nel 2023 è stata ulteriormente incrementata la produzione: sono stati ben 431 i titoli di produzione o co-produzione italiana (+67 rispetto al 2023) i film distribuiti in sala nel 2024. Complessivamente nel 2024 sono stati distribuiti infatti in sala ben 943 nuovi titoli di prima programmazione (+166 rispetto al 2023). Oltre ai film di nuova uscita sono stati distribuiti in sala anche 673 nuovi contenuti complementari (eventi, riedizioni evento, riedizioni, cortometraggi; +213 rispetto al 2023).

Un tema, quello della sovrapproduzione che continua ad influenzare negativamente il mercato. Avere troppi film che vogliono arrivare in sala significa disperdere le risorse di comunicazione e marketing, saturazione degli spazi e sostegno indiretto a distorte logiche di mercato. Su questo fronte, nel bene e nel male, un intervento è stato messo in atto con la nuova legge sulla produzione, ora si tratta di capire quali saranno gli effetti e valutarne le conseguenze.


[1] Fonte boxofficebiz.it

Serate di Cinema Muto – Capolavori Centenari 1925 – 2025

Dopo la lusinghiera accoglienza ricevuta lo scorso anno, prosegue anche nel 2025 l’esperienza delle serate dedicate alla riscoperta della magia del cinema muto, una stagione fondativa per il linguaggio delle immagini in movimento. La ricerca di forme espressive e narrative compiuta in quell’epoca collocava già il cinema al centro della scena culturale del Novecento.

Adottando lo stesso criterio dell’anno precedente, Cinemazero, in collaborazione con Le Giornate del Cinema Muto e La Cineteca del Friuli, ripropone la visione dei grandi film del 1925, quelli più pregnanti che cento anni fa incantarono il pubblico che gremiva le sale di tutto il mondo.
Fu un’annata particolarmente felice sia per la fabbrica dei sogni di Hollywood, trainata dallo star system, sia per il cinema d’autore europeo, segnato dall’irruzione di un gigante come Sergej Ejzenstejn.

Precedute da un’introduzione storica e critica, le loro immagini silenziose saranno come sempre accompagnate da una partitura, in alcuni casi eseguita dal vivo.

Primo appuntamento Martedì 28 gennaio alle 20:45 con
SCIOPERO! 
(Stačka, Unione Sovietica, 1925, 82’ di Sergej M. Ėjzenštejn)
Sciopero!, esordio cinematografico di Sergej Ejzenštejn, è la prima parte della cosiddetta “trilogia della rivoluzione”, che comprende i
successivi La corazzata Potëmkin e Ottobre. Nel film, che rifiuta completamente la struttura narrativa tradizionale, trovano espressione le percezioni e le pulsioni sociali che caratterizzarono il primo periodo di sviluppo dell’Unione Sovietica: l’adirata negazione del dispotismo, la fiducia nel raggiungimento della giustizia attraverso i metodi di lotta, la certezza che il popolo sia costituito non soltanto da martiri, ma che tutti possano invece contribuire a creare la Storia. Insieme ai primi film di Lev Kulešov e di Dziga Vertov, Sciopero! segnò la nascita dell’avanguardia cinematografica in URSS e stabilì molti di quelli che sarebbero stati i tratti distintivi del cinema sovietico fino agli anni Trenta.

Il fu Mattia Pascal

Si prosegue poi martedì 25 febbraio, alla stessa ora con IL FU MATTIA PASCAL (Feu Mathias Pascal, Francia, 1925, 170’ di Marcel L’Herbier)
Benché potessero sembrare una strana coppia, Ivan Mosjoukine e Marcel L’Herbier si rivelarono un tandem vincente con il loro eccentrico adattamento del romanzo di Pirandello su un giovanotto che fa credere a famiglia ed amici di essere morto, per iniziare una nuova vita sotto un altro nome. Il regista aveva comprato i diritti cinematografici del romanzo con la benedizione dello stesso Pirandello ed aveva personalmente voluto il grande attore russo come protagonista. C’è una stimolante commistione di realismo e fantastico, di gravità e giocosità, sia nella messinscena di L’Herbier sia nella recitazione di Mosjoukine; il film diventa allora ben più di un elegante prodotto costruito in funzione del divo. Fu questo l’ultimo film di Mosjoukine per la Albatros di Alexandre Kamenka (che lo coprodusse con la Cinégraphic, la società di L’Herbier).

Terzo appuntamento martedì 25 marzo con IL VENTAGLIO DI LADY WINDERMERE (Lady Windermere’s Fan, Stati Uniti, 1925, 86’ di Ernst Lubitsch).
Dalla commedia di Oscar Wilde adattata da Julien Josephson, uno dei migliori Lubitsch muti: non tanto commedia degli equivoci, ma dramma degli sguardi e dei sospetti, ambientato in una società ipocrita dove il biasimo si rovescia facilmente nella piaggeria. Lubitsch “dimentica” la spumeggiante ironia del testo teatrale, eliminando dalle didascalie battute celebri, ma trasferisce lo spirito di Wilde nella messinscena, utilizzando alla perfezione i “limiti” delle inquadrature: cela nel momento stesso in cui mostra, e adotta di volta in volta i punti di vista dei vari personaggi. Anche la recitazione – in un film in cui quasi tutti recitano una parte – è piena di sfumature, e spesso sorprendentemente moderna.

Penultima serata martedì 29 aprile dedicata a VARIETÉ (Id., Germania, 1925, 112’ di Ewald André Dupont).
Film del tardo espressionismo o del primo realismo tedesco, Varieté oscilla costantemente tra universo interiore ed esteriore, utilizzando l’intera gamma delle innovazioni cinematografiche sviluppate dai grandi tecnici dei primi anni Venti e in particolare da Karl Freund, che era stato l’operatore de L’ultima risata di Murnau. Ma, in modo molto più estroverso rispetto a questo film, Varieté si sviluppa attraverso una sorta di ininterrotta rincorsa espressiva, dove ogni idea visiva viene immediatamente sostituita da un’altra, per assicurare la progressione narrativa ma anche per sottolineare la punteggiatura drammatica del film. Se alcune scenografie comportano ancora un arresto ai volumi dell’espressionismo, il film nel suo insieme si apre verso una visione molto più ampia del mondo. Con Varieté Dupont divenne internazionalmente il regista di spicco della UFA, benché incompreso dal pubblico francese.

Le due madri

Sarà LE DUE MADRI (Visages d’enfants, Svizzera/Francia, 1925, 114′ di Jacques Feyder) a chiudere il primo ciclo di appuntamenti del 2025 martedì 27 maggio.
Alcuni cineasti francesi dei primi anni Venti utilizzarono tecniche di montaggio rapido che sarebbero poi state riprese dai registi russi, in particolare da Sergej Ėjzenštejn. Anche Visages d’enfants di Jacques Feyder, iniziato nel 1923 ma uscito solo nel 1925 a causa del conflitto con una delle società di distribuzione, si apre con una sequenza di montaggio di grande impatto visivo, prima di passare a uno stile narrativo più convenzionale. La storia è quella di un ragazzo che ha difficoltà ad adattarsi al nuovo matrimonio del padre dopo la morte della madre. Il film è splendidamente fotografato nelle Alpi svizzere e il realismo e la recitazione naturalistica (in particolare di Jean Forest) lo fanno apparire ancor oggi modernissimo.