Chi non ricorda l’omonimo film di James Brooks del 1997 nel quale al protagonista (Melvin, uno straordinario Jack Nicholson meritatissimo Premio Oscar come miglior attore) serve un lungo viaggio per rendersi conto della necessità di un cambiamento nella propria vita? Stesso destino tocca oggi alle sale cinematografiche che, in verità, ben prima dello scoppio della pandemia si stavano interrogando – anche se senza troppa convinzione – sul proprio futuro e che oggi si trovano costrette a fare i conti con una realtà (forse) definitivamente cambiata e a cui sarà necessario adattarsi.
E dunque a che punto siamo con questo viaggio verso il cambiamento? Cosa ci ha insegnato questo periodo di stop forzato e cosa, invece, dobbiamo ancora imparare?
Per prima cosa il lockdown ci ha messo di fronte alle
criticità intrinseche al nostro sistema di mercato che derivano dalla sua
peculiare struttura: il cinema è un mercato molto interconnesso (forse più di
qualsiasi altro) dove, muoversi da soli e in maniera disorganizzata significa
disperdere energie e ottenere scarsi risultati. E guai a dimenticarselo.
Altra constatazione è l’assenza di un piano B e l’enorme difficoltà anche solo ad immaginarlo. Numerose aziende, di ogni ramo e dimensione hanno scelto di riconvertirsi introducendo profonde revisioni nei propri processi produttivi per far fronte ad una realtà nuova che impone nuove sfide ma apre anche nuove opportunità. Il sistema cinema, in questo senso, ha invece manifestato tutta la sua rigidità.
Ma per fortuna qualche segnale incoraggiante si
intravede all’orizzonte. Sul primo versante soprattutto. In tempo di crisi l’esercizio,
da sempre il comparto più frammentato della filiera cinematografica, sta riscoprendo
il valore dell’unione, scegliendo di affidarsi alle associazioni di categoria –
che a loro volta riscoprono il loro ruolo – per organizzare le proprie
richieste e tradurre i propri desiderata in proposte concrete. Si tratta di un
passaggio fondamentale, poiché solo questa consapevolezza permette il passaggio
successivo, ovvero quello di rendersi conto che, oltre a quelli interni, si
possono creare ulteriori collegamenti con altri settori, sempre dello
spettacolo, che hanno le stesse esigenze del cinema come ad esempio il teatro,
la musica, ecc. In questo modo si crea massa critica che possa far valere il “peso”
della cultura agli occhi dei decisori politici, si costruisce autorevolezza e
ci si candida ad essere parte attiva e non passiva dei processi di cambiamento.
In altre parole, si fa “lobby”, parola ben nota ad altri comparti economici che
da molto prima dell’arrivo del Covid sanno come far sentire la propria voce in
maniera forte ed unitaria.
Sul secondo fronte, quello dell’attitudine al
cambiamento in senso vero e proprio, la strada sembra più lunga. Gli esempi
sono tanti (le piattaforme streaming in primis o il ritorno a vecchie modalità
di fruizione come il “drive-in”) ma, in generale, l’approccio del settore alle
proposte di modifica dello status quo è apparso timoroso e frammentario.
Al di là delle legittime opinioni di ciascuno sulle singole ipotesi quello che è mancato è stato un confronto tempestivo, chiaro e soprattutto carico di quello spirito propositivo che avrebbe potuto essere determinante per arrivare a soluzioni condivise. Invece il mercato si spaccato con l’inevitabile conseguenza della nascita di progetti disorganici, la maggior parte dei quali risulterà difficilmente sostenibile nel lungo periodo.
La soluzione dunque, oggi come nel prossimo futuro, appare una sola, quella dell’unità di intenti e di azioni. Il primo passo è una presa di coscienza del proprio ruolo, che è culturale, ma anche economico e sociale. Quello successivo è quello della condivisione: di idee, progetti e se possibile soluzioni. La strada è ancora lunga, percorrerla insieme sarà più facile e, probabilmente, anche molto più stimolante.
Da parecchi lustri il nostro amico Gian Piero Brunetta, infaticabile colonna dell’ateneo padovano, riscrive, aggiorna, rimette in discussione la propria Storia del cinema italiano, una bibbia apparsa in diverse versioni. Ha pubblicato ora L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale (Carocci Editore, 368 p.), una raccolta che spazia dalle tematiche del Risorgimento a quelle dell’attualità. Il regista Marco Tullio Giordana ammira in Brunetta «la capienza dello sguardo d’assieme, la capacità di iscrivere singoli film e autori nel grande flusso generale, come un esperto capace di ritrovare le acque degli affluenti nel grande fiume tranquillo che corre verso il mare». Abbiamo posto a Brunetta alcune domande.
Sfatare
i miti è compito dello storico. Lo fai ad esempio per l’immagine di Caporetto,
così come per quella di Mussolini e delle sue imprese militari in Africa e in
Spagna.
Sono uno storico che ama confrontarsi con le forme e metamorfosi del mito, ma in molti capitoli del libro, ho voluto vedere sotto luci, sfaccettature e misure di scala diverse le immagini che costituivano mitologie legate alle sconfitte o ai trionfi bellici. Caporetto in realtà si è fissata nella memoria come sinonimo di catastrofe in assenza di immagini rappresentative di fonte italiana. Le uniche esistenti sono di parte tedesca e puntano a sottolineare, più verbalmente che visivamente, la diserzione e la viltà dei soldati e dell’esercito italiano in fuga. I vincitori non entrano in scena a Caporetto. Quanto alle immagini della conquista dell’Impero e della partecipazione alla guerra di Spagna mi è sembrato che l’analisi dei testi non restituisse nulla di eroico o trionfale, ma mettesse in evidenza i limiti della potenza militare italiana alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Il periodo aureo del neoorealismo lo
descrivi in controluce, senza isolare cioè i maestri famosi.
In effetti degli autori del neorealismo mi
sono occupato a lungo nelle mie opere precedenti, qui mi interessava mettere in
evidenza il prevalere di un senso del Noi che guida il percorso della
rinascita nazionale e internazionale del cinema del dopoguerra, sia per quanto
riguarda i soggetti del racconto che gli autori e la capacità del nostro cinema
nel suo insieme di cogliere ed evidenziare, nel bene e nel male, caratteri
identitari forti dei nuovi protagonisti della storia repubblicana visti nel
loro muoversi incerto e in ordine sparso verso nuovi orizzonti
europei.
Malgrado l’oggettività braudeliana del tuo
approccio trasmetti spesso sprazzi di nostalgia per i bei tempi dei Fellini,
Scola, Monicelli ecc.
Più che nostalgia è il senso di perdita di non pochi elementi connettivi del cinema italiano del dopoguerra che ne hanno fatto insieme una bottega artigiana, un luogo di condivisione, interazione e dialogo, e uno spazio unico di riconoscimento e riconoscenza nei confronti di alcuni padri e di vasti rapporti di parentela stilistica, narrativa, ideale e ideologica.
Com’è cambiata la metodologia
storiografica nel corso dei decenni?
Si è passati attraverso varie fasi: la prima era fondata sul ricorso alle incertezze e vuoti della memoria da parte di giornalisti che cercavano di mettere in ordine le loro conoscenze e ricordi, poi si è passati ai primi veri tentativi di affrontare il cinema, nato da pochi decenni, con gli strumenti dello storico (penso per tutti a Pasinetti, Sadoul e Mitry). Nelle loro storie entrano strumenti di tipo positivistico e accumulativo ma anche strumenti più maturi di tipo connettivo e capaci di usare diversi tipi di fonti e di osservare la storia nel suo aspetto globale e interconnesso sia dal punto di vista dell’evoluzione linguistica che delle strategie economiche. Quando ancora le fonti filmiche erano pressoché off limits per lo storico sono state importanti le doti di serendipity e di abduzione, che hanno consentito, con pochi esempi filmici a disposizione di interpretare insiemi più generali. Oggi uno storico dispone di strumenti facilmente accessibili grazie alla rete e alle diverse piattaforme, inimmaginabili per la mia generazione. Il cinema del passato è riemerso progressivamente ai nostri occhi come il regno di Atlantide. La crescita delle discipline universitarie e la legittimazione della materia sul piano scientifico hanno aperto in questi ultimi decenni non poche strade nuove e consentito un vero scambio di metodi e informazioni sul piano internazionale.
Scrivendo dei film italiani post-2000 ti
dimostri molto ottimista.
Mi dimostravo ottimista quando ho scritto
quelle pagine agli inizi del millennio. Il paesaggio è molto cambiato, ma per
quanto mi è stato possibile vedere anche negli anni che hanno preceduto
questo arresto importante di tutte le attività produttive e dell’esercizio mi
sembra che sia sempre possibile imbattersi in film che fanno venire
a persone come me la voglia di andare al cinema in sala, ma anche di vederlo in
qualsiasi formato e di avvertire la voglia di tornare a scriverne, perché quel
film a vari livelli, di regia, di racconto, di recitazione, di scrittura,
di effetti speciali, di usi dei suoni e rumori, ti ha trasmesso segnali di
vitalità significativi. Grazie ancora a non pochi film di questi anni avverto
ancora l’orgoglio di dichiararmi cittadino del cinema italiano.
Su quali fonti potranno basarsi gli
storici a venire?
In questi mesi di coronavirus è cresciuto in maniera malthusiana il rapporto con la rete sia in nuove forme attive che passive. Alcune cineteche, che in passato erano inaccessibili come Fort Knox, ora consentono a tutti l’accesso ai loro tesori e non solo agli storici. Molte cineteche avevano già da tempo messo in rete la loro collezione di riviste e i loro archivi, e nel giro di qualche decennio gli storici potranno godere della possibilità di esplorare diversi strati di fonti con ottiche sempre più comprensive e interdisciplinari con una semplice connessione e l’uso di una password. Nuove enormi praterie, dalle dimensioni smisurate, possono ancora aprirsi agli storici delle nuove generazioni, quando tutto questo sarà finito.
Il
virus nella letteratura è presente dagli albori della civiltà, da
quasi tremila anni. Ovvero dall’Iliade
quando Apollo, per vendicare Crise, fa scoppiare una terribile
pestilenza fra i greci. Proprio la
letteratura è stata, nel corso tempo, uno dei principali veicoli per
almentare il cinema con storie di virus. Cinema che
è stato così in grado di declinare il virus in svariate
sottospecie, con un ventaglio di modificazioni tale
che ci permetterebbe di compilare un vero e proprio glossario con le
“50 sfumature di virus” in grado di far invidia ai virus
esistenti in natura.
Uno
dei primi film che tocca lo scottante argomento è Nosferatu,
eine Symphonie des Grauens di
Friedrich Wilhelm Murnau, capolavoro muto del 1922 che già nel
titolo “una sinfonia di orrori” precisa la declinazione del virus
collocandolo nel genere horror.
Il film di Murnau utilizza il vampiro per destabilizzare la
collettività e per spargere il terrore attraverso il virus della
peste, veicolato nella terra contaminata all’interno delle bare.
Una prova generale di cosa significa governare con la paura,
attraverso una vera e propria sovversione dell’ordine costituito
causato dalla pestilenza. Nel remake del 1979,
a firma di Werner Herzog,
la peste arriva, invece, attraverso una vera e propria invasione di
centinaia e centinaia di topi che dilagano per la città con effetti
devastanti. Invasione che risulta, anche dal punto di vista visivo,
ancora più perturbante.
Come
ben sappiamo, il virus non conosce confini e il nobile cavaliere
Antonius Block che torna in Svezia dalle Crociate ne Il
settimo sigillo (1957) di Ingmar
Bergman, trova il paese in preda alla peste e ad attenderlo la Morte
in persona. Ingaggia con essa, mantenendo il distanziamento sociale,
una partita a scacchi per ritardare quanto più possibile la
dipartita verso l’aldilà. Ma Bergman,
indiscusso maestro svedese, usa l’agente patogeno per dirci altro
trasformando la mutazione in meta-virus,
ossia pretesto per una riflessione esistenziale. Riflessione che
costituisce occasione per raccontare, in questo capolavoro assoluto,
il secolo medievale del crollo della “religione
delle certezze“. Avvenimento
che apre, non solo per il regista ma per
tutta l’umanità, una nuova era.
Tale
crollo, invece, deve ancora avvenire nella peste medievale, narrata
prosaicamente dal mediterraneo e solare,
Mario Monicelli in L’armata
Brancaleone (1966). Il film è un
accurato excursus, in forma di sarcastica e intelligente commedia,
sul Medioevo italico percorso dalla peste. Protagonista, nei panni di
Brancaleone da Norcia, è Vittorio Gassman, in fuga dall’epidemia,
ovvero “lo gran morbo che tutti
piglia…” come dichiara egli
stesso nel film. Incontra, nell’avventuroso cammino, lo ieratico
monaco Zenone (uno straordinario Enrico Maria Salerno) che declama
enfaticamente: «La salvazione vi
porto! Seguitatemi! Prendete le vostre armi e il morbo non vi
tangerà! Venite meco in Terra Santa a liberare lo Santo Sepolcro! E
io vi prometto salvi lo corpo e l’anima!».
Con evidente, e nemmeno tanto sottile, ironia anticlericale Monicelli
promette, al seguito del monaco, una sorta di immunità, di
“andràtuttobene”
ante litteram, in cui l’uso della paura per il virus è declinato
in funzione politica per convincere la strampalata armata Brancaleone
a partire per le crociate in cambio della salvezza dell’anima e del
corpo. Ancora peste e ancora Medioevo di origine letteraria con un
virus stragista in La maschera della
morte rossa (1964) di Roger Corman
con due attori icone del genere horror
come Vincent Price e Hazel Court. Un film distopico, tratto dai
racconti di Edgar Allan Poe, che mostra, oltre alla paura per la
diffusione del contagio anche i suoi terribili e devastanti effetti
mortali tanto che la pellicola termina con le parole di Poe: «...e
l’Oscurità e il Decadimento e la Morte Rossa ebbero illimitato
dominio su tutto.» alla faccia di “neusciremomigliori”.
Il
virus in
versione autoriale lo ritroviamo ne Il
Decameron (1971) diretto da Pier
Paolo Pasolini, in cui la peste del 1348 a Firenze, narrata
nell’introduzione del testo originario del Boccaccio, viene
sublimata da Pasolini con un suo personale percorso narrativo. Un
“orrido cominciamento”
dove il morbo viene rappresentato da Pasolini attraverso Ciappelletto
che trasporta un sacco sulle spalle con dentro una persona che
massacra a suon di bastonate e scarica poi in un pendio. Il virus di
origine letteraria, sempre presente nel cinema, muta, si trasforma,
assume valenze più articolate, più problematiche, si aggiorna.
Dal
romanzo di Richard Mateson Io sono
leggenda (1954) arriva il virus
antropofago che muta gli uomini in non uomini, ossia in vampiri che
dilaniano gli uomini. Se ne occupa per primo il regista Ubaldo Ragona
che ha tratto dal libro il film L’ultimo
uomo della Terra (1964) sempre con
Vincent Price, dove un’epidemia causata da un misterioso virus ha
trasformato l’umanità in vampiri. Alla fine, concretizzando
l’hastag “celafaremo”,
la pandemia ‘non umana’, e quindi inaccettabile, verrà
sconfitta. Il romanzo avrà in seguito due nuove versioni: una nel
1971 dal titolo 1975: Occhi bianchi
sul pianeta Terra per
la regia di Boris Sagal con
Charlton Heston e una, più recente, nel 2007 a firma di Francis
Lawrence dal titolo Io sono leggenda
con Will Smith, che eredita dal
romanzo il titolo e lo status di ultimo
essere umano.
Nella
declinazione fanta-virus rientra l’interessante esperimento di Elio
Petri regista de La decima vittima
(1965), film interpretato da Marcello Mastroianni e Ursula Andress.
La storia si snoda in un futuro prossimo dove, per contenere il germe
della violenza e dell’aggressività, viene concessa una sorta di
licenza di uccidere e dieci occasioni per concretizzare l’omicidio.
«Una trasposizione allegorica di
aspirazioni ed inquietudini dell’oggi dove verngono fustigati certi
costumi, la ferocia dei rapporti individuali e collettivi,
l’arrivismo sociale dei tempi moderni.»
dichiarerà lo stesso Petri a proposito di questo fanta-virus sempre
in agguato nella società. Nello stesso ambito rientra di diritto il
capolavoro di Alfred Hitchcock Gli
uccelli (1963) con Tippi Hedren,
dove il «mago del brivido» sembra alludere nel sottotesto a un
misterioso virus che scatena l’aggressività degli uccelli. Mimesi
apocalittica di un virus rappresentato da un’alga rossa tossica in
grado di provocare nei volatili crisi epilettiche, oltre a
disorientamento e morte. Ancora mistero e paura quindi.
Virus,
timore del contagio ed armi batteriologiche in Satan
Bug (1964) di John Sturges dove il
virus eponimo, quello maggiormente aggressivo, è sfuggito al
controllo e scatta quindi «la paura
paranoica per un killer invisibile»
e altamente contagioso. Ma è con La
città verrà distrutta all’alba
(1973) di George A. Romero, remakerizzato poi nel 2010 da Brek
Eisner, che viene raggiunta l’autentica cuspide del cinema
virologico. Il film anticipa per molti aspetti gli
odierni concetti di “zona rossa”,
“quarantena”, “isolamento” e “sistema di controllo”.
Un’opera che riconduce le colpe del contagio non al comportamento
dell’essere umano ma, in maniera diretta e specifica, al mondo
della politica e ai governanti. Un’equazione virus e politica che
rappresenterà d’ora in avanti un punto di riferimento nel mondo
dei virus-movie. Sul contagio da virus ruota anche Cassandra
Crossing (1976) di George Pan
Cosmatos con
un cast stellare, come si usava all’epoca, fra cui la nostra Sophia
Loren. Un terrorista viene contagiato da nuovi e micidiali virus;
fugge su un treno e trasmette il patogeno ad alcuni passeggeri. Il
treno viene così sigillato e spedito in quarantena verso il
“Cassandra Crossing”, un fatiscente ponte in Polonia. Si fatica
non poco a ritrovare in questo film ambizioso le intenzioni del
regista che voleva rappresentare la prigionia sul treno e la
quarantena come metafora di un trattamento assimilabile ad nuovo
regime nazista.
La
paura del contagio torna anche ne L’esercito
delle 12 scimmie (1995) di Terry
Gilliam con un virus ambientalista che ha devastato l’intero
pianeta e ha costretto gli unici superstiti a vivere nel sottosuolo
per colpa di scempi che hanno reso l’aria irrespirabile e fatto
scomparire la natura. Un film che, nel raggruppare tutte le
ossessioni tipiche del cinema di Gilliam, può essere letto sia come
puro intrattenimento che come
articolata opera d’autore.
Nel
comparto virus e politica, con il futuro sconvolto da un patogeno
mortale, si colloca Virus letale
(1995) di William Petersen, film che nuovamente mette sotto accusa
dei governanti. Politici senza scrupoli che preferiscono negare
l’esistenza del virus e del suo antidoto in vista di un futuro
impiego bellico. Tra le opere con virus catartici ecco il film del
taiwanese Tsai Ming-liang The Hole-Il
buco (1998) storia collocata a sette
giorni dalla fine del secondo millennio a Taiwan. La città è in
preda ad un ecosistema in disfacimento ed è percorsa da una
misteriosa epidemia unita ad una incessante pioggia che tutto
pervade. La pandemia porta la gente a comportarsi come insetti
kafkiani, come scarafaggi che temono la luce. Ma questa discesa nel
buio diverrà un viaggio metaforico di rigenerazione. Fra i tanti
titoli, relativamente recenti, che legano il virus ancora alla
politica c’è anche I figli degli
uomini (2006) di Alfonso Cuaròn,
film in cui l’umanità rischia la scomparsa a causa di una
dilagante infertilità. Ma, anche qui, in fondo al tunnel c’è una
luce che da una speranza, quasi un’anticipazione dell’odierno
hastag “celafaremo”.
Nel
road-virus si colloca invece il film dei fratelli spagnoli David e
Alex Pastor Carriers-Contagio letale
(2009) che racconta la fuga in auto dalla pandemia di quattro
persone. Incuranti del pericolo, (avrebbero dovuto seguire
l’indicazione di “iorestoacasa”)
scappano, invece, verso il Messico e, nel periglioso viaggio,
contraggono il virus fatale che seminerà la morte.
È ancora un virus di stampo allegorico
quello di Blindness-Cecità
(2008) di Fernando Meirelles dall’omonimo
romanzo del premio Nobel José Saramago, dove la diffusione della
cecità, assimilabile a una vera e propria pandemia ha il valore
metaforico dell’incapacità di guardare oltre, e più in
profondità, alle dinamiche oppressive del potere, di qualsiasi
potere. Una metafora riuscita pienamente nel libro ma molto meno
nella trasposizione cinematografica. Nella declinazione
virus-da-animali rientra, infine, il recente Contagion
(2011) di Steven Soderbergh, film in cui l’epidemia ha origine in
un allevamento suino. Dopo il dilagare della cosiddetta “febbre
suina”, nel film del giovane statunitense si scatenano i tentativi
dei potenti di accaparrarsi con ogni mezzo i vaccini, senza
trascurare neppure l’omeopatia a
dimostrazione che l’avidità è sempre
pronta ad intervenire.
Dopo
questa breve manciata di sfumature sui virus balza agli occhi in
maniera evidente come tali film abbiamo la paura come contraltare
costante al virus, il panico per il diverso, per la malattia, per la
morte. Dicono gli psicanalisti che il motore della libido è legato
alla paura, alla sottile eccitazione dell’ignoto. Paura che,
dicono, dovrebbe allenare al coraggio e di conseguenza il “piacere”
del coraggio come assenza di paura. La messa in campo di energie per
superare la paura crea, dicono sempre loro, quello stato di
eccitazione, di piacere, di soddisfazione spesso impagabile.
Eccitazione che in tutti i bambini arriva confrontandosi con la paura
attraverso le fiabe percorse da orchi, lupi, draghi, streghe maligne
eccetera. Ecco, quindi, che i bimbi si addormentano sereni ascoltando
una tale fiaba. Visto il sempre grande successo dei “film
di paura” a questo punto dobbiamo
credergli.
I festival al tempo del Corona virus: non solo streaming, occhio alle risorse!
Un report dall’ultima assemblea dei festival di cinema italiani
Di Riccardo Costantini
C’è chi il festival ha fatto appena in tempo a realizzarlo, prima dell’emergenza (come il Trieste Film Festival); c’è chi lo aveva praticamente pronto (come Le voci dell’inchiesta o il Bergamo Film Meeting), ma ha dovuto sospenderlo e posticiparlo; c’è chi lo ha prontamente spostato, ma comunque ora si trova davanti a un bivio – on line o in presenza (Far East Film Festival)? – col perdurare della situazione negativa … Una situazione estremamente complessa e confusa, ovviamente non dipendente minimamente dai singoli festival, dalle varie organizzazioni. Le riflessioni su quello che saranno i festival, su quali le modalità di proposta dei contenuti, su come il pubblico potrà o non potrà partecipare sono state il leitmotiv – latente o esplicito – della recente assemblea di Afic – Associazione Festival Italiani di Cinema, tenutasti il 22 di aprile. Oltre 80 partecipanti, per la prima volta e con ottimo risultato riuniti virtualmente in remoto: il solo dato numerico è stato già un vero successo. La voglia di ripartire, di creare, di innovare, di ritornare al pubblico poi sono stati l’altro elemento cardine e positivo dell’evento. Certo la situazione permane molto complessa e come giustamente ha ricordato più volte il direttore della Direzione Generale Cinema Nicola Borrelli, sono state innumerevoli le riunioni e gli incontri fra “macchina centrale statale”, regioni e varie categorie, aprendo fra l’altro alle più ampie forme di realizzazione dei festival, proprio per sostenere chi più in difficoltà e favorire e premiare chi creativamente affronta questo momento molto complesso (molte realtà, infatti, temono per le risorse disponibili, per le “maglie burocratiche” che costringono a utilizzare i fondi secondo i canoni tradizionali, o per il molto personale coinvolto nella realizzazione delle manifestazioni ora disoccupato…). E’ stata così una buona notizia e un ottimo segnale in questo momento la realizzazione di una app AFIC, avente lo scopo di promuovere tutti i festival associati AFIC e di crearne una mappa nazionale, consentendo proprio mentre i festival sono in maggiore difficoltà di raggiungere un pubblico di spettatori più ampio, fatto di appassionati di cinema e giovani che magari non conoscono ancora tutte le realtà esistenti sul territorio nazionale. Chiara Valenti Omero – presidente AFIC – ha poi ottimamente sfruttato l’occasione per presentare i risultati del questionario rivolto ai festival soci e non soci, sviluppato e concluso da poco, e che offre uno spaccato importante e utile per il momento. Per esempio, un dato a cui fare attenzione è che già normalmente un gran numero di festival si è concentra nella riprogrammazione nella seconda parte del 2020 e che a causa dei rinvii dovuti all’emergenza attuale potrebbe crearsi negli ultimi mesi dell’anno un sovraffollamento potenzialmente preoccupante. Altrettanto interessante la riflessione sulla Mostra del cinema di Venezia – ovviamente punto di riferimento per tutti -, con le date che appaiono confermate, mentre le modalità di realizzazione dell’evento sono tutte allo studio e dovranno tener conto delle direttive nazionali. Appare così ovvio che quest’anno ogni festival dovrà immaginare delle modalità per lo meno ibride di proposta dei contenuti, con molti contenuti in streaming. AFIC sta preparando in questo senso un accordo con vari partner di importanza nazionale, sondando le possibilità di ospitalità sulla loro piattaforma. Ovviamente rimangono alcune perplessità generali: chissà se la gente avrà voglia di andare al cinema quest’estate, anche in forme diverse rispetto al solito, e chissà se da settembre/ottobre ci sarà il rischio di un nuovo lockdown… Sul fronte delle risorse, AFIC ha poi proposto l’introduzione di misure migliorative relative a Tax Credit e Art Bonus, incentivi importanti per le singole organizzazioni verso sponsor terzi e per recupero di patrimonio in un momento di crisi dei finanziamenti esterni. La presidente Chiara Omero, anche direttrice del nostrano ShorTS, ha avuto occasione di ricordare come il Friuli Venezia Giulia sia una realtà virtuosa e che il modello possa e debba essere imitato: in questo momento il poter contare su bandi regionali sia triennali che annuali, con finanziamenti certi, la presenza di un Art Bonus già strutturato, costituiscono elementi di assoluta qualità e virtuosi per il futuro.
La voglia di fare
permane, ma solo l’immediato futuro ci dirà – sperimentandole
direttamente – quali saranno le forme migliori per la sopravvivenza
e l’esistenza post Covid dei festival cinematografici.
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