Qualcosa è cambiato

Di Marco Fortunato

Chi non ricorda l’omonimo film di James Brooks del 1997 nel quale al protagonista (Melvin, uno straordinario Jack Nicholson meritatissimo Premio Oscar come miglior attore) serve un lungo viaggio per rendersi conto della necessità di un cambiamento nella propria vita? Stesso destino tocca oggi alle sale cinematografiche che, in verità, ben prima dello scoppio della pandemia si stavano interrogando – anche se senza troppa convinzione – sul proprio futuro e che oggi si trovano costrette a fare i conti con una realtà (forse) definitivamente cambiata e a cui sarà necessario adattarsi.

E dunque a che punto siamo con questo viaggio verso il cambiamento? Cosa ci ha insegnato questo periodo di stop forzato e cosa, invece, dobbiamo ancora imparare?

Per prima cosa il lockdown ci ha messo di fronte alle criticità intrinseche al nostro sistema di mercato che derivano dalla sua peculiare struttura: il cinema è un mercato molto interconnesso (forse più di qualsiasi altro) dove, muoversi da soli e in maniera disorganizzata significa disperdere energie e ottenere scarsi risultati. E guai a dimenticarselo.

Altra constatazione è l’assenza di un piano B e l’enorme difficoltà anche solo ad immaginarlo. Numerose aziende, di ogni ramo e dimensione hanno scelto di riconvertirsi introducendo profonde revisioni nei propri processi produttivi per far fronte ad una realtà nuova che impone nuove sfide ma apre anche nuove opportunità. Il sistema cinema, in questo senso, ha invece manifestato tutta la sua rigidità.

Ma per fortuna qualche segnale incoraggiante si intravede all’orizzonte. Sul primo versante soprattutto. In tempo di crisi l’esercizio, da sempre il comparto più frammentato della filiera cinematografica, sta riscoprendo il valore dell’unione, scegliendo di affidarsi alle associazioni di categoria – che a loro volta riscoprono il loro ruolo – per organizzare le proprie richieste e tradurre i propri desiderata in proposte concrete. Si tratta di un passaggio fondamentale, poiché solo questa consapevolezza permette il passaggio successivo, ovvero quello di rendersi conto che, oltre a quelli interni, si possono creare ulteriori collegamenti con altri settori, sempre dello spettacolo, che hanno le stesse esigenze del cinema come ad esempio il teatro, la musica, ecc. In questo modo si crea massa critica che possa far valere il “peso” della cultura agli occhi dei decisori politici, si costruisce autorevolezza e ci si candida ad essere parte attiva e non passiva dei processi di cambiamento. In altre parole, si fa “lobby”, parola ben nota ad altri comparti economici che da molto prima dell’arrivo del Covid sanno come far sentire la propria voce in maniera forte ed unitaria.

Sul secondo fronte, quello dell’attitudine al cambiamento in senso vero e proprio, la strada sembra più lunga. Gli esempi sono tanti (le piattaforme streaming in primis o il ritorno a vecchie modalità di fruizione come il “drive-in”) ma, in generale, l’approccio del settore alle proposte di modifica dello status quo è apparso timoroso e frammentario.

Al di là delle legittime opinioni di ciascuno sulle singole ipotesi quello che è mancato è stato un confronto tempestivo, chiaro e soprattutto carico di quello spirito propositivo che avrebbe potuto essere determinante per arrivare a soluzioni condivise. Invece il mercato si spaccato con l’inevitabile conseguenza della nascita di progetti disorganici, la maggior parte dei quali risulterà difficilmente sostenibile nel lungo periodo.

La soluzione dunque, oggi come nel prossimo futuro, appare una sola, quella dell’unità di intenti e di azioni. Il primo passo è una presa di coscienza del proprio ruolo, che è culturale, ma anche economico e sociale. Quello successivo è quello della condivisione: di idee, progetti e se possibile soluzioni. La strada è ancora lunga, percorrerla insieme sarà più facile e, probabilmente, anche molto più stimolante.

«L’Italia sullo schermo» di Gian Piero Brunetta

Intervista con lo storico del cinema

Di Lorenzo Codelli

Da parecchi lustri il nostro amico Gian Piero Brunetta, infaticabile colonna dell’ateneo padovano, riscrive, aggiorna, rimette in discussione la propria Storia del cinema italiano, una bibbia apparsa in diverse versioni. Ha pubblicato ora L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale (Carocci Editore, 368 p.), una raccolta che spazia dalle tematiche del Risorgimento a quelle dell’attualità. Il regista Marco Tullio Giordana ammira in Brunetta «la capienza dello sguardo d’assieme, la capacità di iscrivere singoli film e autori nel grande flusso generale, come un esperto capace di ritrovare le acque degli affluenti nel grande fiume tranquillo che corre verso il mare». Abbiamo posto a Brunetta alcune domande.

Sfatare i miti è compito dello storico. Lo fai ad esempio per l’immagine di  Caporetto, così come per quella di Mussolini e delle sue imprese militari in Africa e in Spagna.

Sono uno storico che ama confrontarsi con le forme e metamorfosi del mito, ma in molti capitoli del libro, ho voluto vedere sotto luci, sfaccettature e misure di scala diverse le immagini  che costituivano mitologie legate alle sconfitte o ai trionfi bellici.  Caporetto in realtà si è  fissata nella memoria  come sinonimo di catastrofe in assenza di immagini  rappresentative di fonte italiana. Le uniche esistenti sono di parte tedesca e puntano a sottolineare, più verbalmente che visivamente, la diserzione e la viltà dei soldati e dell’esercito italiano in fuga. I vincitori non entrano in scena a Caporetto. Quanto alle immagini della conquista dell’Impero e della partecipazione alla guerra di Spagna  mi è sembrato che l’analisi dei testi non restituisse nulla di eroico o trionfale, ma mettesse in evidenza i limiti della potenza militare italiana alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il periodo aureo del neoorealismo lo descrivi in controluce, senza isolare cioè i maestri famosi.

In effetti degli autori del neorealismo mi sono occupato a lungo nelle mie opere precedenti, qui mi interessava mettere in evidenza il prevalere di un senso del Noi che guida  il percorso della rinascita nazionale e internazionale del cinema del dopoguerra, sia per quanto riguarda i soggetti del racconto che gli autori e la capacità del nostro cinema nel suo insieme di cogliere ed evidenziare, nel bene e nel male, caratteri identitari forti dei nuovi protagonisti della storia repubblicana visti nel loro muoversi incerto e in ordine sparso verso nuovi orizzonti europei.

Malgrado l’oggettività braudeliana del tuo approccio trasmetti spesso sprazzi di nostalgia per i bei tempi dei Fellini, Scola, Monicelli ecc.

Più che nostalgia è il senso di perdita di non pochi elementi connettivi del cinema italiano del dopoguerra che ne hanno fatto insieme una bottega artigiana, un luogo di condivisione, interazione  e  dialogo, e uno spazio unico di riconoscimento e riconoscenza nei confronti di alcuni padri e di vasti rapporti di parentela stilistica, narrativa, ideale e ideologica.

Com’è cambiata la metodologia storiografica nel corso dei decenni?

Si è passati attraverso varie fasi: la prima era fondata sul ricorso  alle incertezze e vuoti della memoria da parte di giornalisti che  cercavano di mettere  in ordine le loro conoscenze e ricordi, poi si è passati  ai primi veri tentativi di affrontare il cinema, nato da pochi decenni, con gli strumenti dello storico (penso per tutti a Pasinetti, Sadoul e Mitry). Nelle loro storie entrano strumenti di tipo positivistico e accumulativo ma anche strumenti più maturi di tipo connettivo e capaci di usare diversi tipi di fonti e di osservare la storia nel suo aspetto globale e interconnesso sia dal punto di vista dell’evoluzione linguistica che delle strategie economiche. Quando ancora le fonti filmiche erano pressoché off limits per lo storico sono state importanti le doti di serendipity e di abduzione, che hanno consentito, con pochi esempi filmici a disposizione di interpretare insiemi più generali. Oggi uno storico dispone di strumenti facilmente accessibili grazie alla rete e alle diverse piattaforme, inimmaginabili per la mia generazione. Il cinema del passato è riemerso progressivamente ai nostri occhi come il regno di Atlantide. La crescita delle discipline universitarie e la legittimazione della materia sul piano scientifico hanno aperto in questi ultimi decenni non poche strade nuove e consentito un vero scambio di metodi e informazioni sul piano internazionale.

Scrivendo dei film italiani post-2000 ti dimostri molto ottimista.

Mi dimostravo ottimista quando ho scritto quelle pagine agli inizi del millennio. Il paesaggio è molto cambiato, ma per quanto mi è stato possibile vedere anche negli anni che hanno preceduto questo arresto importante di tutte le attività produttive e dell’esercizio mi sembra che  sia sempre possibile imbattersi in film che fanno venire a persone come me la voglia di andare al cinema in sala, ma anche di vederlo in qualsiasi formato e di avvertire la voglia di tornare a scriverne, perché quel film  a vari livelli, di regia, di racconto, di recitazione, di scrittura, di effetti speciali, di usi dei suoni e rumori, ti ha trasmesso segnali di vitalità significativi. Grazie ancora a non pochi film di questi anni avverto ancora l’orgoglio di  dichiararmi cittadino del cinema italiano.

Su quali fonti potranno basarsi gli storici a venire?

In questi mesi di coronavirus è cresciuto in maniera malthusiana il rapporto con la rete sia in nuove forme attive che passive.  Alcune cineteche, che in passato erano inaccessibili come Fort Knox, ora consentono a tutti l’accesso ai loro tesori e non solo agli storici. Molte cineteche avevano già da tempo messo in rete la loro collezione di riviste e i loro archivi, e nel giro di qualche decennio gli storici potranno godere della possibilità di esplorare  diversi strati di fonti con ottiche sempre più comprensive e interdisciplinari con una semplice connessione e l’uso di una password. Nuove enormi praterie, dalle dimensioni smisurate, possono ancora aprirsi agli storici delle nuove generazioni, quando tutto questo sarà finito.

50 sfumature di virus

Di Andrea Crozzoli

Il virus nella letteratura è presente dagli albori della civiltà, da quasi tremila anni. Ovvero dall’Iliade quando Apollo, per vendicare Crise, fa scoppiare una terribile pestilenza fra i greci. Proprio la letteratura è stata, nel corso tempo, uno dei principali veicoli per almentare il cinema con storie di virus. Cinema che è stato così in grado di declinare il virus in svariate sottospecie, con un ventaglio di modificazioni tale che ci permetterebbe di compilare un vero e proprio glossario con le “50 sfumature di virus” in grado di far invidia ai virus esistenti in natura.

Uno dei primi film che tocca lo scottante argomento è Nosferatu, eine Symphonie des Grauens di Friedrich Wilhelm Murnau, capolavoro muto del 1922 che già nel titolo “una sinfonia di orrori” precisa la declinazione del virus collocandolo nel genere horror. Il film di Murnau utilizza il vampiro per destabilizzare la collettività e per spargere il terrore attraverso il virus della peste, veicolato nella terra contaminata all’interno delle bare. Una prova generale di cosa significa governare con la paura, attraverso una vera e propria sovversione dell’ordine costituito causato dalla pestilenza. Nel remake del 1979, a firma di Werner Herzog, la peste arriva, invece, attraverso una vera e propria invasione di centinaia e centinaia di topi che dilagano per la città con effetti devastanti. Invasione che risulta, anche dal punto di vista visivo, ancora più perturbante.

Come ben sappiamo, il virus non conosce confini e il nobile cavaliere Antonius Block che torna in Svezia dalle Crociate ne Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman, trova il paese in preda alla peste e ad attenderlo la Morte in persona. Ingaggia con essa, mantenendo il distanziamento sociale, una partita a scacchi per ritardare quanto più possibile la dipartita verso l’aldilà. Ma Bergman, indiscusso maestro svedese, usa l’agente patogeno per dirci altro trasformando la mutazione in meta-virus, ossia pretesto per una riflessione esistenziale. Riflessione che costituisce occasione per raccontare, in questo capolavoro assoluto, il secolo medievale del crollo della “religione delle certezze“. Avvenimento che apre, non solo per il regista ma per tutta l’umanità, una nuova era.

Tale crollo, invece, deve ancora avvenire nella peste medievale, narrata prosaicamente dal mediterraneo e solare, Mario Monicelli in L’armata Brancaleone (1966). Il film è un accurato excursus, in forma di sarcastica e intelligente commedia, sul Medioevo italico percorso dalla peste. Protagonista, nei panni di Brancaleone da Norcia, è Vittorio Gassman, in fuga dall’epidemia, ovvero “lo gran morbo che tutti piglia…” come dichiara egli stesso nel film. Incontra, nell’avventuroso cammino, lo ieratico monaco Zenone (uno straordinario Enrico Maria Salerno) che declama enfaticamente: «La salvazione vi porto! Seguitatemi! Prendete le vostre armi e il morbo non vi tangerà! Venite meco in Terra Santa a liberare lo Santo Sepolcro! E io vi prometto salvi lo corpo e l’anima!». Con evidente, e nemmeno tanto sottile, ironia anticlericale Monicelli promette, al seguito del monaco, una sorta di immunità, di “andràtuttobene” ante litteram, in cui l’uso della paura per il virus è declinato in funzione politica per convincere la strampalata armata Brancaleone a partire per le crociate in cambio della salvezza dell’anima e del corpo. Ancora peste e ancora Medioevo di origine letteraria con un virus stragista in La maschera della morte rossa (1964) di Roger Corman con due attori icone del genere horror come Vincent Price e Hazel Court. Un film distopico, tratto dai racconti di Edgar Allan Poe, che mostra, oltre alla paura per la diffusione del contagio anche i suoi terribili e devastanti effetti mortali tanto che la pellicola termina con le parole di Poe: «...e l’Oscurità e il Decadimento e la Morte Rossa ebbero illimitato dominio su tutto.» alla faccia di “neusciremomigliori”.

Il virus in versione autoriale lo ritroviamo ne Il Decameron (1971) diretto da Pier Paolo Pasolini, in cui la peste del 1348 a Firenze, narrata nell’introduzione del testo originario del Boccaccio, viene sublimata da Pasolini con un suo personale percorso narrativo. Un “orrido cominciamento” dove il morbo viene rappresentato da Pasolini attraverso Ciappelletto che trasporta un sacco sulle spalle con dentro una persona che massacra a suon di bastonate e scarica poi in un pendio. Il virus di origine letteraria, sempre presente nel cinema, muta, si trasforma, assume valenze più articolate, più problematiche, si aggiorna.

Dal romanzo di Richard Mateson Io sono leggenda (1954) arriva il virus antropofago che muta gli uomini in non uomini, ossia in vampiri che dilaniano gli uomini. Se ne occupa per primo il regista Ubaldo Ragona che ha tratto dal libro il film L’ultimo uomo della Terra (1964) sempre con Vincent Price, dove un’epidemia causata da un misterioso virus ha trasformato l’umanità in vampiri. Alla fine, concretizzando l’hastag “celafaremo”, la pandemia ‘non umana’, e quindi inaccettabile, verrà sconfitta. Il romanzo avrà in seguito due nuove versioni: una nel 1971 dal titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra per la regia di Boris Sagal con Charlton Heston e una, più recente, nel 2007 a firma di Francis Lawrence dal titolo Io sono leggenda con Will Smith, che eredita dal romanzo il titolo e lo status di ultimo essere umano.

Nella declinazione fanta-virus rientra l’interessante esperimento di Elio Petri regista de La decima vittima (1965), film interpretato da Marcello Mastroianni e Ursula Andress. La storia si snoda in un futuro prossimo dove, per contenere il germe della violenza e dell’aggressività, viene concessa una sorta di licenza di uccidere e dieci occasioni per concretizzare l’omicidio. «Una trasposizione allegorica di aspirazioni ed inquietudini dell’oggi dove verngono fustigati certi costumi, la ferocia dei rapporti individuali e collettivi, l’arrivismo sociale dei tempi moderni.» dichiarerà lo stesso Petri a proposito di questo fanta-virus sempre in agguato nella società. Nello stesso ambito rientra di diritto il capolavoro di Alfred Hitchcock Gli uccelli (1963) con Tippi Hedren, dove il «mago del brivido» sembra alludere nel sottotesto a un misterioso virus che scatena l’aggressività degli uccelli. Mimesi apocalittica di un virus rappresentato da un’alga rossa tossica in grado di provocare nei volatili crisi epilettiche, oltre a disorientamento e morte. Ancora mistero e paura quindi.

Virus, timore del contagio ed armi batteriologiche in Satan Bug (1964) di John Sturges dove il virus eponimo, quello maggiormente aggressivo, è sfuggito al controllo e scatta quindi «la paura paranoica per un killer invisibile» e altamente contagioso. Ma è con La città verrà distrutta all’alba (1973) di George A. Romero, remakerizzato poi nel 2010 da Brek Eisner, che viene raggiunta l’autentica cuspide del cinema virologico. Il film anticipa per molti aspetti gli odierni concetti di “zona rossa”, “quarantena”, “isolamento” e “sistema di controllo”. Un’opera che riconduce le colpe del contagio non al comportamento dell’essere umano ma, in maniera diretta e specifica, al mondo della politica e ai governanti. Un’equazione virus e politica che rappresenterà d’ora in avanti un punto di riferimento nel mondo dei virus-movie. Sul contagio da virus ruota anche Cassandra Crossing (1976) di George Pan Cosmatos con un cast stellare, come si usava all’epoca, fra cui la nostra Sophia Loren. Un terrorista viene contagiato da nuovi e micidiali virus; fugge su un treno e trasmette il patogeno ad alcuni passeggeri. Il treno viene così sigillato e spedito in quarantena verso il “Cassandra Crossing”, un fatiscente ponte in Polonia. Si fatica non poco a ritrovare in questo film ambizioso le intenzioni del regista che voleva rappresentare la prigionia sul treno e la quarantena come metafora di un trattamento assimilabile ad nuovo regime nazista.

La paura del contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam con un virus ambientalista che ha devastato l’intero pianeta e ha costretto gli unici superstiti a vivere nel sottosuolo per colpa di scempi che hanno reso l’aria irrespirabile e fatto scomparire la natura. Un film che, nel raggruppare tutte le ossessioni tipiche del cinema di Gilliam, può essere letto sia come puro intrattenimento che come articolata opera d’autore.

Nel comparto virus e politica, con il futuro sconvolto da un patogeno mortale, si colloca Virus letale (1995) di William Petersen, film che nuovamente mette sotto accusa dei governanti. Politici senza scrupoli che preferiscono negare l’esistenza del virus e del suo antidoto in vista di un futuro impiego bellico. Tra le opere con virus catartici ecco il film del taiwanese Tsai Ming-liang The Hole-Il buco (1998) storia collocata a sette giorni dalla fine del secondo millennio a Taiwan. La città è in preda ad un ecosistema in disfacimento ed è percorsa da una misteriosa epidemia unita ad una incessante pioggia che tutto pervade. La pandemia porta la gente a comportarsi come insetti kafkiani, come scarafaggi che temono la luce. Ma questa discesa nel buio diverrà un viaggio metaforico di rigenerazione. Fra i tanti titoli, relativamente recenti, che legano il virus ancora alla politica c’è anche I figli degli uomini (2006) di Alfonso Cuaròn, film in cui l’umanità rischia la scomparsa a causa di una dilagante infertilità. Ma, anche qui, in fondo al tunnel c’è una luce che da una speranza, quasi un’anticipazione dell’odierno hastag “celafaremo”.

Nel road-virus si colloca invece il film dei fratelli spagnoli David e Alex Pastor Carriers-Contagio letale (2009) che racconta la fuga in auto dalla pandemia di quattro persone. Incuranti del pericolo, (avrebbero dovuto seguire l’indicazione di “iorestoacasa”) scappano, invece, verso il Messico e, nel periglioso viaggio, contraggono il virus fatale che seminerà la morte. È ancora un virus di stampo allegorico quello di Blindness-Cecità (2008) di Fernando Meirelles dall’omonimo romanzo del premio Nobel José Saramago, dove la diffusione della cecità, assimilabile a una vera e propria pandemia ha il valore metaforico dell’incapacità di guardare oltre, e più in profondità, alle dinamiche oppressive del potere, di qualsiasi potere. Una metafora riuscita pienamente nel libro ma molto meno nella trasposizione cinematografica. Nella declinazione virus-da-animali rientra, infine, il recente Contagion (2011) di Steven Soderbergh, film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino. Dopo il dilagare della cosiddetta “febbre suina”, nel film del giovane statunitense si scatenano i tentativi dei potenti di accaparrarsi con ogni mezzo i vaccini, senza trascurare neppure l’omeopatia a dimostrazione che l’avidità è sempre pronta ad intervenire.

Dopo questa breve manciata di sfumature sui virus balza agli occhi in maniera evidente come tali film abbiamo la paura come contraltare costante al virus, il panico per il diverso, per la malattia, per la morte. Dicono gli psicanalisti che il motore della libido è legato alla paura, alla sottile eccitazione dell’ignoto. Paura che, dicono, dovrebbe allenare al coraggio e di conseguenza il “piacere” del coraggio come assenza di paura. La messa in campo di energie per superare la paura crea, dicono sempre loro, quello stato di eccitazione, di piacere, di soddisfazione spesso impagabile. Eccitazione che in tutti i bambini arriva confrontandosi con la paura attraverso le fiabe percorse da orchi, lupi, draghi, streghe maligne eccetera. Ecco, quindi, che i bimbi si addormentano sereni ascoltando una tale fiaba. Visto il sempre grande successo dei “film di paura” a questo punto dobbiamo credergli.

I festival al tempo del Corona virus: non solo streaming, occhio alle risorse!

Un report dall’ultima assemblea dei festival di cinema italiani

Di Riccardo Costantini

C’è chi il festival ha fatto appena in tempo a realizzarlo, prima dell’emergenza (come il Trieste Film Festival); c’è chi lo aveva praticamente pronto (come Le voci dell’inchiesta o il Bergamo Film Meeting), ma ha dovuto sospenderlo e posticiparlo; c’è chi lo ha prontamente spostato, ma comunque ora si trova davanti a un bivio – on line o in presenza (Far East Film Festival)? – col perdurare della situazione negativa … Una situazione estremamente complessa e confusa, ovviamente non dipendente minimamente dai singoli festival, dalle varie organizzazioni. Le riflessioni su quello che saranno i festival, su quali le modalità di proposta dei contenuti, su come il pubblico potrà o non potrà partecipare sono state il leitmotiv – latente o esplicito – della recente assemblea di Afic – Associazione Festival Italiani di Cinema, tenutasti il 22 di aprile. Oltre 80 partecipanti, per la prima volta e con ottimo risultato riuniti virtualmente in remoto: il solo dato numerico è stato già un vero successo. La voglia di ripartire, di creare, di innovare, di ritornare al pubblico poi sono stati l’altro elemento cardine e positivo dell’evento. Certo la situazione permane molto complessa e come giustamente ha ricordato più volte il direttore della Direzione Generale Cinema Nicola Borrelli, sono state innumerevoli le riunioni e gli incontri fra “macchina centrale statale”, regioni e varie categorie, aprendo fra l’altro alle più ampie forme di realizzazione dei festival, proprio per sostenere chi più in difficoltà e favorire e premiare chi creativamente affronta questo momento molto complesso (molte realtà, infatti, temono per le risorse disponibili, per le “maglie burocratiche” che costringono a utilizzare i fondi secondo i canoni tradizionali, o per il molto personale coinvolto nella realizzazione delle manifestazioni ora disoccupato…). E’ stata così una buona notizia e un ottimo segnale in questo momento la realizzazione di una app AFIC, avente lo scopo di promuovere tutti i festival associati AFIC e di crearne una mappa nazionale, consentendo proprio mentre i festival sono in maggiore difficoltà di raggiungere un pubblico di spettatori più ampio, fatto di appassionati di cinema e giovani che magari non conoscono ancora tutte le realtà esistenti sul territorio nazionale. Chiara Valenti Omero – presidente AFIC – ha poi ottimamente sfruttato l’occasione per presentare i risultati del questionario rivolto ai festival soci e non soci, sviluppato e concluso da poco, e che offre uno spaccato importante e utile per il momento. Per esempio, un dato a cui fare attenzione è che già normalmente un gran numero di festival si è concentra nella riprogrammazione nella seconda parte del 2020 e che a causa dei rinvii dovuti all’emergenza attuale potrebbe crearsi negli ultimi mesi dell’anno un sovraffollamento potenzialmente preoccupante. Altrettanto interessante la riflessione sulla Mostra del cinema di Venezia – ovviamente punto di riferimento per tutti -, con le date che appaiono confermate, mentre le modalità di realizzazione dell’evento sono tutte allo studio e dovranno tener conto delle direttive nazionali. Appare così ovvio che quest’anno ogni festival dovrà immaginare delle modalità per lo meno ibride di proposta dei contenuti, con molti contenuti in streaming. AFIC sta preparando in questo senso un accordo con vari partner di importanza nazionale, sondando le possibilità di ospitalità sulla loro piattaforma. Ovviamente rimangono alcune perplessità generali: chissà se la gente avrà voglia di andare al cinema quest’estate, anche in forme diverse rispetto al solito, e chissà se da settembre/ottobre ci sarà il rischio di un nuovo lockdown… Sul fronte delle risorse, AFIC ha poi proposto l’introduzione di misure migliorative relative a Tax Credit e Art Bonus, incentivi importanti per le singole organizzazioni verso sponsor terzi e per recupero di patrimonio in un momento di crisi dei finanziamenti esterni. La presidente Chiara Omero, anche direttrice del nostrano ShorTS, ha avuto occasione di ricordare come il Friuli Venezia Giulia sia una realtà virtuosa e che il modello possa e debba essere imitato: in questo momento il poter contare su bandi regionali sia triennali che annuali, con finanziamenti certi, la presenza di un Art Bonus già strutturato, costituiscono elementi di assoluta qualità e virtuosi per il futuro.

La voglia di fare permane, ma solo l’immediato futuro ci dirà – sperimentandole direttamente – quali saranno le forme migliori per la sopravvivenza e l’esistenza post Covid dei festival cinematografici.