“COMPAGNI, AL CINEMA!”

LIVORNO, IN OCCASIONE DEI 100 ANNI DALLA NASCITA DEL PCI UNA RETROSPETTIVA IN COLLABORAZIONE CON CINEMAZERO

Di Riccardo Costantini

La città Toscana, dove proprio 100 anni fa, con la scissione del Partito Socialista Italiano, nacque il Partito Comunista d’Italia , sta portando avanti una serie di manifestazioni che spaziano dal teatro, al cinema, alla fotografia, tutte con un comune denominatore: il rapporto tra il PCI e la cultura.

Promosse dal Comune di Livorno con il contributo della Regione Toscana, svolte in collaborazione con la Fondazione Gramsci di Roma, la Fondazione Teatro Goldoni e il Cinema Teatro 4Mori di Livorno e con l’ideazione e l’organizzazione generale di Villaggio Globale International, le iniziative indagano attraverso le diverse forme espressive dell’arte il rapporto tra il PCI e la cultura, sottolineando la rilevanza e l’incisività del Partito nella crescita, nello sviluppo e nella formazione identitaria di tutto il nostro Paese.

Dal 13 gennaio alle prime ore del 16 gennaio 2022, le celebrazioni si concretizzeranno in una maratona cinematografica realizzata in collaborazione con Cinemazero, che, attraverso una selezione di una dozzina di film, di documentari e filmati d’epoca e materiali rari, affronta il tema del rapporto tra il PCI e il cinema nel contesto politico e sociale italiano della seconda metà del Novecento.

Il linguaggio cinematografico – tra le forme di espressione artistica più dirette, immediate e attrattive – è stato terreno di sperimentazioni e occasione di accesi dibattiti in seno al partito e tra gli intellettuali comunisti o vicini al PCI, ma soprattutto ha accompagnato costantemente la rappresentazione e l’evoluzione della società italiana nel XX secolo.

La maratona – che non tralascierà di ricordare Lina Wertmuller, la grande, rivoluzionaria e anticonformista regista appena scomparsa, e Pier Paolo Pasolini di cui ricorre il prossimo anno il centenario della nascita – porterà dunque al Cinema Teatro i 4Mori e al Teatro Goldoni le pellicole dei registi che dopo la seconda guerra mondiale si sono focalizzati sul clima storico della nostra penisola e sull’antifascismo con la produzione di riconosciuti capolavori dal neorealismo al cinema d’autore.

Tra questi anche “Novecento” di Bernardo Bertolucci nella versione restaurata in 4 K , accompagnata da una presentazione dello stesso Maestro, registrata poco prima della sua morte.

Sabato 15 gennaio, giornata clou delle manifestazioni, oltre a quelli cinematografici saranno altri due gli appuntamenti da segnare in agenda.

La mattina sarà presentato, sempre al Teatro Goldoni, il libro fotografico “In movimento e in posa. Album dei comunisti italiani”, edito da Marsilio Editori e dalla Fondazione Gramsci di Roma a cura di Marco Delogu e Francesco Giasi. In libreria dal 30 settembre 2021, il libro raccoglie 200 immagini, alcune inedite e molte sconosciute, rintracciate in numerosi, diversi archivi, che restituiscono la storia del PCI ed innumerevoli tratti del Novecento italiano. Un libro che, grazie alla presenza delle maggiori firme della fotografia italiana e internazionale del XX secolo e nel contempo di scatti anonimi di militanti e gente comune, è anche l’occasione per indagare l’altalenante rapporto che il PCI ebbe con questo straordinario mezzo espressivo.

Altro atteso appuntamento, in serata, sarà invece la preview del filmato inedito “Gli intellettuali e il PCI”, documentario prodotto dal Comune di Livorno e realizzato per l’occasione dalla società 3D Produzioni, autore Laurenzo Ticca con la regia di Didi Gnocchi.

Il docufilm propone una serie di interviste realizzate appositamente a importanti personalità – politici, storici, giornalisti, artisti, registi, cantautori, critici d’arte come Aldo Tortorella, Camilla Ravera, Giuliano Montaldo, Duccio Trombadori, Albertina Vittoria, Francesco Giasi, Luciana Castellina, Ermanno Taviani, Sergio Staino, Massimo D’Alema, Giovanna Marini, Marcello Flores, Paolo Pietrangeli nonché materiale di repertorio di Pierpaolo Pasolini, Emanuele Macaluso, Alfredo Reichlin, Palmiro Togliatti, Lucio Magri.

Piattaforma uguale a forma piatta?

Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede                                                           sentieri di cinema!

di Andrea Crozzoli

Nel finale di È stata la mano di Dio, decimo film di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano urla a Fabietto, ossia al Sorrentino adolescente della finzione: «A tien’ ‘na cosa ‘a raccuntà?». La risposta dovrebbe venire direttamente dal cinquantenne regista napoletano – come di consueto autore anche della sceneggiatura – argomentando il perché delle sua scelta di raccontare mescolando realtà, ricostruzione romanzesca e finzione in una struttura di fondo sostanzialmente lineare e temporalmente conseguenziale seppur priva di quel barocchismo emerso con vigore nei suoi film precedenti. Qui Sorrentino sembra giunto “a un O.K. Corral dei sentimenti, una resa dei conti dal sapore crepuscolare”. Ha dichiarato numerosissime volte il suo amore per Federico Fellini, citato continuamente nel suo cinema, tanto che in questo film entra addirittura in scena (solo in voce) e lo sentiamo discutere mentre sceglie le comparse a Napoli. Ma già nell’incipit Sorrentino cita il grande riminese con l’ingorgo iniziale di auto, come in Otto e mezzo, che appare direttamente in piazza del Plebiscito, dopo una lunga carellata dal mare, su Napoli e il suo golfo. Un sogno che, freudianamente, è contaminato dalla realtà e l’apparizione onirica di San Gennaro su auto d’epoca che imbarca la zia Patrizia e lascia a quest’ultima, dopo una prestazione, del denaro che il marito però ritroverà nella borsetta della moglie. Il buon Sorrentino non rinuncia del tutto ai suoi stilemi e infila nel film anche un fraticello nano che saluta nel finale il nostro Fabietto imbarcato sul treno per Roma come il Moraldo de I vitelloni.

Paolo Sorrentino e Toni Servillo

Se quasi 60 anni or sono Federico Fellini con l’insuperato capolavoro Otto e mezzo aveva ridisegnato la struttura stessa del film con sogni, ricordi, proiezioni visive, desideri visualizzati, associazioni mentali che si disponevano sullo stesso piano, intersecandosi e mescolandosi, quasi a “fotografare” la coscienza nel suo fluire. Sorrentino sceglie, invece, la strada classica, della semplice narrazione attraverso un montaggio lineare, dove l’unione delle diverse inquadrature, avviene secondo criteri di logica e di continuità, organizzando una semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità. Come scrivere con una bella calligrafia indipendentemente dai contenuti. Da Paolo Sorrentino si sarebbe aspettato e preteso qualcosa di più. Da chi mira al secondo Oscar ci saremmo aspettati una narrazione più articolata, più complessa, più personale se non autoriale. Ci saremmo aspettati ad esempio un uso nuovo del montaggio, perché nello specifico filmico è l’elemento che fa assurgere il cinema ad autonoma espressione artistica, emotiva, intellettuale che può essere di straordinario impatto. Otto e mezzo in questo senso è l’esempio più classico, il punto di riferimento ineludibile. Sorrentino invece sembra rinunciare ad ogni ricerca stilistica, che possa disturbare o confondere la linearità del racconto. Evita accuratamente il montaggio alternato o parallelo ma anche il montaggio discontinuo, così come evita flash-back o flash-forward, per non parlare delle ellissi. Sembra imperare in lui l’esigenza programmatica di voler farsi capire da tutti, a prescindere. Inseguire l’universalità ad ogni costo. Forse perché il produttore è una piattaforma che deve veicolare i suoi prodotti agli oltre 200 milioni di abbonati sparsi in tutto il mondo? Questo significa abbassare il livello di scrittura filmica, per renderlo comprensibile al maggior numero di persone come stigmatizza anche il lungimirante Nanni Moretti che vede nelle piattaforme il responsabile principale del condizionamento verso il basso del percorso espressivo di un autore. Il risultato è un film affossato da diverse cadute di stile, pieno di situazioni in bilico fra il grottesco e il superfluo nel raccontare la tempesta ormonale di questo 15enne, privo di amicizie, di una ragazza, perso per il seno mozzafiato di sua zia ma anche per la disponibilità allo svezzamento di una matura baronessa. Insomma un film che è “una cerimonia di transustanziazione in cui l’auteur si offre eucaristicamente allo spettatore. Smette di essere stile e si fa corpo filmico. Come Dio. Prendete e guardatene tutti.” (cit.).

IDFA 2021, premi a volte incomprensibili ci dicono (un po’) del documentario di oggi

Di Riccardo Costantini

“Grande la confusione sotto il cielo”, diceva quello. Certo che – complice la pandemia – si produce meno e peggio, ma alle volte, nel partecipare alla 34 edizione del più grande al festival di documentario al mondo, si è avuta forse la certezza che troppo sovente i registi cerchino a tutti i costi l’originalità, e – più di tutto – che la selezione poteva essere fatta con un po’ più di severità, o quanto meno i premi – specchio e cartina di tornasole di un festival – potessero esser dati con più rigore. Al Festival del Documentario di Amsterdam (IDFA) i bookmakers non accettavano scommesse: in un concorso internazionale  con una selezione di titoli non proprio effervescente, era abbastanza ovvio che il maestro Sergei Loznitsa portasse a casa senza problemi il premio principale l’IDFA Award per il miglior film nella competizione internazionale.

Lo vince per Mr. Landsbergis – dedicato alla secessione lituana dall’Unione Sovietica -, film costruito su una lunga intervista a Vytautas Landsbergis, il primo leader del parlamento lituano dopo la dichiarazione di indipendenza, montata sì magistralmente insieme a moltissimo materiale d’archivio interessantissimo…per una durata però che va oltre le 4 ore e che davvero mette in difficoltà gli spettatori (e le categorie di giudizio). Allo stesso modo, desta una certa perplessità il premio dato al libanese Karim Kassem, vincitore dell’IDFA Award per il miglior film nella competizione Envision con Octopus, che racconta il post disastro dell’esplosione che ha devastato Beirut ad agosto 2020 con un registro sobrio, privilegiando silenzi e micro azioni di ricostruzione, ma senza che il film si spinga molto più in là di una chiave certo originale per raccontare il tutto, che anzi sembra più essere un escamotage di richiamo che una valida soluzione narrativa.

Di tutt’altro appeal è risultato invece O, Collecting Eggs Despite Times, che vince l’IDFA Award per la migliore regia nel Concorso Envision: il regista Pim Zwier dipinge un vivido ritratto di un ornitologo tedesco lavorando su filmati d’archivio che si intrecciano mirabilmente alla storia del protagonista: la storia, originale e curiosa, di un collezionista di uova, si fonde con quella della grande Storia, con l’ascesa del nazismo e la guerra che incombe e poi esplode. Un modo davvero non convenzionale, con l’articolazione di alternanze fra materiali di footage d’eccezione a riprese in dettaglio di pagine di diario, lettere…e migliaia di uova.

Where are we headed?, vincitore del premio per la migliore fotografia nella competizione internazionale e per la migliore opera prima, è invece il sorprendente film di Ruslan Fedotow , che descrive gli imponenti spazi, quasi teatrali, della metropolitana di Mosca, come sfondo di una continua tragicommedia. Un documentario d’osservazione, con la metropolitana e ovviamente i suoi passeggeri protagonisti, fresco, capace anche di articolare una tesi chiara ma ironica, avversa al dispotismo di Putin. Fra piccoli inconvenienti, incontri surreali, conversazioni si crea un’immagine colorata di una società sotterranea in miniatura, una Russia bizzarra e viva, piena di varietà culturali, che viaggia, ma che forse si sta chiedendo dove sta andando…

Se la vita è stata dura per la lavoratrice domestica sudafricana Mothiba Grace Bapela, che l’ha vissuta al servizio degli altri, non fa un servizio né a lei né a un racconto che avrebbe avuto delle possibilità di importanza sociale, il documentario One Take Grace. Nel frattempo, ha perseguito una carriera come attrice. Premiato come contributo artistico d’eccezione, per essere un “toccante ritratto della disuguaglianza sociale e dell’oppressione delle donne”, il film di Lindiwe Matshikiza appare invece come un infelice, soprattutto dal punto di vista tecnico, tentativo di seguire troppo da vicino la vita della protagonista, raggiungendo – per chi scrive – l’esito contrario: un ritratto insopportabile e per nulla rispettoso.

Vampyr – Il vampiro

il cinema ritrovato a Cinemazero

Di Paolo Antonio D’Andrea

Con il mese di gennaio ritorna l’appuntamento con i classici restaurati della Cineteca di Bologna. L’occasione, in questo caso, la fornisce un anniversario di particolare importanza: a compiere 90 anni, senza sentirli, è Vampyr – Il vampiro (Vampyr – Der Traum des Allan Grey, 1932) di Carl Theodor Dreyer, capolavoro assoluto di uno dei più straordinari registi della storia del cinema. Prodotto subito dopo l’exploit della Passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928), Vampyr prende ispirazione dal più famoso racconto di vampirismo femminile, Carmilla (1872) di Sheridan Le Fanu, ed è il primo film sonoro del regista danese.

Nonostante gli autorevolissimi precedenti tratti da Bram Stoker (il Nosferatu di Murnau e il Dracula di Browning), la pellicola di Dreyer appare come un unicum: un horror stranamente solare, ove il bianco prevale sul nero, con protagonista “un sognatore e fantasticatore che ha smarrito il confine tra la realtà e il soprannaturale”, figlio ultimo dei sonnambuli dell’espressionismo tedesco. La straniante complessità di un film girato con la logica illogica del sogno valse a Dreyer, all’epoca, un eclatante insuccesso. Oggi, con occhi diversi, non possiamo non gridare al miracolo. Basterebbe il sintagma alternato con cui Vampyr principia: da una parte un uomo con una falce in spalla, dall’altra un angelo – è l’insegna della locanda ove alloggerà Grey. Quella che a prima vista appare come un’antinomia piuttosto schematica, nasconde un capovolgimento: dacché, in Vampyr, la morte è salvezza e l’immortalità dannazione. Beato colui che, umano, muore; maledetto colui che, vampiro, vive in eterno. Non è un caso che una delle immagini più celebri del film, la soggettiva del protagonista dall’interno di una cassa da morto, ci racconti proprio dell’orrore di chi vede ancora, nonostante il trapasso.

Come da prassi, all’epoca il film venne girato in tre versioni per il mercato estero. Le (poche) scene in cui gli attori parlano furono rifatte in tedesco, francese e inglese. Il parlato, tuttavia, ha ben poca rilevanza nella sua economia narrativa: Dreyer gira ancora con lo spirito del muto, ma il suo non è misoneismo, è amore per l’immagine che racconta da sé. Impossibile non soffermarsi dunque sulla pregnanza di una pellicola che costituisce un’intatta lezione di cinema a novant’anni di distanza. L’analisi sarà affidata all’oramai consueto appuntamento con Lo Sguardo dei Maestri, dedicato, sulla scorta del successo del precedente incontro dedicato a Mulholland Drive di David Lynch, alla “vivisezione” di un capolavoro che, come ha scritto Edvin Kau, fonde “gioco, thriller psicologico e metafilm”.

Arrivederci dunque a un 2022 che, come da tradizione, vedrà Cinemazero camminare a passi spediti verso il futuro, ma con una valigia piena di classici.