A Natale puoi… andare a Cinemazero!
A Natale puoi… venire in sala!
Sfruttare la pausa natalizia per venire al cinema è ben più di una tradizione, è quasi un obbligo, soprattutto considerato il ricco programma che ci aspetta quest’anno sul grande schermo, anzi sui grandi schermi, di Cinemazero.
Immancabile l’ultimo film di Woody Allen, cinquantunesima opera di uno dei cineasti più prolifici del nostro tempo, che con Coup de chance – Colpo di fortuna ritorna con (l’ennesima) variazione sul tema, anzi sui temi, che hanno caratterizzato la sua filmografia: l’amore e il ruolo del caso. Emblematica la scena iniziale del film, un piano sequenza che coglie il primo incontro tra i due amanti Fanny e Alain, lei impiegata in una casa d’aste, lui scrittore, che si incontrano, appunto per caso, in una strada di Parigi dopo essersi conosciuti anni prima in un liceo di New York. C’è un senso preciso dietro questa scelta tecnica – quella del piano sequenza – che, grazie anche alla maestria di Vittorio Storaro storico direttore della fotografia di Allen, spinge immediatamente lo spettatore a riflettere sulla “casualità” (chi di noi non ha avuto almeno una volta nella vita un incontro casuale che ha cambiato la giornata?) e ad immedesimarsi nello stato d’animo della protagonista il cui obiettivo sarà capire da che parte sta andando la sua vita. Il senso del film ci viene dunque svelato subito e lo svolgimento, costruito sul contrasto tra il caso e la premeditazione, trova incarnazione nei due uomini che si incrociano nella vita di Fanny. Da una parte Alain, artista senza radici innamorato dell’incertezza, dall’altra Jean, il marito di Fanny, ricchissimo consulente finanziario, uomo possessivo e abitudinario, convinto al contrario che il caso non esista e la fortuna di un uomo vada costruita e manipolata. Presa in mezzo tra i due uomini, la donna – che incarna in qualche modo entrambe le posizioni essendo un ex animo ribelle convertitasi a una vita di agi e sicurezza – rappresenta il vertice debole di questo triangolo amoroso. Come decidere da che parte stare? Se è il caso a far nascere il dubbio, sarà anch’esso a dirimerlo? Basterà seguire l’amore o servirà anche un colpo di fortuna? Pochi autori hanno l’abilità di Allen nel raccontare come gli scherzi del caso possano intervenire nei rapporti di coppia, anche con esiti drammatici, senza tuttavia sconfinare nella tragedia più cupa, ma mantenendo sempre uno sguardo ironico, beffardo e quasi canzonatorio nei confronti degli sforzi dei suoi personaggi che si affannano a controllare un destino del quale pensano essere artefici, ma che in realtà sfugge loro continuamente di mano
Chi di fortuna ne ha avuta ben poca è stato di certo Enzo Ferrari protagonista di Ferrari, film che riporta dietro la macchina da presa il maestro Michael Mann, autore, tra gli altri di film cult come Heat – La sfida (il primo film a vedere insieme Roberto De Niro e Al Pacino come protagonisti) e Insider – Dietro la verità che ricevette ben 7 candidature agli Oscar. Per inquadrare al meglio Ferrari conviene, come spesso accade con i film stranieri, partire dal titolo originale “Enzo Ferrari: The Man and The Machine” per capire meglio il senso di un’operazione che non è un semplice biopic e che rifugge, l’opzione, forse assai più semplice, di raccontare il mito di Ferrari per concentrarsi sull’uomo e sulle macchine, passione e ragion d’essere di un’intera vita. Un ritratto che mescola motori meccanici e sentimentali con continui passaggi tra i tormenti e le contraddizioni dell’uomo e quelle dell’imprenditore, disposto a tutto pur di salvare la sua azienda e il suo sogno. Per raccontarlo Mann fa una precisa scelta di campo, quella di focalizzarsi su un periodo molto breve seppure ricchissimo di eventi, della vita di Ferrari, l’estate del 1957. Un momento chiave per l’azienda e la vita familiare del patron delle rosse, in cui è stato costretto a giocarsi tutto, sia a livello professionale che personale, andando incontro, rigorosamente alla massima velocità, ad un rischio imponderabile, nel quale si giocherà il tutto per tutto.
Il film di Mann seppur non esente da difetti (su tutti la scelta di far parlare Penelope Cruz in italiano, che risulta davvero straniante, almeno all’inizio) è però un esempio di grande cinema. Dedicato a Sydney Pollack, che avrebbe dovuto essere uno dei produttori, la maniacalità impressionante con cui il regista ricostruisce soprattutto le parti legate alle corse – e gli inevitabili incidenti – è solo il più evidente dei tanti indizi dell’importanza che questo lavoro rappresenta per l’autore che ha dichiarato come questo film costituisca uno dei progetti più importanti della sua vita. In effetti Mann ci lavora da oltre 20 anni, probabilmente anche molto di più. Il risultato, da un punto di vista tecnico, è impressionante e si traduce anche a livello narrativo perché, grazie all’attenzione ai dettagli lo spettatore si immerge alla perfezione in un mondo antico (quello dell’Italia provinciale di quegli anni) non solo grazie alle riprese d’ambiente ma anche al sapiente uso dei primi piani dove i volti sono come ingranditi, occupano l’inquadratura facendo risaltare le emozioni degli attori che sembrano avvolgere tutto ciò che li circonda.
Attesissimo è anche l’ultimo – in questo caso non solo in senso cronologico ma anche nel senso che sarà il film che chiuderà definitivamente la sua carriera – lavoro del maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone, che arriva a dieci anni di distanza da quello che già a suo tempo era già stato annunciato come il suo film di congedo dalla scene (Si Alza il Vento).
In quest’opera che ha avuto una genesi molto difficoltosa sia per la sua natura di film d’animazione tradizionale, sia per l’età del cineasta che per le conseguenze della Pandemia che ne hanno rallentato la realizzazione, Miyazaki nasconde dietro l’apparente semplicità di una storia fantastica (quella del giovane Mahito, un ragazzino orfano di madre che improvvisamente comincia ad essere seguito da uno strano airone, che gli promette di ricongiungerlo con la madre) una profonda riflessione sui grandi temi della vita: la maternità, l’ambientalismo e i legami tra persone. Il suo obiettivo è quello di ricordarci come l’unico efficace antidoto al male sia l’altruismo, che dobbiamo abituarci a praticare verso un “altro” che non è sempre riconoscibile. Molti sono gli elementi di continuità con la filmografia precedente, sia a livello concettuale che visivo. Fino alla fine Miyazaki ci tiene a sottolineare come il “male” assoluto non esista. Anche in questo come in tutti i suoi lavori precedenti le azioni malvagie e loro conseguenze non sono frutto della volontà deliberata di danneggiare qualcuno quanto piuttosto di azioni affrontate o con eccessiva leggerezza o senza gli strumenti adeguati di valutazione. Lo stesso vale per l’invito che il Maestro ci fa – attraverso le vicissitudini del protagonista – a vivere sempre la vita come un viaggio da percorrere senza rimpianti e pregiudizi ma imparando ad accettare l’aiuto di una guida se necessario (l’airone in questo caso, che guida Mahito nel viaggio di scoperta). Dal punto di vista visivo l’autore, anche se sembra impossibile, si supera, mescolando autocitazioni da opere precedenti con trovate geniali ed una maestria nel disegnare, e ancora prima immaginare, nuovi personaggi, nuove specie, nuovi ambienti e nuove idee frutto di una creatività che sembra non avere limiti.
Chiudiamo questa carrellata di anticipazioni con quello che, innegabilmente, è il nostro film di Natale, Foglie al vento di Aki Kaurismaki cui già abbiano fatto cenno in precedenti articoli. Essenziale è forse l’aggettivo che meglio sintetizza un’opera che ha la capacità – tutt’altro che banale – di raggiungere nella maniera più diretta possibile il cuore delle emozioni, dei protagonisti e dello spettatore.
Kaurismaki è essenziale prima di tutto nella messa in scena: qualsiasi cosa voglia far dire, o far fare ai suoi personaggi, non ci sono giri di parole, si va dritti al punto, facendo risparmiare tempo e spesso creando anche un inconfondibile effetto comico che è una delle grandi chiavi del film. Essenziale è il contesto del mondo in cui si muovono i personaggi: i costumi, le scenografie passando per i movimenti sia di macchina che degli stessi attori che fanno esclusivamente ciò che è necessario fare. Essenziale è l’esistenza dei due protagonisti che si barcamenano, da soli, in una vita piena di preoccupazioni, tra misere condizioni di lavoro e pochissimi svaghi (nel loro paese il massimo del divertimento è andare a bere al bar o cantare al karaoke). Ma essenziale non significa semplice, perché in questo apparente minimalismo si cela un mondo di emozioni che, scena dopo scena, ci scaldano il cuore e ci spingono a tifare per un lieto fine che sappiamo potrà avvenire solo se le essenzialità dei due protagonisti riusciranno ad incontrarsi. A proposito il film dura solo 81 minuti. E in un’epoca di film lunghi, come abbiamo spiegato nel precedente editoriale, quella di Kaurismaki è una piacevole ma soprattutto istruttiva eccezione. Il suo film, che andrebbe mostrato nelle scuole di sceneggiatura, è la dimostrazione che con idee chiare ed originali si può fare un film eccellente capace di essere universale e godibile per tutti.