Dante Spinotti: l’uomo che filmava il cinema
Dove la mano
dell’uomo non aveva messo piede …
sentieri di cinema!
Di Andrea Crozzoli
Dopo una folgorante carriera iniziata oltre
quarant’anni fa, per Dante Spinotti è giunta finalmente l’ora dell’attesa
autobiografia, scritta con Nicola
Lucchi e pubblicata da La nave di Teseo,
dal titolo Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta che verrà
presentata, grazie a Cinemazero, in anteprima assoluta all’interno di Pordenonelegge, domenica 17 settembre
2023, alle 17.30, al Capitol di Pordenone in viale Mazzini. Una ghiotta e
imperdibile occasione per conoscere e ascoltare dal vivo questo straordinario
direttore della fotografia friulano, due volte candidato all’Oscar. Lo
incontriamo a Muina, frazione di Ovaro, dove ha le sue radici e dove trascorre
ogni anno un periodo di riposo.
Qual’è
stato il percorso da Muina a Roma e al cinema?
Un mio zio udinese, Renato Spinotti, che
aveva avuto una carriera come documentarista, operatore, direttore della
fotografia in giro per il mondo, nel suo peregrinare era finito a Nairobi in
Kenia. A me da ragazzo non piaceva il greco e il latino, per non parlare della
matematica, della chimica e così via. Così la mia famiglia, disperata, dopo
aver finito la prima al liceo classico, visto che l’unica passione che avevo
era la fotografia, mi spedì da questo mio zio in Kenia. Da allora la mia vita è
sempre stata una vita in movimento. Che è esattamente quello che consiglio ai
giovani oggi: mai fermarsi. Ogni estate veniamo a Muina, dove abbiamo la casa
di famiglia, un solido punto di riferimento. Sono nato a Tolmezzo, ho vissuto i
primi anni in provincia di Rovigo in mezzo alla campagna e ogni estate si
veniva a Muina. Poi sono stato sempre in giro. Da giovane ho imparato l’inglese
essendo il Kenia un’ex colonia britannica e questo mi è molto servito. Un tempo
non era frequente conoscere un’altra lingua e conoscere l’inglese mi ha dato
grossi vantaggi. In Rai chiamavano me come assistente ogni volta che c’era un
regista o un attore inglese. Oppure, se c’era da fare un giro in America con
Enzo Biagi, mandavano me.
Com’è
cambiato nel corso del tempo il lavoro della fotografia nel cinema
dall’analogico al digitale?
L’arrivo del digitale è stata una vera e
propria rivoluzione, paragonabile all’avvento del sonoro nel cinema. Nelle
arti, dalla pittura alla musica, puoi fare l’opera e correggerla, modificarla
continuamente finché l’artista non è soddisfatto. Nel cinema, invece, quando
avevi girato una scena era quella e basta. Vedevi il risultato dopo alcuni
giorni, una volta sviluppata la pellicola ma quella era, non potevi cambiarla
se non rigirandola. Ora la tecnologia digitale ti permette di vedere il
prodotto finito nel momento stesso in cui lo stai facendo e questo ti da una
enorme sicurezza nel lavoro. Io ho subito abbracciato questa novità fin
dall’inizio. Oggi la tecnologia ha raggiunto una qualità indistinguibile dalla
pellicola e il digitale ha cambiato il modo stesso in cui si gira un film.
Tutto è molto più semplice e facile. Con il digitale è sufficiente mantenere lo
standard ed archiviare nei nuovi supporti mentre la pellicola si degrada
rapidamente essendo composta da materiali biologici. Già dopo due settimane la
pellicola subisce trasformazioni.
Lei ha
lavorato molto sia in Italia che negli Stati Uniti. Quali sono le differenze
più eclatanti fra questi due modi di “fare” cinema?
Nel cinema d’oltre oceano c’è una
attenzione e una cura quasi maniacale alla sceneggiatura. Il film non parte
fintanto che tutti non sono pienamente convinti dell’opera. Il potere del
regista, naturalmente, cambia in base alla sua forza. Negli Studios ci sono
anche una serie di funzionari che conoscono a fondo il cinema a differenza
dell’Italia dove, fatte le debite eccezioni, spesso i produttori sono
interessati unicamente al denaro, agli appalti, agli anticipi della Rai. Negli
Usa i budget sono molto alti per cui c’è una grande attenzione al piano di
lavoro, a mantenere tutti i costi entro le cifre previste. Tutto funziona con
grande precisione. Il vantaggio in Italia è che tutto procede come in un gruppo
di amici. Una troupe di sessanta persone riesce a stabilire un clima
interessante e divertente che è impossibile quando si arriva a ottocento
persone coinvolte, come negli Stati Uniti. Insomma in Italia può essere più
interessante dal punto di vista creativo, della costruzione delle immagini
anche se debbo dire che oltreoceano il cinema indipendente sta prendendo sempre
più piede. Io stesso lavoro con Deon Taylor regista indie di grande talento,
col quale ho fatto tre film ed un altro è in cantiere. Con i mega budget della
serie Marvel significa lavorare ad un film che è già stato girato, tutto è
previsto, ogni scena è già stata provata con gli stuntman, le inquadrature
strette o larghe già decise a priori e il direttore della fotografia fa
semplicemente il consulente, si occupa solo del look. L’unica cosa bella è che
in America ti mettono tutto a disposizione, anche ventisei cineprese.
Com’è il
rapporto fra regista e direttore della fotografia. Viene coinvolto nella fase
di sviluppo del progetto? Partecipa ai sopralluoghi e alle location? Stabilisce
subito cosa è possibile e cosa no?
Fra regista e direttore della fotografia
molto spesso si stabilisce un rapporto di amicizia oltre che di stretta
collaborazione. Un regista come Michael Mann ad esempio vuole controllare
tutto, è molto pignolo. I sopralluoghi sono accurati e le ricerche precise in
ogni dettaglio. Quando si lavora con un regista che sa esattamente cosa vuole,
quale storia vuole raccontare, tutto diventa estremamente semplice.
A 38 anni
lei diventa responsabile della direzione della fotografia in Minestrone di Sergio Citti (1981) con
Ninetto Davoli, Franco Citti e Roberto Benigni. Che ricordi ha di quel set, di
Sergio Citti e degli attori?
Lavoravo alla Rai di Milano e un giorno
passò per gli studi televisivi Elio Petri che stava lavorando a Le mani sporche, una miniserie
televisiva con Marcello Mastroianni e Anna Maria Gherardi. Aveva sentito
parlare di me e segnalò il mio nome a Sergio Citti che stava preparando Minestrone. Fu un set difficilissimo,
mi chiamavano il milanese appena arrivai in questo set romanocentrico con la
responsabilità della direzione della fotografia. Le riprese furono lunghe e
complesse e nonostante le tensioni, frustrazioni, ansie emotive alla fine
restammo amici. Sergio Citti era un grande narratore sicuramente, aveva questo
istinto nel raccontare le storie che è la chiave di volta di ogni regista: il
saper raccontare con gli strumenti del film. Lui aveva questa istintiva
capacità.
Ritroverà
poi nel 2002 di nuovo Roberto Benigni per Pinocchio.
Com’è andata quella sua esperienza?
Pensando che io avessi maturato negli Usa
una certa esperienza di film complessi e con molti effetti speciali, Roberto
Benigni mi chiamò a curare la fotografia di Pinocchio. Mi ritengo molto fortunato ad aver lavorato con lui,
Benigni è un personaggio non trasformabile, nel senso che la sua umanità, la
sua cultura lo rendono unico. L’errore che commise è stato quello di voler fare
un film molto vicino al testo di Collodi. Ma il film è una cosa molto diversa
da un libro e il testo collodiano, oltretutto, è anche piuttosto datato. Fu
molto bello però girarlo. Rientrato in America al termine delle riprese
incontrai Dino De Laurentis che mi chiese se il film faceva ridere e davanti
alle mie perplessità sentenziò: «Se non
fa ridere non funziona!». E così fu. Soprattutto fuori dell’Italia.
La metà
degli anni ottanta corrisponde anche con la sua prima esperienza totalmente
hollywoodiana. Entra nel cinema americano dalla porta principale con Manhunter di Michael Mann (1986)
prodotto da Dino De Laurentis. Com’è avvenuto l’incontro con De Laurentis?
Devo a De Laurentis se ho fatto quello che
ho fatto. Mi ricevette nel suo ufficio all’ultimo piano di quella che oggi si
chiama Trump Tower. Uno studio enorme seduto dietro questa grande scrivania.
Aveva fondato in North Carolina uno studio cinematografico e cercava direttori
della fotografia che non fossero statunitensi. Gli piaceva il fatto che io
conoscessi l’inglese e firmai con lui un contratto biennale. Persona squisita,
leale, corretta. Aveva una capacità incredibile di prendere decisioni da cui poi
non tornava più indietro. Aveva anche una forza molto determinata di
rigenerarsi, di ricominciare da capo. Si occupava di tutti gli aspetti legati
alla produzione dei suoi film. A distanza di sedici anni da Manhunter mi chiamò per la fotografia
del remake Red Dragon di Brett
Ratner (2002), dove questa volta Hannibal Lecter, diversamente dal precedente,
aveva la faccia di Anthony Hopkins. Un film all
star con Ralph Fiennes, Edward Norton, Harvey Keitel e Emily Watson e
prequel del pluripremiato Il silenzio
degli innocenti di Jonathan Demme.
Ancora per
Dino De Laurentis nel 1986 ha avuto la direzione della fotografia in Crimini del cuore (Crimes of the Heart) di Bruce Bereford con un cast tutto al
femminile: Sissy Space, Diane Keaton, Jessica Lange. Com’è il rapporto fra diva
e direttore della fotografia?
Portai a De Laurentis una scena di Interno berlinese che a lui piacque
talmente per cui decise che avrei curato la fotografia del film di Bereford.
Tre attrici bravissime, tre professioniste spiritose. Per una scena in cui le
tre attrici discutono attorno ad un tavolo dovevo illuminare i tre diversi
primi piani cercando di non far trasparire che ognuna di esse era illuminata
per conto proprio ma che ci fosse un’omogeneità fra loro tre. Il risultato fu
che da allora mi venne affibbiata la nomea di essere un direttore della
fotografia che toglieva dieci anni alle attrici.
Grazie a
De Laurentis conosce dunque Michael Mann che è unanimemente considerato uno dei
migliori registi di Hollywood. Con lui stabilisce un raro (per il mondo del
cinema) sodalizio, lungo e proficuo. Cosa vi unisce, come lavorate assieme?
De Laurentis mi ha catapultato in un cinema
di assoluta disciplina, di assoluto rigore. Mann lasciava all’aiuto regista
gridare, tenere il set. Lui controllava tutto ed aveva un rapporto totale con
gli attori. Un rapporto anche difficile alcune volte. Michael Mann, se
vogliamo, è una specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Sul set si trasforma
mentre sulla vita normale è molto più colloquiale. Quando si gira un film deve
avere il controllo totale del set. Con Mann forse è scattato quel qualcosa per
cui istintivamente sentivo il suo modo di girare come mio. Aveva fatto emergere
qualcosa in me di inespresso fino a quel momento. Fare un film con Michael Mann
è una vera e propria sfida con sé stessi e con le proprie possibilità. Capire
quello che lui ha in mente non è da tutti. Ogni film fatto con lui è una totale
immersione sul mondo che viene affrontato di volta in volta.
In L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans) ha lavorato
con Daniel Day-Lewis famoso per la sua intransigente pignoleria. Il film ebbe
anche lusinghieri apprezzamenti per la fotografia. Come è stato lavorare con
Day-Lewis?
Daniel Day-Lewis è stato un compagno di
lavoro straordinario, L’ultimo dei
Mohicani era il suo primo impegno importante negli Stati Uniti. Lui è di
una preparazione che rasenta il maniacale. Su ogni dettaglio di sceneggiatura
annotava e si preparava con caparbietà. Si allenava per sparare col fucile
correndo. Tutte cose inimmaginabili in un attore italiano.
Per la
direzione della fotografia lei ha avuto la nomination agli Oscar con L.A. Confidential, regia di Curtis
Hanson (1997) dove per questo film vinse l’Oscar Kim Basinger come miglior
attrice non protagonista …
Los Angeles è bella da fotografare oggi e
ancor più affascinante vestita da anni ‘40/’50. Ho usato un formato super 35
anziché lo scope per avvicinarmi il più possibile al formato delle foto d’epoca
di Robert Louis Frank. Col regista Hanson è stato interessante lavorare in
quanto ricercava un’aderenza quasi filologica al racconto. Con l’affascinante
Kim Basinger solo nelle ultime due scene ho capito come avrei esattamente
dovuto fotografarla. Nonostante questo, però, vinse l’Oscar con L.A. Confidential.
Nel
contempo lei ha tenuto anche un fruttuoso rapporto col cinema italiano. Due
film con Ermanno Olmi, La leggenda del
santo bevitore (1988) Leone d’Oro a Venezia oltre al David di Donatello e
Ciak d’Oro per la miglior fotografia a Dante Spinotti e Il segreto del bosco vecchio (1993)…
Ho conosciuto Ermanno Olmi da ragazzino.
Sono stato suo assistente per il film E
venne un uomo in quanto segnalato da Mario Rigoni Stern, che era molto
amico di Olmi, e che a sua volta era cugino di mio cognato. Passammo due, tre
settimane filmando seminaristi in giro per la bergamasca poi io partii militare
e non portai a termine la collaborazione. Molti anni dopo Olmi mi contattò per
girare un film a Parigi con Rutger Hauer, La
leggenda del santo bevitore appunto. Esperienza bellissima. Mi chiamò poi
per girare un film a Cortina Il segreto
del bosco vecchio ma qualcosa non funzionò come doveva, la lavorazione non
fu così entusiasmante come quella parigina.
Nel 1995
lavora alla fotografia di Pronti a
morire (The Quick and the Dead)
regia dell’adrenalinico Sam Raimi appena uscito dalla trilogia horror sulla
casa. Un film che annovera un cast inimmaginabile oggi con star come Sharon
Stone, Leonardo Di Caprio, Russell Crowe e Gene Hackman appunto. Un western che
vuole rendere omaggio a Sergio Leone…
Con Sam Raimi abbiamo avuto un rapporto
eccezionale. È un regista che costruisce i suoi film su storyboard molto
precisi, come i fratelli Coen. Per questo omaggio al western italiano ci
divertimmo moltissimo a girare i celebri primissimi piani alla Sergio Leone. La
costumista Judianna Makosky venne a Roma in cerca dei costumi originali, questi
impermeabili lunghi. Raimi voleva dare al film una valenza quasi paradossale,
anche caricaturale, estremizzando le situazioni ma si scontrò con Sharon Stone
che era anche produttrice del film. Sam Raimi non aveva ancora la forza che ha
acquisito ora, dopo aver diretto i tre Spiderman.
La Stone, donna simpaticissima oltre che bellissima, voleva però intervenire
sulla lavorazione forte della sua posizione di produttrice. Sharon Stone si
rifiutò di girare una scena con Russell Crowe in cui lei, a seno nudo, faceva
gonfiare la patta di Crowe fino a far letteralmente saltare i bottoni. Un po’
alla volta il senso complessivo del film venne stravolto. Ogni paradosso
annullato tanto che alla fine risultò, purtroppo, né carne né pesce.
Nel 1995
firma anche la fotografia di L’uomo
delle stelle di Giuseppe Tornatore con Sergio Castellitto. Com’è stato
passare da Sam Raimi a Tornatore, ma anche da Leonardo Di Caprio a Sergio
Castellitto …
Sono salti grossi. Con Tornatore non ci
siamo parlati per almeno tre quarti del film. Ognuno cercava di far vedere di
essere più bravo dell’altro. Mettiamo la macchina da presa lì e non là, etc. Un
friulano e un siciliano a confronto! Poi alla fine siamo diventati amicissimi.
Tornatore è un grande talento, un notevole narratore. Castellitto poi mi aveva
chiamato per fare un film con lui ma precedenti miei impegni mi hanno impedito
la nuova collaborazione.
Lei ha
lavorato nel 1996 anche con un altro mito americano che è Barbra Streisand in L’amore ha due facce (The Mirror Has Two Faces). Come è stata
l’esperienza di avere la Streisand davanti e dietro la macchina da presa nel
duplice ruolo di attrice e regista?
Con Barbra Streisand il vero problema era
averla davanti la macchina da presa non tanto dietro la macchina come regista.
Persona amabile, democratica, la sera si andava a casa sua a mangiare il gelato
a discutere ma sul set era un dramma, decine di prove, di dubbi, di
complicazioni e con la scusa del Natale, l’unica volta in vita mia, sono andato
via dal set.
Ha mai
rinunciato a un film per poi pentirsi?
Sì, fra i tanti anche la proposta di Sam
Raimi di fare il primo Spiderman!
C’è un
regista col quale non ha mai lavorato ma per il quale avrebbe voluto curare la
fotografia in un film?
Avrei io dato qualsiasi cosa per fare un
film con Kubrick pur sapendo della sua estrema pignoleria e precisione. Una
volta, rientrando dagli Stati Uniti, mi dissero che Federico Fellini mi aveva
cercato per un film. Purtroppo subito dopo si ammalò e il film non prese più il
via. Fellini aveva la fama di essere un regista costoso per come girava, come
costruiva i set, con i tempi che si allungavano e i budget che sforavano. Ma
era un genio.