BERLINALE 2024 – ANOTHER END DI PIERO MESSINA IN CONCORSO
Intervista di Marco Fortunato
«Another End è un film che abbiamo immaginato sin dall’inizio come “internazionale” a partire dal cast che abbiamo coinvolto insieme a Piero Messina e dalla scelta di girarlo interamente in inglese, aspetto che comporta numerose complessità.» a parlare è Francesca Cima, cofondatrice di Indigo Film, che incontriamo poco prima della sua partenza per Berlino, dove accompagnerà il film in concorso alla prossima Berlinale.
Tra pochi giorni prenderà il via la 74esima edizione del FilmFestSpiele di Berlino, che si svolgerà nella capitale tedesca dal 15 al 25 febbraio prossimo, un appuntamento importantissimo per il cinema mondiale in cui la Indigo Film sarà protagonista con Another End di Piero Messina, in corsa per l’Orso d’Oro.
«Per noi è una grande gioia portare un film a Berlino. Solo pochi mesi fa abbiamo inaugurato la Mostra del Cinema di Venezia con Comandante di Edoardo De Angelis ed essere nuovamente presenti ad un altro dei festival cinematografici più importanti al mondo significa tenere alta l’asticella sia da un punto di vista produttivo che artistico. Il suo inserimento nella sezione più prestigiosa – quella del concorso ufficiale – rappresenta una grande soddisfazione, non solo per Indigo, ma direi per tutta la filiera produttiva del nostro Paese, di cui viene riconosciuta l’eccellenza.»
Questa è un’opera seconda, voi avevate prodotto anche il film d’esordio di Piero Messina, L’attesa, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2015. Come avete scoperto il talento di questo autore?
«Piero si è formato al Centro Sperimentale di Cinematografia, come molti degli autori italiani che abbiamo seguito in questi anni, e poiché siamo convinti che la formazione qualificata sia fondamentale, per noi è stato quasi naturale tenerlo “sotto osservazione”. All’inizio aveva collaborato con Paolo Sorrentino è questa è stata per lui l’occasione di dimostrare il suo talento e la sua sensibilità, che noi gli abbiamo poi dato l’occasione di approfondire quando ci ha sottoposto il suo primo progetto di lungometraggio.»
Anch’esso a forte vocazione internazionale e molto ambizioso, in senso positivo, considerato che la protagonista è il premio Oscar Juliette Binoche.
«Sì, ed è stata la conferma che avevamo visto giusto, e che quella sensibilità artistica – che in qualche modo avevamo intuito – poteva essere tradotta e funzionare sul grande schermo. Credo che una delle sue doti migliori sia quella di saper creare emozioni ed atmosfere attraverso le immagini, con un uso sapiente e ponderato dei dialoghi. Il fatto che la Binoche abbia accettato di prendere parte al progetto, benché fosse un’opera prima, credo sia un altro segnale dell’evidenza di questo talento.
Anche in Another end potremmo trovare questo lavoro sull’atmosfera? Ci sono altri collegamenti con L’attesa da un punto di vista stilistico e narrativo
«Assolutamente. Oltre all’aspetto della messa in scena vi è un forte legame anche a livello narrativo. Anche se in questo caso [quello di Another end n.d.r.], infatti, il racconto ruota intorno al concetto di perdita e di memoria, all’impatto che ha la scomparsa di una persona cara sulla vita di chi rimane e ai possibili strumenti per elaborare il lutto. Quello che cambia è il contesto. A differenza del suo primo film dove ci si muoveva nel presente e nel passato qui ci muoviamo in un futuro distopico, nel quale esistono delle nuove tecnologie che ci permettono di mantenere un contatto con chi non c’è più. Per questo da un punto di vista tecnico potrebbe essere iscritto nei film di fantascienza, ma ovviamente non è così, o almeno non solo.
In che senso?
«È un film che sa legare più generi. Ci parla di un mondo che (ancora) non esiste, di possibilità che oggi non abbiamo ma che affondano in un desiderio molto concreto, intimo e direi universale, quello di capire che cosa resta di noi, cosa può sopravvivere all’esistenza terrena. Ma dal mio punto di vista Another end è anche e forse prima di tutto una storia d’amore, raccontata con grande autorialità. E ciò è merito di un grande lavoro in fase di scrittura, non a caso il soggetto – scritto dallo stesso Messina con Giacomo Pezzotti – ha vinto il Premio Solinas.
Hai parlato di “universalità”, è questa la chiave per rendere un film appetibile per una platea internazionale?
«Quella dell’universalità è l’ambizione di molti progetti. A fare la differenza credo sia soprattutto la capacità di padroneggiare il linguaggio cinematografico, di reinterpretare, come in questo caso, i topos del genere in maniera originale, ispirandosi al passato ma creando qualcosa di unico. Mi spiego, il rischio con una storia di questo tipo era quello di tentare di imitare Matrix mentre la sfida, anche dal punto di vista produttivo è stata quella di realizzare qualcosa di completamente diverso.
Da questo punto di vista, quello produttivo, qual è stata la difficoltà maggiore?
«Se in Comandante la difficoltà risiedeva nel ricreare qualcosa che non esiste più (un sottomarino degli anni Quaranta), qui la complessità era quella di dare vita ad un mondo che non esiste ancora, ma in maniera credibile. Abbiamo utilizzato diversi strumenti ma [ride] non posso dirvi troppo, lo capirete vedendo il film!
Incrociando le dita per Berlino, chiudiamo con uno sguardo sul cinema italiano che, forse per la prima volta da tanti anni a questa parte, non viene additato come in crisi. Tu che prospettive vedi nel prossimo futuro?
«Io sono molto ottimista. A parte il fatto che lo sono di natura, credo che stiamo vivendo un momento molto ma molto positivo non solo per il cinema italiano ma direi per il cinema in generale e dunque sarebbe sciocco non esserlo. Vedo che è riemersa con forza la volontà di vivere l’esperienza cinematografica, di guardare un film sul grande schermo, anche da parte del pubblico dei più giovani. Personalmente non ho mai creduto che il cinema potesse morire, anche se in molti l’avevano annunciato. Il cinema, anche se soprattutto italiano, ha una storia lunghissima, complicata a volte, ma ricca di successi frutto della sua capacità di affrontare grandi difficoltà che sembravano insormontabili. Ecco a chi è pessimista vorrei lanciare l’invito a rileggersi questa storia.
In effetti la settima arte ha dimostrato di saper esprimere qualcosa di positivo anche in tempi difficilissimi come quelli del lockdown.
«Esatto, la pandemia da questo punto di vista ha anche portato un vantaggio, nella misura in cui ha creato l’occasione per cui alcune persone fossero nelle condizioni di avere il tempo di (ri)scoprire il piacere della visione, a partire dalle serie tv, che sono diverse dai film, ma sono pur sempre un racconto per immagini.
In questo senso quanto è importante il ruolo dei produttori?
«Fondamentale, direi, ma ovviamente il discorso è ampio e riguarda l’intera filiera cinematografica che in questi ultimi anni è cresciuta e si è sviluppata grazie soprattutto a politiche illuminate, come la legge Franceschini di cui oggi raccogliamo i frutti. I successi di Le otto montagne, La stranezza ma anche Io, capitano non nascono per caso, sono frutto di progetti di lungo periodo che sono stati sostenuti e il pubblico ha imparato a riconoscere ed apprezzare. Vedo l’affermarsi di questa maggiore consapevolezza negli spettatori, anche più giovani, e credo che dovremmo focalizzarci su questo per consolidare la ripresa e magari migliorarla ancora. Ricordandoci però che la ricetta perfetta non esiste, il pubblico ti sa sempre sorprendere, per questo dobbiamo proseguire nel nostro impegno di offrirgli ogni volta qualcosa di nuovo e di qualità.