Berlinale, sinfonia di un grande festival
Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …
sentieri di cinema!
___________________________________________________________________________
Di Andrea Crozzoli
Il FilmFestSpiele di Berlino è una sinfonia cinematografica unica al mondo con più di 400 film in dieci giorni, oltre 300.000 biglietti venduti in 15 cinema coinvolti, un’audience di visitatori di poco meno di 450.000 unità, 18.000 ospiti accreditati (stampa esclusa) e 130 paesi di origine, oltre 2.800 giornalisti ed un bilancio di circa 33 milioni di euro.
All’interno di questa ciclopica manifestazione il Forum è una sezione indipendente, potremmo definirla un’osmosi parallela che si nutre del cinema più difficile, più di ricerca, senza grandi budget e nemmeno grandi attori. Quel cinema di domani, fatto di passione, energia, talento, che non vince Orsi d’Oro o d’Argento, ma si pone come stimolo quello di percorrere territori inesplorati, ad allargare nuovi orizzonti.
Una sezione, ça va sans dire, tenuta d’occhio dalla CICAE, ovvero dall’associazione internazionale dei cinema d’essai fondata nel 1955, che oggi rappresenta 4.400 schermi in 45 paesi in Europa e non solo. La missione della CICAE è quella di promuovere il cinema di qualità sul grande schermo e difendere il “diritto alla diversità culturale”. L’Arthouse Cinema Award, su queste premesse viene quindi assegnato, da una giuria internazionale, per aiutare il film di qualità più meritevole a trovare un suo spazio fra i 2.400 cinema della rete internazionale d’essai aderenti alla CICAE.
Quest’anno, per il Forum della Berlinale, la giuria era composta da Anca Caramelea, curatrice dalla Romania di Cinema ARTA e membro del team di selezione di Ecozine Film Festival; da Stefan Malešević, regista e curatore cinematografico dalla Serbia, dell’Unione serba dei registi, della DokSerbija (Unione serba dei documentaristi) e dal sottoscritto.
Dopo dieci intensi giorni di film, discussioni e incontri la giuria del 64mo Forum all’unanimità ha assegnato l’Arthouse Cinema Award 2024 a Shahid
della regista iraniana, naturalizzata tedesca, Narges Kalhor con la seguente motivazione: “a un’opera cinematografica unica e audace che riesce ad infrangere convenzioni e confini. Grazie anche ad un approccio stilistico e tematico a più livelli che crea un film molto onesto e intimo oltre ad usare l’autoironia mentre affronta questioni importanti e cariche di conseguenze. Per una regia che riesce a bilanciare con grazia realtà e finzione, umorismo e tragedia, varie forme d’arte ed emozioni in una potente miscela cinematografica.”.
Martin Scorsese del resto, nel ricevere l’Orso d’Oro alla carriera dell’edizione 2024 della 74ma Berlinale, aveva affermato che “i film, e soprattutto quelli proiettati ai festival, dovrebbero influenzare il modo in cui vediamo le persone intorno a noi e il modo in cui ci comportiamo nella vita” e Shahid di Narges Kalhor è l’esempio perfetto di quei film che allargano lo sguardo sul mondo e fanno cogliere la realtà in modo diverso. Il tutto attraverso una narrazione diversa, in aperta contraddizione con l’imperante omogeneizzazione e disumanizzazione di certa politica. In Shahid la regista Kalhor, attraverso un’originale opera tra fiction e mockumentary, narra di ricordi collettivi e privati, stemperati in forma di onirica tragicommedia attraverso il complesso processo burocratico per cambiare il nome dopo aver ottenuto asilo in Germania. La regista Narges Shahid Kalhor vuole farsi chiamare semplicemente Narges Kahlor in quanto “Shahid”, che significa martire, la collega alla morte e alle sue radici legate all’attuale regime iraniano. Il bisnonno, infatti, fu ucciso nel 1907 mentre pregava, cosa che lo rese un martire – uno “shahid” appunto – e questo termine fu associato al nome della famiglia. Ma Narges, stanca di tutte le sue connotazioni e del suo status di immigrata, stanca anche della burocrazia tedesca e soprattutto, del circolo vizioso globale del patriarcato, ha deciso di rimuovere “shahid” dal suo nome. Il complicato iter burocratico per cambiare il nome diventa ancora più impegnativo allorché entra nella narrazione la burocrazia tedesca. La regista Kahlor deve fare i conti anche con i suoi ricordi, o più precisamente con la storia della sua famiglia, che è anche la storia della rivoluzione islamica e dell’attuale regime in Iran. In Shahid la danza che apre il film, ricopre poi un ruolo centrale e segna visivamente lo sviluppo della storia della protagonista. Inizialmente, il suo bisnonno martire e i suoi amici tutti vestiti di nero la seguono ovunque, ballando e occupando il centro della scena, mentre lei cerca di evitarli e scappare dalla propria storia passata. Quando Narges cammina per le strade di Monaco diretta a un ufficio amministrativo, loro la seguono mentre gli altri pedoni si muovono all’indietro. Se Kahlor è preoccupata per il suo cognome, in un dietro le quinte vediamo che anche i due attori principali Baharak Abdolifard e Nima Nazarinia, riflettono sui loro problemi, in quanto entrambi sono ancora in attesa di ottenere asilo in Germania. Il quarto muro, ovvero quel “muro immaginario” di fronte al palcoscenico, attraverso il quale si osserva l’azione e che completa le tre pareti che formano la scena, in Shahid, viene scardinato; le istruzioni della regista, la troupe e le ripetizioni dei ciak sono tutte inserite nel montaggio finale, a formare una combinazione perfetta di performance, documentario, animazione, musical, oltre a parlare direttamente alla camera. Come Narges Kalhor cerca la sua identità tra paesi, culture e lingue diverse, parallelamente il film cambia quindi costantemente i propri registri con originale virtuosismo: tra finzione e documentazione, tragedia e commedia, cinema di genere e film sperimentale, movimenti rallenti o veloci, film nel film e il dietro le quinte, mettono costantemente in discussione la forma filmica come in una spirale infinita. Con quest’opera Kalhor ha, di fatto, abbattuto molte convenzioni attraverso un lavoro mirabilmente creativo in bilico tra il multimediale e il metaverso. Un’opera audace per la giovane regista, nata a Teheran nel 1984, dove ha studiato regia e comunicazione visiva. Nel 2009 mentre si trovava in Germania per seguire un festival, ha chiesto asilo politico. Nel 2019 ha vinto il premio DOK Leipzig con il suo fantasioso In the Name of Scheherazade or the First Beergarden in Tehran. Quest’anno a Berlino con Shahid ha bissato vincendo anche il premio Caligari sponsorizzato dalla Bundesverband kommunale Filmarbeit e dalla rivista Filmdienst.
Quella del 2024 è stata anche l’edizione che ha concluso la collaborazione quinquennale di Carlo Chatrian con la Berlinale. Il piemontese Chatrian da Locarno era passato a Berlino, dove ha attraversato anche i duri anni pandemici, quelli più difficili, e li ha superati brillantemente, riportando nel 2024 il FilmFestSpiele agli antichi splendori e forse anche oltre. Ha fatto fronte alla mancanza di blockbuster americani e quindi di glamour hollywoodiano, a causa del lunghissimo sciopero degli attori e sceneggiatori in Usa, con una insolita alta qualità dei film selezionati dove la giuria, composta anche dalla nostra brava attrice e regista Jasmine Trinca, ha assegnato l’Orso d’Oro al film-documentario Dahomey di Mati Diop sulla restituzione al Benin di 23 opere d’arte locali trafugate e portate a Parigi ai tempi della colonizzazione. La Diop, regista francese di radici senegalesi, non è nuova ai palmares, ha visto infatti il suo talento premiato anche a Cannes nel 2019 con il gran premio della giuria per Atlantique. Arrivederci quindi dal 13 al 23 febbraio 2025 per la 75ma edizione del FilmFestSpiele.