Cento anni di Fellini il grande visionario!
Magazzino delle Idee, Trieste, 8 dicembre 2019|1 marzo 2020
di Andrea Crozzoli
«A chi mi chiede di La dolce vita, come nei test delle associazioni, rispondo subito: Anita Ekberg! Ilfilm, il suo titolo, la sua immagine sono inseparabili da Anita. Era di una bellezza sovrumana… quella gloria da divinità elementare, quella salute da squalo, quel riverbero da solleone… rispondeva così Federico Fellini a chi gli chiedeva del film, ed aggiungeva: «Se dovessi trovare un precedente stampato a questo mio film, sarebbe stampato in rotocalco.». Furono infatti proprio i rotocalchi una delle sue primarie fonti di ispirazione tanto che, per meglio documentarsi, invitò a cena da Gigetto er pescatore, nel novembre del 1958, un gruppo significativo di fotografi che con i loro scatti alimentavano i giornali dell’epoca con immagini e “volti, atteggiamenti, sbadigli, sorrisi, starnuti, smorfie, bocche aperte verso forchettate di spaghetti, baciamani golosi, genuflessioni sgangherate, espressioni ottuse. volti, atteggiamenti, sbadigli, sorrisi, starnuti, smorfie, bocche aperte verso forchettate di spaghetti, baciamani golosi, genuflessioni sgangherate, espressioni ottuse.”come scrisse lo stesso Fellini. Fra loro c’erano Pierluigi e Tazio Secchiaroli, due protagonisti dell’allora Hollywood sul Tevere, che suggerirono al maestro riminese alcuni episodi vissuti che poi avrebbero formato il corpus de La dolce vita, “diventato un luogo dello spirito, una categoria mentale, una visione del mondo, uno dei tratti costitutivi del carattere degli italiani” come scrisse acutamenete Tullio Kezich. All’uscita del film, nel febbraio 1960, un coro di fischi accolse Fellini. Si arrivò persino agli sputi a Milano, tanto che sul Corriere della Sera Indro Montanelli i sentì in dovere di scrivere: “…alla resa dei conti, questo ritratto della società romana non ispira che un senso di squallore, di noia, di solitudine, e di pietà per i suoi protagonisti… Se il censore è intelligente (ma può esserlo, un censore?), lasci che questa sconvolgente «cavalcata» proceda senza intoppi fino al traguardo che forse Fellini non si proponeva nemmeno, ma che con sicurezza raggiunge: quello di mostrare al pubblico che la dolce vita è una vita opaca e triste, dove più che ricercare il piacere si fugge la disperazione.” Sarà la Palma d’Oro a Cannes e il grandissimo successo in tutto il mondo a consacrare il film che viene considerato, secondo una classifica della Bbc, una delle cento opere più geniali del ventesimo secolo. Un film assurto a metafora di un momento storico e rappresentazione insuperata dell’Italia e degli italiani alla vigilia del grande boom.
Tutto questo, e molto altro, racconterà la grande mostra che Trieste dedica a Federico Fellini per i cento anni della nascita (1920/2020) del maestro riminese al Magazzino delle Idee fino al 1° marzo 2020. Accanto a La dolce vita ci saranno in mostra anche le preziose immagini dell’altro capolavoro assoluto, quella “nevrosi dell’impotenza illustrata da Fellini con una precisione clinica impressionante e, forse, talvolta persino involontaria” come scrisse Alberto Moravia, ovvero Otto e mezzo, la “storia di un uomo ingorgato, proprio bloccato da questi fantasmi dovuti in parte all’educazione e in parte a certe proiezioni di se stessi in ideali irreali” come scrisse a proposito del film lo stesso Fellini. Con Marcello Mastroianni sempre protagonista, qui più che mai, alter ego di Fellini stesso in un rapporto osmotico dove “solo loro si capivano e si dicevano in un loro misterioso linguaggio se la sera lui avrebbe visto quella là o se lui a Fregene si vedeva con quell’altra lì… La bellezza di ambo i personaggi era questa estrema serenità e infantilismo. E questo forse gli permetteva di essere così semplici. Perché Marcello, per esempio, è stata la persona più semplice del mondo.” ricorda Rossella Falk.
Film pluripremiato (fra cui due Oscar), riferimento ineludibile per moltissimi altri registi, punto inarrivabile dell’arte e della poetica felliniana. Opera tentacolare dai due finali, di cui uno cono- sciuto e copiato, come mai prima, e uno girato e scomparso: “la sequenza del vagone ristorante viene messa da parte, con grandi raccomandazioni di conservarla perché è bellissima; invece dopo un po’ nessuno sa più dove è andato a finire il negativo”scriverà puntualmente Tullio Kezich nella sua documentata biografia Federico Fellini, la vita i film.
Sono rimaste solo le preziosissime fotografie scattate da Gideon Bachmann a documentare questo finale scomparso, bellissimo e misterioso.