Il Marchese Altoviti
Di Lorenzo Codelli
«Ma come si è soli ad organizzare un film! Hai tutti contro: contro il regista che non ti considera più un amico; contro il produttore che non ti considera abbastanza autoritario; contro i finanziatori che non ti considerano abbastanza economo; contro gli attori, i tecnici che ti considerano u tiranno, gli operai che ti considerano un padrone. Che mestiere di merda! E alla fine del film, dopo che hai faticato come una bestia, nessuno ti è grato».
Uno sfogo comunissimo quando il cosiddetto “organizzatore di produzione“ dei film non è che un anonimo funzionario della ditta. Molto meno quando a sfogarsi è un nobile di antico lignaggio abituato al jet set piuttosto che ai set. Aveva liberamente scelto di ergersi a quell’ingrato ruolo nientemeno che Antonio Corbizzo Altoviti Avila Niccolai Lazzerini (1914-2002).
Ce lo descrive come segue lo studioso Roberto Cadonici che riedita a
Pistoia un impagabile memoriale di Altoviti.
«Nasce a Firenze il 15 ottobre 1914. La famiglia ha origini antichissime e raggiunge l’apice del proprio prestigio in età rinascimentale, quando Bindo Altoviti, ostile ai Medici, ottiene dalla Curia pontificia prestigiosi e lucrosi incarichi connessi alle attività bancarie del tempo. È assai noto, tra gli altri, il suo ritratto eseguito da Raffaello. Antonio è scontento della famiglia, che giudica conformista e priva di ambizioni, cristallizzata su scontento dell’ambiente fiorentino. Tuttavia coltiva gli studi fino alla laurea in Giurisprudenza, cui presto affiancherà, senza particolare entusiasmo, un secondo alloro in Scienze Politiche e Sociali. L’opportunità di una necessaria inversione di rotta gliela offre il matrimonio con la figlia di Badoglio, Maria, conosciuta in occasione di un Maggio Musicale. Il trasferimento a Roma e l’influenza del suocero – per lungo tempo Capo di Stato Maggiore dell’esercito – gli consentono le prime esperienze lavorative al CNR e al Ministero dell’Africa Orientale Italiana. Per quanto lontano dalla politica per tutta la vita, in gioventù è piuttosto sensibile alla retorica fascista, tanto che nel 1940 parte volontario per la Francia. Ufficiale di ordinanza, staziona al principio nella zona di confine, tra Alessandria, Ospedaletto e Ventimiglia. Le fotografie di quel periodo non parlano di guerra, quanto piuttosto di vita in apparenza spensierata tra bagni, giochi e cameratismo. Si sposta in seguito a Grenoble, dove resterà per circa un anno “fra i francesi che ci odiavano e i tedeschi che ci disprezzavano”. Torna a Roma nel 1942 e ha il suo primo impatto (folgorante) col cinema. Lavora all’ufficio censura del Minculpop e di tempo in tempo viene spedito a Genova con l’incarico di visionare e selezionare i film americani…».
Le mille esperienze fatte durante i fatidici anni bellici e postbellici da Antonio Altoviti debordano di scoperte, incontri, conversioni, intuizioni, freddure. Ecco alcuni suoi aneddoti.
«Valerio Zurlini era fissato con un quadro di Morandi che io possedevo – neanche bello: anche ai più grandi pittori alcune cose vengono bene, altre meno – e voleva assolutamente portarmelo via, diceva che non ne ero degno… Aveva girato un documentario a Bologna su Morandi quando era ancora vivo e se ne era innamorato. Mi ossessionava talmente e così persistentemente, secondo i suoi principi gesuitici, che un giorno gli dissi: “Prendilo e vattene!”. Ci rimisi un sacco di soldi, ma finalmente potei dormire la mattina, e d’altronde il De Pisis che mi dette in cambio mi piace moltissimo, anzi di più».
«Luchino Visconti fece un elaborato provino a Sophia Loren per una ipotetica Monaca di Monza, film che poi mai si fece. Meglio così, perché il connubio delle due prepotenze milanesi Ponti-Visconti era piuttosto preoccupante. Con un regista che, quando si arrabbiava con le attrici, aveva l’abitudine di dire “Ma torna in casino”, non era certo prevedibile una liscia lavorazione».
«Totò. Adorabile, strampalata creatura scesa dalla luna! Napoletano profondamente perbene: un signore alla sua maniera surreale, metafisica. Fellini, geniale come al solito, diceva: “Non si crede ai propri occhi quando lo si vede da vicino: è un evento fatato come quando da bambini si vede, per la prima volta, una giraffa, un pellicano”».
Altoviti aveva collaborato nel 1952 a Totò a colori, uno degli innumerevoli titoli di una filmografia impressionante. Io ho avuto il piacere d’incontrare Altoviti, e chissà quante volte, non nella vita, nelle scene esilaranti che ha interpretato ne La donna scimmia, un capolavoro di Marco Ferreri. Interpretava lui lo snob grottesco e libidinoso che aspirava ad acquisire la villosa Annie Girardot.
Antonio Altoviti, L’alfabeto del Marchese, a cura di Roberto Cadonici, Compagnia dei Santi Bevitori, Pistoia, 2024. Pubblicato in occasione del Mauro Bolognini Film Festival. Il ricchissimo Centro Studi Mauro Bolognini di Pistoia conserva anche la Collezione Altoviti.