Arturo Pérez-Reverte,
scrittore pluripremiato e figura di spicco della letteratura contemporanea, sarà il
protagonista della trentesima edizione
di Dedica,
in programma dal 16 al 23 marzo 2024, a
Pordenone, preceduta da una serie di ritorni di protagonisti del passato per festeggiare
i 30 anni del festival. Come sempre, la rassegna, organizzata
dall’associazione culturale Thesis e curata da Claudio Cattaruzza, ripercorrerà e
approfondirà l’universo letterario del protagonista per otto giorni e, come accade
ormai da diversi anni, si rinnoverà anche la collaborazione fra Thesis e
Cinemazero attraverso la serata che martedì 19 marzo porterà in sala, alle
20.45, Arturo Pérez-Reverte, in
occasione della proiezione del film “Il maestro di scherma” (titolo originale “El maestro de esgrima”, 91 minuti, in lingua
originale, con sottotitoli in italiano; l’ingresso costa 3 euro, il biglietto
si può acquistare a Cinemazero oppure online su www.cinemazero.it).
Tratto dall’omonimo romanzo di Pérez-Reverte
(diversi suoi romanzi sono diventati film, il più
noto è “La nona porta”, del 1999, regia di Roman Polański e con Johnny Depp, tratto dal libro “Il club
Dumas”), è diretto da Pedro Olea e vede fra i
protagonisti il compianto attore di origine friulana Omero Antonutti. La proiezione sarà
accompagnata da una conversazione del protagonista di Dedica con Riccardo Costantini, responsabile
degli eventi di Cinemazero e di Pordenone Docs Fest.
Il festival Dedica sarà inaugurato sabato 16
marzo, alle 16.30, nel Teatro Verdi di Pordenone, dove Arturo Pérez-Reverte
sarà intervistato dallo scrittore e traduttore Bruno Arpaia. Nell’occasione il
Comune di Pordenone consegnerà all’autore il Sigillo della città.
Fra gli eventi attesi a Dedica 2024, la
trasposizione per il teatro di due romanzi di Pérez Reverte, “Territorio
Comanche” (il 17 marzo) con Fausto Russo Alesi e “Occhi azzurri” (il 21 marzo)
con Peppe Servillo; la mostra (dal 17 marzo) al Paff! dedicata alla saga del
Capitano Alatriste di Pérez-Reverte con le tavole del fumettista e pittore
spagnolo Juan Mundet; la prima presentazione in Italia dell’ultimo libro di
Pérez Reverte tradotto in italiano “Linea di fuoco”, Rizzoli (20 marzo); il
dialogo su come si racconta la guerra fra Pérez Reverte e l’antropologo Marco
Aime (22 marzo); le conversazioni del protagonista del festival nelle
Università di Venezia, Udine e Klagenfurt e la chiusura di Dedica, sabato 23
marzo, al Capitol, con il tango, nel concerto del celebre bandoneista Daniele
Di Bonaventura e dell’Orchestra giovanile Filarmonici Friulani.
Info: wwww.dedicafestival.it, Facebook: Dedica
festival Pordenone
Si è aperto conL’ultima risata (Der letzte Mann, 1924) di Friedrich Wilhelm Murnau (e con un sonante tutto esaurito) il nuovo ciclo di appuntamenti dedicati ai capolavori del cinema muto che compiono cento anni, nato dalla volontà di Cinemazero e delle Giornate del Cinema Muto in collaborazione con la Cineteca del Friuli. Da oltre quarant’anni, come noto, cultori e studiosi di tutto il mondo accorrono a Pordenone per le Giornate del Cinema Muto, festival in cui è possibile rivivere la magia e l’incanto del racconto per immagini che precede l’avvento del sonoro. «Ma perché circoscrivere la possibilità di vedere e rivedere i grandi film muti a un unico irripetibile evento? Anziché una sola volta all’anno, perché non riservare alla visione del cinema muto uno spazio con cadenza mensile? Con questo spirito abbiamo deciso di avviare un progetto di attività permanente dedicato alla conoscenza di quell’epoca gloriosa della storia del cinema», ha scritto Luciano De Giusti, curatore dell’iniziativa, nell’introduzione alla rassegna.
Il film di Murnau, storia di un portiere d’albergo che, declassato a custode dei gabinetti perché troppo anziano, perde il diritto di indossare la sua preziosa uniforme, è stato definito da Pier Paolo Pasolini in un’intervista a Peter Dragadze «il più bel film del mondo». Ed effettivamente, se non “il più bello del mondo”, il capolavoro del ’24 è certamente un’opera capitale, che tutt’oggi lascia a bocca aperta per la modernità delle soluzioni stilistiche e per la genialità di una sezione finale che oggi definiremmo “postmoderna” per le sue implicazioni metanarrative. Lotte Eisner sosteneva la tesi dell’incomprensibilità del film al di fuori della specificità del Reich tedesco, sottovalutando così la forza “universale” di una pellicola che racconta tanto la storia di una caduta quanto l’utopia (impossibile per definizione) di un liberatorio riscatto degli ultimi, dei reietti, degli squinternati. Posto che l’unico personaggio (apparentemente) senza macchia (se non sui vestiti) è la guardia notturna.
Totalità del linguaggio delle
immagini: il film è praticamente privo di didascalie. Ha scritto Miriam Hansen:
«Le didascalie sono rifiutate come inessenziali, esterne e
irrilevanti per la nuova lingua del film […] La lingua ideale che il film
promette di restaurare è la lingua dell’espressione immediata, che proietta
un’integrità visibile di corpo e anima. […] L’origine di tale lingua
primordiale [risiede] nel movimento espressivo spontaneo (Ausdrucksbewegung)
di tutto il corpo, inclusi i movimenti delle labbra e della lingua. Non si
afferma la supremazia della parola. Il suono è semplicemente un sottoprodotto
di questa primordiale lingua dell’espressione». È
peraltro splendida la colonna sonora originale di Giuseppe Becce, che è stata
riproposta a Cinemazero nella versione eseguita dalla Saarbrücken Radio
Symphony Orchestra diretta da Detlev Glanert (la copia in 2K è stata fornita
dalla F.W. Murnau Stiftung di Wiesbaden).
Il secondo appuntamento non sarà da meno con la riproposizione di quell’autentica “enciclopedia del western” che è Il cavallo d’acciaio(The Iron Horse, 1924) di John Ford, riproposto in una nuova traduzione e nella versione integrale statunitense di 150’. Alla proiezione, fissata per il 26 marzo alle ore 20:45, seguirà una speciale lezione di analisi e approfondimento dedicata al film per il ciclo “Il Maestro al Microscopio” in data giovedì 28 marzo (ore 18:30 in sala Modotti a Cinemazero).
La rassegna proseguirà ad aprile con un’imperdibile serata che vedrà Juri Dal Dan accompagnare al pianoforte due capolavori di René Clair, Entr’acte eParigi che dorme. Maggio vedrà ritornare su schermo lo splendido Lubitsch di Matrimonio in quattro. Serve aggiungere altro? La magia del cinema muto a Cinemazero dura tutto l’anno!
Il
FilmFestSpiele di Berlino è una sinfonia cinematografica unica al mondo con
più di 400 film in dieci giorni, oltre 300.000 biglietti venduti in 15 cinema
coinvolti, un’audience di visitatori di poco meno di 450.000 unità, 18.000
ospiti accreditati (stampa esclusa) e 130 paesi di origine, oltre 2.800
giornalisti ed un bilancio di circa 33 milioni di euro.
All’interno
di questa ciclopica manifestazione il Forum è una sezione indipendente,
potremmo definirla un’osmosi parallela che si nutre del cinema più difficile,
più di ricerca, senza grandi budget e nemmeno grandi attori. Quel cinema di
domani, fatto di passione, energia, talento, che non vince Orsi d’Oro o
d’Argento, ma si pone come stimolo quello di percorrere territori inesplorati, ad allargare nuovi orizzonti.
Una
sezione, ça va sans dire, tenuta d’occhio dalla CICAE, ovvero
dall’associazione internazionale dei cinema d’essai fondata nel 1955, che oggi
rappresenta 4.400 schermi in 45 paesi in Europa e non solo. La missione della
CICAE è quella di promuovere il cinema di qualità sul grande schermo e
difendere il “diritto alla diversità culturale”. L’Arthouse Cinema Award,
su queste premesse viene quindi assegnato, da una giuria internazionale, per
aiutare il film di qualità più meritevole a trovare un suo spazio fra i 2.400 cinema della
rete internazionale d’essai aderenti alla CICAE.
Quest’anno,
per il Forum della Berlinale, la giuria era composta da Anca
Caramelea, curatrice dalla Romania di Cinema ARTA e membro del team di
selezione di Ecozine Film Festival; da Stefan Malešević, regista e curatore
cinematografico dalla Serbia, dell’Unione serba dei registi, della DokSerbija
(Unione serba dei documentaristi) e dal sottoscritto.
Dopo
dieci intensi giorni di film, discussioni e incontri la giuria del 64mo Forum
all’unanimità ha assegnato l’Arthouse Cinema Award 2024 a Shahid
della
regista iraniana, naturalizzata tedesca, Narges Kalhor con la seguente
motivazione: “a un’opera cinematografica unica e audace che riesce ad
infrangere convenzioni e confini. Grazie anche ad un approccio stilistico e
tematico a più livelli che crea un film molto onesto e intimo oltre ad usare
l’autoironia mentre affronta questioni importanti e cariche di conseguenze. Per
una regia che riesce a bilanciare con grazia realtà e finzione, umorismo e
tragedia, varie forme d’arte ed emozioni in una potente miscela cinematografica.”.
Martin
Scorsese del resto, nel ricevere l’Orso d’Oro alla carriera dell’edizione 2024
della 74ma Berlinale, aveva affermato che “i film, e soprattutto quelli
proiettati ai festival, dovrebbero influenzare il modo in cui vediamo le
persone intorno a noi e il modo in cui ci comportiamo nella vita” e Shahid
di Narges Kalhor è l’esempio perfetto di quei
film che allargano lo sguardo sul mondo e fanno cogliere la realtà in modo
diverso. Il
tutto attraverso una narrazione diversa, in aperta contraddizione con l’imperante
omogeneizzazione e disumanizzazione di certa politica. In Shahid la
regista Kalhor, attraverso un’originale opera tra fiction e mockumentary, narra
di ricordi collettivi e privati, stemperati in forma di onirica tragicommedia
attraverso il complesso processo burocratico per cambiare il nome dopo aver
ottenuto asilo in Germania. La regista Narges Shahid Kalhor vuole farsi
chiamare semplicemente Narges Kahlor in quanto “Shahid”, che
significa martire, la collega alla morte e alle sue radici legate all’attuale
regime iraniano. Il bisnonno, infatti, fu ucciso nel 1907 mentre pregava, cosa
che lo rese un martire – uno “shahid” appunto – e questo termine fu associato
al nome della famiglia. Ma Narges, stanca di tutte le sue connotazioni e del
suo status di immigrata, stanca anche della burocrazia tedesca e soprattutto,
del circolo vizioso globale del patriarcato, ha deciso di rimuovere
“shahid” dal suo nome. Il complicato iter burocratico per cambiare il
nome diventa ancora più impegnativo allorché entra nella narrazione la
burocrazia tedesca. La regista Kahlor deve fare i conti anche con i suoi
ricordi, o più precisamente con la storia della sua famiglia, che è anche la
storia della rivoluzione islamica e dell’attuale regime in Iran. In Shahid
la danza che apre il film, ricopre poi un ruolo centrale e segna visivamente lo
sviluppo della storia della protagonista. Inizialmente, il suo bisnonno martire
e i suoi amici tutti vestiti di nero la seguono ovunque, ballando e occupando
il centro della scena, mentre lei cerca di evitarli e scappare dalla propria
storia passata. Quando Narges cammina per le strade di Monaco diretta a un
ufficio amministrativo, loro la seguono mentre gli altri pedoni si muovono
all’indietro. Se Kahlor è preoccupata per il suo cognome, in un dietro le
quinte vediamo che anche i due attori principali Baharak Abdolifard e Nima
Nazarinia, riflettono sui loro problemi, in quanto entrambi sono ancora in
attesa di ottenere asilo in Germania. Il quarto muro, ovvero quel “muro immaginario” di fronte
al palcoscenico, attraverso il quale si osserva l’azione e che completa le tre pareti che formano la scena, in Shahid,
viene scardinato; le istruzioni della regista, la troupe e le ripetizioni dei
ciak sono tutte inserite nel montaggio finale, a formare una combinazione
perfetta di performance, documentario, animazione, musical, oltre a parlare
direttamente alla camera. Come Narges Kalhor cerca la sua identità tra paesi,
culture e lingue diverse, parallelamente il film cambia quindi costantemente i
propri registri con originale virtuosismo: tra finzione e documentazione,
tragedia e commedia, cinema di genere e film sperimentale, movimenti rallenti o
veloci, film nel film e il dietro le quinte, mettono costantemente in
discussione la forma filmica come in una spirale infinita. Con quest’opera
Kalhor ha, di fatto, abbattuto molte convenzioni attraverso un lavoro mirabilmente
creativo in bilico tra il multimediale e il metaverso. Un’opera audace per la
giovane regista, nata a Teheran nel 1984, dove ha studiato regia e
comunicazione visiva. Nel 2009 mentre si trovava in Germania per seguire un
festival, ha chiesto asilo politico. Nel 2019 ha vinto il premio DOK Leipzig
con il suo fantasioso In the Name of Scheherazade or the First Beergarden
in Tehran. Quest’anno a Berlino con Shahid ha bissato vincendo
anche il premio Caligari sponsorizzato dalla Bundesverband
kommunale Filmarbeit e dalla rivista Filmdienst.
Quella del
2024 è stata anche l’edizione che ha concluso la collaborazione quinquennale di
Carlo Chatrian con la Berlinale. Il piemontese Chatrian da Locarno era passato a Berlino, dove ha attraversato
anche i duri anni pandemici, quelli più difficili, e li ha superati
brillantemente, riportando nel 2024 il FilmFestSpiele agli antichi
splendori e forse anche oltre. Ha fatto fronte alla mancanza di blockbuster
americani e quindi di glamour hollywoodiano, a causa del lunghissimo sciopero
degli attori e sceneggiatori in Usa, con una insolita alta qualità dei film
selezionati dove la giuria, composta anche
dalla nostra brava attrice e regista Jasmine Trinca, ha assegnato l’Orso d’Oro
al film-documentario Dahomey di Mati Diop sulla restituzione al Benin di 23 opere d’arte locali trafugate e portate a
Parigi ai tempi della colonizzazione. La Diop, regista francese di
radici senegalesi, non è nuova ai palmares, ha visto infatti il suo talento
premiato anche a Cannes nel 2019 con il gran premio della giuria per Atlantique.
Arrivederci quindi dal 13 al 23 febbraio 2025 per la 75ma edizione del FilmFestSpiele.
Parafrasare Luchino Visconti può
essere una chiave per provare a tracciare un immaginario fil rouge che ha unito
molte delle opere che si sono contese l’Orso d’Oro alla recente Berlinale,
conclusasi pochi giorni fa. Una morte, quella vista sul grande schermo a
Berlino, intesa sia in senso fisico, come trapasso del corpo con conseguente
necessità di elaborazione del lutto da parte di chi resta, ma anche spirituale,
o metaforica, spesso generativa di grandi cambiamenti, sia positivi che
negativi.
Impossibile non iniziare questo escursus dal film che ha scelto di inserire la parola “morte” fin
dal titolo. È quanto ha fatto il regista tedesco Matthias Glasner che con il
suo Sterben (che significa morte in tedesco appunto) ha raccolto un
ottimo riscontro di pubblico e critica – conquistando anche un meritatissimo
l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura – con un sorprendente melodramma che
partendo dalle vicissitudini di una famiglia disfunzionale riesce a mettere in
scena i tanti aspetti di una vita che finisce. Anzi di più vite perché quello
di Glasner è un film corale dove ad essere protagonisti sono soprattutto le
relazioni interpersonali tra le persone. L’autore è abile nel sottolineare, pur
senza essere didascalico, il rapporto causale che lega il comportamento di un
personaggio alla reazione di un altro. Tutto ha inizio nel corso di una
riunione di famiglia – il cui pretesto, guarda caso, è il lutto – durante la
quale lo spettatore già percepisce un clima mortifero. Ognuno dei commensali ha
infatti a che fare, in modi e forme diverse, con la morte. E vi si rapporta in
maniera completamente diversa. Attorno al tavolo siedono il padre, affetto da
demenza, che si rende conto del progressivo arrivo della “fine” i cui effetti
si fanno ogni giorni più manifesti; la madre, perennemente presa dagli impegni
e che viene messa di fronte alla sua inadeguatezza rispetto a questo ruolo e
all’impegno che esso comporta (un ruolo dunque che essa stessa ha scelto volontariamente
di “lasciar morire”) e i due figli, il primo, musicista, che sta componendo
un’opera sulla morte in compagnia dell’amico con istinti suicidi e l’altra,
vittima dell’alcolismo, che ne ha di fatto già ucciso le relazioni e la voglia
di vivere. Anche se può sembrare impossibile con tutto questo materiale,
ulteriormente arricchito dalle vicissitudini di altri personaggi, Glasner
confeziona un “opera piena di vita”, come ha scritto il Guardian, che si
destreggia nel raccontare la complessità della vita vista come antitesi alla
morte. Nel farlo l’autore sceglie un’intelligente vena ironica, senza scivolare
mai nella commiserazione, sapendo emozionare e coinvolgere il pubblico per
tutte le tre ore.
Di morte parla anche Another
End di Piero Messina (cui abbiamo dedicato un articolo il mese scorso) che ci
porta in un domani sospeso, in un universo misterioso nel quale, grazie ad una
tecnologia innovativa, una società è in grado di riportare in vita, per un
breve periodo, chi non c’è più, mettendolo nel corpo di un altro essere umano. È
a loro che sceglie di affidarsi Sal, il protagonista, che ha perso sua moglie
in un tragico incidente. L’obiettivo sarebbe quello di sfruttare questo tempo,
che dovrebbe esser molto breve, per dirsi addio ma, com’è lecito immaginare,
riconnettere due persone divise dal destino, può avere conseguenze inaspettate.
Un’opera seconda molto ambiziosa quella di Messina che nove anni dopo il suo
esordio con L’attesa, torna sul tema della separazione, del lutto e
delle strategie per elaborare il dolore che ne consegue. Lo fa in un film ricco
di citazioni cinefile e di linee narrative (ma con un tema del genere e in un
racconto che gioca sul confine tra il reale e l’onirico forse non poteva essere
altrimenti) che per questo a volte rischia di perdere unità ma che, unendo melò
e sci-fi rimane comunque un interessante esperimento di reinterpretazione dei
canoni del genere.
Chi invece ha dovuto tragicamente
affrontare la morte senza alcuna consolazione è stata la giovanissima Hilde
Coppi la cui storia è al centro di In Liebe, Heure Hilde di Andreas
Dresen, che firma un tenero ritratto della giovanissima combattente della
resistenza antinazista che viene incarcerata in un lager – e malgrado la
gravidanza e la successiva nascita del figlio le permettano di posticipare il
suo destino – dovrà affrontare una tragica morte, che sarà prima psicologica e poi
fisica. Un contrasto, quello tra sofferenza e dolore che trasudano nell’ambiente
del lager, e la felicità della vita in libertà (resa efficacemente da una serie
di flashback che ricostruiscono la vita di Hilde nel periodo precedente alla
cattura) che trasmette con efficacia la potenza di un messaggio univoco: per
quanto tragica, ingiusta e dolorosa anche la morte può essere sconfitta, da
solidi ideali e dall’amore. Ed in effetti il riconoscimento dell’enorme
sacrificio e dell’impegno contro il nazismo è giunto fino a noi e, anche se
sono passati più di ottant’anni dai tragici fatti narrati, il valore di quanto
fatto dai membri del gruppo soprannominato “Orchestra Rossa” giunge al pubblico
in tutta la sua potenza. Merito, più che della scrittura che appare a volte un
po’ troppo didascalica dalla straordinaria interpretazione di Liv Lisa Fries
che forse avrebbe meritato di essere premiata.
Ma alla morte si può anche
sopravvivere, se a morire non è l’intero corpo ma solo parte di esso. È quanto accade
a Edward, il protagonista di A Different Man, il cui sogno sarebbe di
poter fare l’attore, obiettivo tutt’altro che semplice essendo il suo volto
coperto da malformazioni ed escrescenze ripugnanti che gli rendono quasi
impossibili anche azioni semplici, come vedere da un occhio o fischiare. Per
questo, oltreché per amore della nuova vicina di casa, Edward deciderà di
tentare una cura sperimentale che promette di donargli un volto nuovo. Così
accadrà ed Edward si troverà, bello come non mai, a iniziare una nuova (?)
vita, potenzialmente ricca di soddisfazioni e felicità. Che però non
raggiungerà mai. Grazie alla cura miracolosa, ad essersene andato è solo
l’aspetto esteriore di Edward, ma non la sua personalità.
Lo capirà molto bene quando il suo ruolo nella nuova piece teatrale cui
ambisce verrà preso – ironia della sorte – da Oswald, affetto dalla sua stessa
malattia ma con un carattere opposto. Sarcastico, divertente, passionale,
talentuoso, Oswald fa il suo ingresso in scena in maniera dirompente
conquistando il pubblico (sia quello dello spettacolo messo in scena che quello
della sala cinematografica) e dimostrando che il fascino e la bellezza, quella
vera, risiede nell’essenza delle persone.
Quelle stesse persone che hanno
affollato il festival che, quasi a fare da contraltare ai temi dei film di cui
vi abbiamo appena raccontato, restituiscono l’immagine di un festival e di un
settore, quello del cinema, più vivo che mai.
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