Dieci anni senza Carlo
«Quando se ne vanno persone che sono come querce, si rimane con meno ombra e riparo!». (Vinicio Capossela a proposito di Carlo Mazzacurati)
Di Andrea Crozzoli
Era un sabato quel 25 gennaio del 2014. Avevo preso da tempo, proprio per quel giorno, un importante e risolutivo appuntamento in Umbria per una mostra sui costumi di Danilo Donati alla quale collaboravo. Impossibile spostare la data e tantomeno annullarla. Partii quindi all’alba da Pordenone, perché volevo assolutamente fare una tappa a Padova prima di proseguire per l’Umbria. Arrivai di prima mattina al 126 di via San Francesco, a pochi minuti dall’apertura della camera ardente allestita presso la sede di Medici con l’Africa Cuamm. Sostai davanti al feretro e quel nodo alla gola, che si ingrossava sempre più, sembrava strozzarmi, gli occhi si riempirono di lacrime, riuscii solo a sussurrare: «Ciao Carlo!».
Carlo Mazzacurati, classe 1956, si era cinematograficamente formato negli Anni ’70 al circolo universitario di Padova CinemaUno che conduceva assieme al suo mentore Piero Tortolina. Praticamente il circolo padovano considerato fratello maggiore di Cinemazero (noi, cominciando da “zero”, non potevamo chiamarci CinemaDue). Scese poi a Roma, Carlo, dove si fa il cinema, e lavorò come sceneggiatore continuando però a frequentare la sala cinematografica da accanito spettatore. Fu proprio grazie a questa passione che, narra la leggenda, avvenne l’incontro con Nanni Moretti al cinema Rialto in occasione di una retrospettiva sul cinema russo.
Mazzacurati, che all’epoca aveva solo 31 anni, da un racconto scritto con Enzo Monteleone trasse soggetto e sceneggiatura per quello che diverrà Notte italiana, il suo primo lungometraggio. Prodotto dalla SacherFilm di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo e presentato fuori concorso a Venezia, il film conteneva già le linee guida della poetica che caratterizzerà il cinema di Mazzacurati: storie di perdenti on the road, di uomini sfortunati che inseguono una serenità perduta, uomini dalla solidarietà senza enfasi e senza retorica. Retorica dalla quale Mazzacurati riusciva a “sfuggire con naturalezza” come scrisse lo sceneggiatore Marco Pettenello. Un cinema che dichiarava subito l’etica e l’estetica dello sguardo di Carlo, persona mite ma forte nella sua possente fisicità, che riuscì a strutturare con Nanni Moretti un lungo sodalizio fatto di reciproca stima ed amicizia. Moretti lo chiamò diverse volte a sostenere piccoli ma indimenticabili ruoli nei suoi film: dalla citatissima scena in cui Carlo, nei panni del critico cinematografico in Caro diario, scoppia in lacrime davanti ad un indignato Nanni che lo fa amaramente pentire delle sue recensioni; al Caimano dove è sempre l’odio nei confronti del mestiere di critico il motore che conduce il cameriere Mazzacurati ad abbattere, in una memorabile sequenza, il critico culinario a colpi di astice; o l’estraniante e incredibile urlo di Mazzacurati in Il grido d’angoscia dell’uccello predatore (20 tagli d’Aprile) presentato al Festival di Cannes.
Dopo la parentesi romana, durata quindici anni, Mazzacurati era ritornato nella sua terra natia, a Nord-Est. Una terra quasi vergine dal punto di vista cinematografico, fatta di piccole storie marginali, che necessitavano, in qualche modo, di essere ascoltate con occhi e orecchi attenti. Ci voleva la curiosità di Carlo Mazzacurati per riuscire a tradurre questi luoghi mai veramente raccontati con la macchina da presa. Tutto ciò contribuì a farlo diventare interprete del paesaggio e dei mutamenti antropologici del Nord-Est. Mazzacurati “ha saputo coniugare poetica d’autore e attenzione ai generi, fedeltà alle proprie radici venete e capacità di dialogare con i modelli del grande cinema, americano e italiano” come ha giustamente chiosato Antonio Costa nella monografia che gli ha dedicato.
Ma la curiosità di Carlo Mazzacurati, uno dei più amati registi della sua generazione, era onnivora e comprendeva naturalmente anche la letteratura. Nel 1989 girò Il prete bello, tratto dal libro di Goffredo Parise e in quell’occasione mi disse che la letteratura per lui era importante quanto il cinema: «Tu sei anche quello che si deposita nella tua esperienza emotiva. Sei quello che hai visto al cinema, che hai letto nei libri. Tutto questo ti forma un gusto, un’etica – e aggiunse – amo profondamente quel senso della sospensione della vita, quell’emozione adolescenziale enorme che provi sia in sala, quando ti dimentichi anche che devi respirare, guardando un film, sia con un romanzo, dove non riesci a smettere di leggere finché non arrivi alla fine. Cinema e letteratura ti leniscono il peso di vivere. Insomma, hanno la stessa potenza.». L’amore per la letteratura, coniugato con il Nord-Est, portò poi Mazzacurati verso altre fruttuose incursioni concretizzatesi in Ritratti, tre splendidi documentari, da lui diretti, su scrittori come Rigoni Stern, Andrea Zanzotto e Luigi Meneghello intervistati da Marco Paolini. Sarà sempre il Nord-Est e la sua Padova a far da sfondo anche in La lingua del Santo, film che nobilitava la commedia all’italiana nel ripercorrere i sentieri dell’ironia con estrema abilità e perizia. Da manuale la divertentissima apparizione di San Antonio in carne ed ossa (un cameo di Marco Paolini) che, privo della lingua rubatagli, tentava di redarguire i due ladruncoli. «Il cinema italiano sta male e la causa di questo star male sono i brutti film e i brutti film son tanti e mettono in una condizione mentale tesa a cercare di stare il più possibile dentro un canone che dovrebbe essere quello del film che funziona a qualsiasi livello. Bisognerebbe invece cercare di essere più liberi. Per fortuna una delle pochissime cose che non sono riusciti a capire è come si fanno i film che incassano. A volte succede che un piccolo film inatteso abbia un grosso successo e questo è un bene prezioso che crea le condizioni affinché i produttori lascino la porta aperta alla creatività dell’autore e al rischio.». Parole profetiche che Mazzacurati pronunciò, oltre venti anni or sono, in occasione di una mia intervista, e che sono ancora drammaticamente attualissime. Oltre alla fiction Mazzacurati frequentò abitualmente il documentario, un territorio che lo trovava a suo agio come nei Ritratti già citati e come in Sei Venezia, una poetica opera che si concentrava su sei abitanti “quotidiani” per raccontare la città lagunare. «Dopo un lungo percorso, anche meditativo, con Claudio Piersanti e Marco Pettenello – ci aveva a suo tempo raccontato Carlo Mazzacurati – siamo arrivati a quelle persone che mi sembravano molto uniche, come è unica la città stessa. Ero affascinato da questo filo conduttore originale col quale narrare la città. Una città da secoli già dipinta, narrata, fotografata, filmata. Una città in cui si rischiava di essere superficiali.». Anche la colonna sonora in Sei Venezia, con musiche di Eleni Karaindrou – l’artista greca che ha firmato le colonne sonore dei film di Angelopoulos – aveva nel documentario una valenza semantica: «Da subito ho avuto una grossa impressione, potente e immediata, di come questa musica greca – mi disse Mazzacurati – dialogasse con Venezia che è sostanzialmente greca. La città più orientale, bizantina che abbiamo in Italia.». Con questo lavoro, accolto con uno dei più lunghi applausi che si ricordino a Cinemazero, nel 2011 si è congedato Calo Mazzacurati dal pubblico pordenonese. Una tappa, per sua stessa ammissione, a cui teneva molto e che non aveva mai mancato nel corso della sua carriera. Poi la malattia gli ha impedito di ritornare, fino al doloroso epilogo. Aveva scritto su La Repubblica Alberto Farassino a proposito di un suo lavoro: “Un film senza errori che dà più di quel che promette.”. Ecco, traslando, Carlo Mazzacurati nel suo essere genuinamente generoso era proprio così: dava più di quel che prometteva.