Gli occhi dell’Africa 2024

Di Martina Ghersetti

Gli occhi dell’Africa è la rassegna di cinema e cultura africana, giunta quest’anno alla maggiore età, ideata dalla Caritas della diocesi di Concordia-Pordenone, realizzata con la collaborazione di Cinemazero e del Centro culturale Casa dello Studente Zanussi. Il nucleo centrale è costituito da film e documentari creati da autori africani, che possano dare uno sguardo inedito su un continente ricco di storia e di contraddizioni, che va conosciuto al di là degli stereotipi, attraverso lavori d’autore che i normali circuiti di distribuzione cinematografica ignorano. La rassegna si avvale della consulenza e della collaborazione del Festival di Cinema africano di Verona e Festival di cinema africano, Asia, America Latina di Milano, nonché della rivista Africa.

Accanto ad una selezione della più recente filmografia africana, la rassegna presenta una serie di momenti di approfondimento: incontri per adulti e per le scuole, laboratori per bambini e ragazzi, un concerto, almeno un lavoro teatrale, una mostra fotografica, presentazione di libri. Si inizierà martedì 5 novembre con il primo incontro, dedicato all’attualità in Africa, con Marco Trovato, direttore editoriale di Africa, che parlerà alla Casa dello Studente Zanussi di fronte al pubblico dell’Università della Terza Età di Pordenone.

Il 12 novembre si prosegue con un appuntamento sulla musica africana, con il musicista camerunense Stephane Ngono e il 19 novembre con la presentazione del libro Con l’Africa, del giornalista Giuseppe Ragogna, dedicato all’opera dei volontari del Cuamm Medici con l’Africa di Padova: tutti questi tre incontri si replicheranno la mattina seguente per le scuole. Il 5 novembre, nello Spazio Foto della Casa dello Studente Zanussi, si inaugura la mostra Terra madre, che racconta la sfida della sostenibilità ambientale in Africa attraverso 40 immagini realizzate da grandi fotografi. l loro scatti sono uno sguardo corale sulle urgenze più impellenti per l’umanità viste dal continente più fragile, resiliente e vitale. Si assaggeranno specialità africane, al termine della presentazione della mostra. Tra i libri che verranno presentati, il 15 novembre, prima della proiezione, alle 20.45, ci sarà ItaliApartheid. Stranieri nella penisola del razzismo, di Leonardo Palmisano, docente di Sociologia della devianza all’Università di Foggia, editorialista del Corriere del Mezzogiorno.

Tre i laboratori per bambini e ragazzi, nei sabati di novembre, per parlare di Africa in maniera creativa. Verrà proposto lo spettacolo multimediale di e con Gabriele Del Grande Il secolo è mobile. La storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro.

Il 29 novembre ci sarà un momento musicale con testimonianza del suo percorso di migrazione del musicista Chris Obehi. I giovani dello Young Club di Cinemazero realizzeranno un documentario sul mutamento della situazione migratoria a Pordenone, con testimonianze di giovani di seconda generazione e di esperti. In gennaio, la rassegna si concluderà con una grande festa, per la maggiore età dell’iniziativa, nel nuovo padiglione multifunzionale davanti a Cinemazero.

Dal set alla sala: i capolavori svelati dalla Magnum ritornano a Cinemazero

Di Martina Zoratto

In occasione della mostra Magnum sul Set: lo Sguardo dei Grandi Fotografi, inaugurata il 14 settembre presso la Galleria Bertoia e visitabile fino all’8 dicembre 2024, Cinemazero riporta in sala due classici intramontabili. 

A novembre torneranno infatti sul grande schermo Luci della Ribalta (Charlie Chaplin, 1952) e Quando la moglie va in vacanza (Billy Wilder, 1955): due proiezioni pensate per arricchire l’esperienza della visita alla mostra, che vede esposte 116 fotografie realizzate da 18 reporter sui set di 12 produzioni hollywoodiane.

Organizzata dal Comune di Pordenone, con il sostegno della Regione FVG e Promoturismo, l’esposizione ha visto il coinvolgimento di Cinemazero – tra i partner insieme a Contrasto, Pordenonelegge, Craf, Magnum e Versicherungskammer Kulturstiftung – che ha messo a disposizione una preziosa selezione di locandine e materiale a stampa, in collaborazione con la Cineteca del Friuli.

Protagonisti assoluti gli scatti di maestri del calibro di Henri Cartier Bresson, Elliot Erwitt e Eugene Smith: sguardi inediti che hanno immortalato momenti significativi della vita sul set, catturando i segreti delle maestranze e i ritratti delle star, restituendoci così una documentazione inestimabile del lavoro di uomini e donne del cinema.

Un’opportunità unica per guardare a tali capolavori da una prospettiva insolita, e al contempo un modo per conoscere un versante meno noto dell’attività della storica agenzia fotografica.

Un viaggio che a partire da immagini di backstage rubate ai grandi set attraversa la fase d’oro della storia hollywoodiana, conducendo il visitatore alla scoperta dei meccanismi che hanno permesso la realizzazione di pellicole che hanno fatto la storia, e che ancora oggi vale la pena riscoprire nella loro dimensione naturale: la sala cinematografica.

Il Marchese Altoviti

Di Lorenzo Codelli

«Ma come si è soli ad organizzare un film! Hai tutti contro: contro il regista che non ti considera più un amico; contro il produttore che non ti considera abbastanza autoritario; contro i finanziatori che non ti considerano abbastanza economo; contro gli attori, i tecnici che ti considerano u tiranno, gli operai che ti considerano un padrone. Che mestiere di merda! E alla fine del film, dopo che hai faticato come una bestia, nessuno ti è grato».

Uno sfogo comunissimo quando il cosiddetto “organizzatore di produzione“ dei film non è che un anonimo funzionario della ditta. Molto meno quando a sfogarsi è un nobile di antico lignaggio abituato al jet set piuttosto che ai set. Aveva liberamente scelto di ergersi a quell’ingrato ruolo nientemeno che Antonio Corbizzo Altoviti Avila Niccolai Lazzerini (1914-2002). 

   Ce lo descrive come segue lo studioso Roberto Cadonici che riedita a Pistoia un impagabile memoriale di Altoviti.

    «Nasce a Firenze il 15 ottobre 1914. La famiglia ha origini antichissime e raggiunge l’apice del proprio prestigio in età rinascimentale, quando Bindo Altoviti, ostile ai Medici, ottiene dalla Curia pontificia prestigiosi e lucrosi incarichi connessi alle attività bancarie del tempo. È assai noto, tra gli altri, il suo ritratto eseguito da Raffaello. Antonio è scontento della famiglia, che giudica conformista e priva di ambizioni, cristallizzata su scontento dell’ambiente fiorentino. Tuttavia coltiva gli studi fino alla laurea in Giurisprudenza, cui presto affiancherà, senza particolare entusiasmo, un secondo alloro in Scienze Politiche e Sociali. L’opportunità di una necessaria inversione di rotta gliela offre il matrimonio con la figlia di Badoglio, Maria, conosciuta in occasione di un Maggio Musicale. Il trasferimento a Roma e l’influenza del suocero – per lungo tempo Capo di Stato Maggiore dell’esercito – gli consentono le prime esperienze lavorative al CNR e al Ministero dell’Africa Orientale Italiana. Per quanto lontano dalla politica per tutta la vita, in gioventù è piuttosto sensibile alla retorica fascista, tanto che nel 1940 parte volontario per la Francia. Ufficiale di ordinanza, staziona al principio nella zona di confine, tra Alessandria, Ospedaletto e Ventimiglia. Le fotografie di quel periodo non parlano di guerra, quanto piuttosto di vita in apparenza spensierata tra bagni, giochi e cameratismo. Si sposta in seguito a Grenoble, dove resterà per circa un anno “fra i francesi che ci odiavano e i tedeschi che ci disprezzavano”. Torna a Roma nel 1942 e ha il suo primo impatto (folgorante) col cinema. Lavora all’ufficio censura del Minculpop e di tempo in tempo viene spedito a Genova con l’incarico di visionare e selezionare i film americani…».

      Le mille esperienze fatte durante i fatidici anni bellici e postbellici da Antonio Altoviti debordano di scoperte, incontri, conversioni, intuizioni, freddure. Ecco alcuni suoi aneddoti.

   «Valerio Zurlini era fissato con un quadro di Morandi che io possedevo – neanche bello: anche ai più grandi pittori alcune cose vengono bene, altre meno – e voleva assolutamente portarmelo via, diceva che non ne ero degno… Aveva girato un documentario a Bologna su Morandi quando era ancora vivo e se ne era innamorato. Mi ossessionava talmente e così persistentemente, secondo i suoi principi gesuitici, che un giorno gli dissi: “Prendilo e vattene!”. Ci rimisi un sacco di soldi, ma finalmente potei dormire la mattina, e d’altronde il De Pisis che mi dette in cambio mi piace moltissimo, anzi di più».

    «Luchino Visconti fece un elaborato provino a Sophia Loren per una ipotetica Monaca di Monza, film che poi mai si fece. Meglio così, perché il connubio delle due prepotenze milanesi Ponti-Visconti era piuttosto preoccupante. Con un regista che, quando si arrabbiava con le attrici, aveva l’abitudine di dire “Ma torna in casino”, non era certo prevedibile una liscia lavorazione».

    «Totò. Adorabile, strampalata creatura scesa dalla luna! Napoletano profondamente perbene: un signore alla sua maniera surreale, metafisica. Fellini, geniale come al solito, diceva: “Non si crede ai propri occhi quando lo si vede da vicino: è un evento fatato come quando da bambini si vede, per la prima volta, una giraffa, un pellicano”».

  Altoviti aveva collaborato nel 1952 a Totò a colori, uno degli innumerevoli titoli di una filmografia impressionante. Io ho avuto il piacere d’incontrare Altoviti, e chissà quante volte, non nella vita, nelle scene esilaranti che ha interpretato ne La donna scimmia, un capolavoro di Marco Ferreri. Interpretava lui lo snob grottesco e libidinoso che aspirava ad acquisire la villosa Annie Girardot.

Antonio Altoviti, L’alfabeto del Marchese, a cura di Roberto Cadonici, Compagnia dei Santi Bevitori, Pistoia, 2024. Pubblicato in occasione del Mauro Bolognini Film Festival. Il ricchissimo Centro Studi Mauro Bolognini di Pistoia conserva anche la Collezione Altoviti.

Amarcord Sergio Leone


Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …
sentieri di cinema!


Di Andrea Crozzoli

Mi ricordo, sì mi ricordo Sergio Leone al nostro primo incontro quaranta anni or sono, nel marzo del 1984, a Torino. Preparavamo per l’edizione di quell’anno de Le giornate del cinema muto un omaggio a Roberto Roberti, che era non solo il regista preferito di Francesca Bertini ma anche il papà di Sergio Leone (non per nulla all’uscita di Per un pugno di dollari Leone usò lo pseudonimo Bob Robertson ossia letteralmente “Roberto figlio di Roberto”).

Leone si trovava a Torino per un seminario sul suo cinema ospite degli amici del Movie Club, un circolo di cultura cinematografica animato dagli allora giovani cinefili Steve Della Casa, Roberto Turigliatto e Alberto Barbera. Prima di un’abbondante cena piemontese terminata con gli amaretti fritti, Sergio Leone mi concesse un’intervista esclusiva (che fu pubblicata su Il Piccolo di Trieste) accettando volentieri di venire a Pordenone in autunno per vedere i film del padre di cui aveva solo letto. Dopo il nostro incontro, a maggio avrebbe presentato a Cannes il suo ultimo film C’era una volta in America un’opera che lui considerava, come mi dichiarò all’epoca, «intimista, la storia di un perdente, di un’amicizia fallita, della morte. Non c’è violenza, ma suspense.».


Sala del Teatro Verdi per Le giornate del cinema muto 1985 (da sx a dx Malthete Méliès,  Jean Mitry, Davide Turconi, Sergio leone e la moglie Carla Leone)

L’anteprima mondiale del film era avvenuta il 17 febbraio 1984 a New York con una versione del film di 269 minuti, ma all’anteprima europea di Cannes avrebbe presentato una seconda versione di soli 229 minuti.

Aveva combattuto dieci anni per realizzarlo a causa soprattutto dei dissapori con il produttore Alberto Grimaldi che abbandonò il progetto, oltre alle sceneggiature fatte e rifatte decine di volte. Una volta varato definitivamente il film, raccontò che impiegò solo «sei mesi di sopralluoghi e altri sei per girare. Abbiamo girato a New York, Montreal, Venezia, in Florida e a Cinecittà gli interni. Più un paio di mesi per il montaggio.». Sulla durata del film seguì poi un’aspra battaglia con la produzione e distribuzione; Leone mi disse che «all’inizio i produttori pensavano di dividerlo in due parti, come Novecento di Bernardo Bertolucci, poi è saltata fuori una legge americana che vieta di immettere nel mercato la seconda parte se non dopo tre mesi dall’uscita della prima. Questo per evitare concorrenze sleali fra distributori. Se la cosa poteva andare bene per Novecento, non va certo per il mio film che deve essere visto tutto di seguito. Al massimo la seconda parte il giorno dopo. Il film è costruito a flashback e l’inizio si ricollega con il finale, che è a sorpresa e chiarisce molte cose. La storia va appunto dal 1922 al 1933, con un salto nel 1968 che apre e chiude. Già mentre giravo ho tolto molte cose previste dalla sceneggiatura, ad esempio quella di un cinemino degli anni venti, dove si proietta un film di Rodolfo Valentino e dove cento donne estasiate e con gli occhi sgranati davanti allo schermo sono prese di mira da un gruppo di ragazzini che approfitta di spogliarle di spille, collane e braccialetti.».

Per Robert De Niro aveva una grande stima e considerazione, «fin dall’inizio – mi disse – avevo pensato a De Niro dopo averlo visto in Mean Street. Un attore favoloso, che ama il proprio lavoro. Ci siamo subito capiti. Puntiglioso, preciso, quasi maniacale. Per un mese si è presentato sul set all’una di notte per farsi truccare da vecchio ed essere pronto a girare alle sette del mattino.». Su Clint Eastwood, che aveva lanciato a livello internazionale con la trilogia del dollaro, invece era caustico, sfoderava tutta la sua sorniona ironia e lo ritraeva come «un tipo magro, con il volto un po’ effemminato, spalle strette, che non parlava mai… Ormai alla fine della carriera, Clint Eastwood si

Cinemazero, SalaGrande Aula Magna 6 ottobre 1985 proiezione di C’era una volta in America (Sergio Leone fra Maurizio Solidoro e Cristina Paolin a sx e Jean Mitry a dx)

accontentava della metà della somma richiesta da James Coburn. Gli misi un

poncho per sopperire alla carenza di spalle, la barba lunga di una settimana per indurire il volto e un sigaro perennemente in bocca. Eastwood ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza il cappello. Ma per quella parte funzionava a meraviglia.» Già all’epoca, in Francia, Sergio Leone lo chiamavano maestro e lui in maniera sorniona accettava questa corte, cosciente del suo ruolo e del suo talento senza però mai abbandonare quell’autoironia, quella vena bonariamente demistificatoria ma mai cinica. Venne a Pordenone nel 1984 e rimase folgorato dalla manifestazione dedicata al cinema muto. Animo sensibile, dopo aver visto sullo schermo del Teatro Verdi un primo piano della mamma diretta dal padre in un western girato sulle rive del Po, al riaccendersi delle luci in sala si asciugò le lacrime per la commozione. Tornò a Pordenone l’anno seguente, nel 1985, sempre per Le giornate del cinema muto dedicate questa volta a Thomas Ince e al western. Accettò di fermarsi, a fine manifestazione, anche la domenica 6 ottobre 1985 per presenziare all’inaugurazione della nuova sala grande dell’Aula Magna rinnovata da Cinemazero con un nuovo arredo e nuove poltrone, dove proiettavamo in anteprima per la città C’era una volta in America. Eravamo orgogliosi di poter avere in sala Sergio Leone ma anche preoccupati che la qualità tecnica della proiezione fosse all’altezza delle sue aspettative. L’anno prima aveva fatto annullare la proiezione per la stampa alla sala Excelsior della Mostra del Cinema di Venezia giudicandola tecnicamente inadatta al suo film. Fortunatamente da noi tutto filò liscio.

Con la stessa emozione di allora ci prepariamo, quaranta anni dopo, a ritornare in sala per ammirare la copia restaurata del capolavoro C’era una volta in America ricordando con nostalgia che c’era una volta un maestro di nome Sergio Leone.