Il cinema fa scuola: in Mediateca!

Crescono il numero dei prestiti, le matinée in sala e le attività didattiche nelle scuole

Di Elena Chiara D’Incà

I film ci parlano, ci narrano una storia, ci emozionano, ci coinvolgono, ma allo stesso tempo, dall’analisi delle opere filmiche possiamo scoprire molto sulla nostra epoca e su quelle passate, sui modelli culturali interpretativi della realtà: ogni film infatti è il risultato di un punto di vista unico e personale – quello del suo regista.

Vedere un film può rappresentare un ottimo strumento di analisi della realtà nella sua complessità di sfaccettature ma anche di rilettura storica, culturale, artistica delle epoche passate.

Il cinema quindi diventa un prezioso strumento di formazione, non solo nell’approccio alle materie curricolari, ma anche come base per un approfondimento, un ampliamento, uno stimolo a riflessioni più profonde sia in ambito scolastico che extra-scolastico.

Formare al cinema di qualità, formare con e attraverso il cinema sono degli obiettivi che la Mediateca di Cinemazero persegue da anni e questo ruolo è riconosciuto ed apprezzato da quanti utilizzano i patrimoni ed i servizi della Mediateca.

Infatti i dati di bilancio di un anno, quello appena trascorso, di attività della Mediateca intesa come attività istituzionale di accesso ai patrimoni e come attività formativa e didattica nelle scuole, testimoniano un continuo incremento rispetto all’anno precedente.

Sfiora quota novemila il numero di film presi in prestito in Mediateca, con un incremento del 20% rispetto al 2021. I titoli più gettonati sono stati: “Parasite” del sudcoreano Joon-ho Bong, “Kiki Consegne a domicilio”, film d’animazione del maestro giapponese Hayao Miyazaki, e “The Lighthouse” di Robert Eggers.

Crescono del 12% anche il numero di utenti che frequentano i servizi della Mediateca. Il dato di frequentazione della mediateca inoltre è il più alto rispetto alle altre mediateche del Sistema, confermandola come la mediateca più frequentata in Regione.

La Mediateca di Cinemazero ha lavorato negli anni per consolidare il suo ruolo di rilievo nel panorama cittadino come punto di riferimento culturale unico ed originale, un luogo nel quale la qualità dei patrimoni e delle offerte culturali attraggono un pubblico eterogeneo, un luogo aperto all’accoglienza e all’inclusione sociale un luogo simbolo della formazione ed educazione all’uso consapevole dei nuovi media e del linguaggio cinematografico e multimediale, un punto di incontro accogliente ed aperto, un servizio di qualità riconosciuto a livello regionale e nazionale.

Non solo un archivio dove trovare un immenso patrimonio di film e libri dedicati alla settima arte, molte sono le attività che la mediateca dedica alla formazione ed educazione al cinema di qualità. Da decenni la mediateca è impegnata nell’attività didattica nelle scuole ed anche questo settore durante l’anno 2022 ha riscontrato un trend positivo:

Ha superato 2.300 il numero di giovani coinvolti nelle decine di proiezioni mattutine di film dedicate agli studenti, a Cinemazero e allo Zancanaro di Sacile, per circa cento classi provenienti da scuole di ogni ordine e grado. Dai più piccoli dell’infanzia ai ragazzi che si stanno preparando per la maturità: il cinema ha offerto proposte adatte agli spettatori di ogni età. Guardare un film in sala, accompagnando la visione a un’introduzione critica, dall’autunno ritorna a essere un’abitudine, di cui è riconosciuta anche la valenza didattica.

Continuano a crescere anche il numero di ore di attività didattica nelle scuole di ogni ordine e grado del territorio: oltre 150 ore di didattica del cinema e dell’audiovisivo, realizzata nel corso dell’anno 2022 dagli esperti formatori della Mediateca di Cinemazero, che hanno affiancato i docenti curricolari nell’approccio didattico con e attraverso l’audiovisivo.

La Mediateca di Cinemazero si conferma un servizio ricco ed apprezzato, prezioso per il territorio e in grado di ritagliarsi nel tempo uno spazio di rilievo tra le numerose realtà e attività culturali della nostra città e non solo. 

A Cannes è nata una nuova stella: Lukas Dhont!

________________________________________________________________________

Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                       sentieri di cinema!

_______________________________________________________________

Di Andrea Crozzoli

Il Festival di Cannes tra i tanti meriti ha anche quello di scoprire nuovi talenti e porli all’attenzione di pubblico e critica. A suo modo “addotta” un regista e ne segue la carriera inserendo, nella selezione ufficiale, i suoi film e spessissimo anche premiandoli.

È successo con il danese Lars von Trier arrivato alla Palma d’Oro nel 2000 con Dancer in the Dark e perdutosi poi nelle sue provocazioni, anche di natura filonazista, fino a diventare “persona non grata” al Festival.

È successo poi con il canadese francofono Xavier Dolan che dal 2010 presenta, ogni paio d’anni, in anteprima sulla Croisette i suoi film raccogliendo svariati premi tra i quali il Grand Prix Speciale della Giuria.

Ora è il turno del belga Lukas Dhont che nel 2018 con la sua opera prima Girl ha vinto la Camera d’Or e nel 2022 con l’opera seconda Close ha guadagnato il Grand Prix Speciale della Giuria, ovvero l’equivalente del secondo premio dopo la Palma d’Oro.

Close, che sarà nelle sale italiane dal 4 gennaio, prosegue l’indagine, che Lukas Dhont ha particolarmente a cuore, sui delicati cambiamenti e turbamenti dell’adolescenza.

«Ricordo di aver letto il lavoro di una psicologa americana, Niobe Way – ha dichiarato Dhont – che aveva seguito ragazzi tra i 13 e i 18 anni. Ciò che mi ha sconvolto è che la Way ha scoperto che a 13 anni i ragazzi parlavano ancora delle loro amicizie, parlavano delle loro storie d’amore, senza imbarazzo … ma nell’adolescenza tutto cambia per loro. Improvvisamente devono esibirsi, devono essere cool. Ed essere stoici, estranei ai sentimenti, sicuri di sé, è considerato cool. Volevo parlare di questo, della perdita di quel rapporto intimo tra due ragazzi.».

Quel mondo di giovanissimi in formazione, raccontati con rara abilità, sembra essere il terreno di elezione del talentuoso trentenne regista fiammingo di Gand. Protagonisti sono, infatti, i tredicenni Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), da sempre migliori amici o “quasi fratelli” come si definiscono loro. Trascorrono insieme tutto il loro tempo libero, raccontandosi di tutto e condividendo ogni emozione in un rapporto praticamente esclusivo. Il legame simbiotico che li unisce viene, però, messo in discussione con l’ingresso nella nuova scuola, dove sorgono domande provocatorie dai compagni (“ma siete una coppia?”) e qualche battutina che innescano tensioni anche nel rapporto idilliaco fra i due ragazzi. Da quel momento i due amici iniziano a riflettere sul proprio legame e sulla loro identità, la storia a questo punto, ha una cesura fra un prima e un dopo.

È questo, notoriamente, un momento delicato nello sviluppo armonico della personalità dei giovani, dove al desiderio di crescita si unisce la paura dell’incertezza per il futuro.

Tutte queste tensioni fra Léo e Rémi porteranno ad uno scontro con conseguenze drammatiche seppur mediate, in qualche modo, dalla figura di Sophie, la madre di Rémi, interpretata da Émilie Dequenne, indimenticata protagonista di Rosetta dei fratelli Dardenne, Palma d’Oro a Cannes nel 1999. Una evidente liason, quella di Lukas Dhont, con il cinema dei connazionali Jean-Pierre e Luc Dardenne. Un approccio autoriale programmatico fin dal titolo, Close, che rispecchia da un lato il rapporto strettissimo fra i due ragazzi, dall’altro il rimanere con la cinepresa, stile Dardenne, particolarmente vicino, quasi addosso, ai personaggi, dove contano più i gesti o gli sguardi delle parole.

Tra primi e primissimi piani, dettagli e particolari, emergono le emozioni sottolineate ulteriormente dal gioco di pedinamenti, respiri affannati, scatti improvvisi. Dhont è, infatti, abile nel catturare stati d’animo, nel filmare l’innocente imbarazzo e smarrimento dei suoi giovani protagonisti, componendo un credibilissimo ritratto adolescenziale sull’identità di genere. Il tutto utilizzando sapientemente calibrate ellissi, distillando parole, inquadrature, primi piani o incroci di fuggevoli sguardi. A proposito del film Lukas Dhont ha precisato che «… volevo creare immagini che mostrassero una vera intimità e una vera tenerezza tra due giovani ragazzi. Viviamo in un mondo in cui ci sono molte immagini di uomini che hanno rapporti brutali con gli altri, che sembrano scollegati dalla loro fragilità. Volevo creare momenti di tenerezza in un universo maschile. Avere due ragazzi in un letto, vicini, complici, vederli correre in un campo di fiori. E poi volevo davvero fare un film sull’amicizia. Sulla bellezza ma anche sulla fragilità dell’amicizia. Scegliendo due ragazzi giovani, volevo anche parlare di una società in cui la tenerezza tra adolescenti o tra uomini viene vista subito attraverso il prisma della sessualità. Cerchiamo di incasellare tutto. E questo limita alcuni impulsi e amicizie. Volevo anche parlare di brutalità … Nel mondo, ma anche dentro di noi…».

Il giovanissimo regista belga, dotato di rara sensibilità, realizza con Close un potente coming of age, attraverso un suo nuovo e originale modo di pensare e fare cinema, di raccontare la vita, di sottolineare le traiettorie interiori con echi poetici alla Terence Malick, per rappresentare la rabbia adolescenziale senza sbavature o eccessi. Il calore e la tenerezza in Close, sono ulteriormente rinvigoriti dalla splendida fotografia di Frank van den Eedenche attraverso l’esaltazione di alcuni colori e luci, mantiene, anche nei momenti più intensi e drammatici, una grande semplicità e universalità. Il regista ha anche la capacità di trovare, per i suoi film, sempre degli interpreti ideali, confermandosi abilissimo nel dirigere gli attori, nel tirar fuori da loro tutte le emozioni presenti nell’animo dei loro personaggi, dosando sapientemente momenti di dramma, spensieratezza ed emozioni. Lukas Dhont continua così, dopo Girl, a portare avanti il suo personale discorso sugli ostacoli che devono superare gli adolescenti che si discostano dalle aspettative sociali sul genere e la sessualità. Il regista abilmente pone il film alla medesima altezza dei suoi giovanissimi protagonisti, in modo da cogliere appieno lo smarrimento di Rémi e di Léo, la loro inevitabile immaturità e incapacità di rapportarsi ad alcune situazioni. In Close non si esplicita mai se Remi e Leo siano o non siano gay o in procinto di costituire una coppia. Sarà il tenero abbraccio tra Léo e la madre dell’amico la conclusione più dolce, l’unico lieto fine possibile di questo romanzo di formazione per elaborare e tentare di superare, ancora una volta insieme, il dramma che hanno vissuto e il dolore che continueranno a provare. Lukas Dhont ha realizzato con questo Close una piccola opera d’arte, un film toccante, uno dei primi tasselli di una carriera che si annuncia già sorprendente. Un film, ça va sans dire, da non perdere.

Piccolo Corpo: intervista a Laura Samani

Di Cinemazero Young Club

Una tematica centrale nel tuo film Piccolo Corpo è, appunto, quella del corpo, più precisamente il corpo delle donne. Siamo all’inizio del 1900, in un piccolo villaggio di pescatori del nord Italia dove emergono le dinamiche di genere del tempo, eppure le due figure centrali del film compiono delle scelte autonome: si appropriano del loro corpo così come della loro identità, non sono oggetti come il tempo e il luogo vorrebbe ma sono soggetti propri. Quando hai deciso di voler analizzare la complessità della questione di genere? E come pensi che il cinema possa produrre un cambiamento rispetto a questa tematica?

Laura Samani “Io non ero cosciente di questo tipo di argomento, nel senso che non ho pensato di voler raccontare di un corpo di una donna a cui succedono queste cose, ma semplicemente volevo parlare di un essere umano. In realtà mi contraddico, perché dai documenti emerge che erano gli uomini a fare questo tipo di viaggi e io sono andata in automatico a pensare cosa sarebbe successo se l’avesse fatto una donna. È stato un po’ un caso, è più legato al mio carattere, mi piace concentrarmi su ciò che è raccontato in maniera non ufficiale. Ci sono colleghi/e che fanno azioni politiche più coscienti rispetto a quelle che faccio io, quindi secondo me è in qualche misura un racconto politico sul corpo femminile però non intenzionale, ma spontaneo su come vivo io le cose.

Oltre alla questione del corpo femminile, nel film emerge il tema della maternità e con essa un dolore che raramente viene rappresentato sul grande schermo, ossia quello causato dalla perdita di ciò che si è creato. Cosa e chi ti ha ispirato questa storia? Quali sono le esperienze, secondo te, che ti hanno permesso di affrontare una questione così delicata in una maniera tanto realistica, sensibile e toccante?

LS: “Il modo in cui è iniziato è proprio da un racconto. Un signore della bassa friulana mi ha raccontato dell’esistenza di questi santuari e mi sono subito incuriosita e informata. Quindi è iniziato in maniera semplice con un “c’era una volta”. Io sono rimasta molto toccata da questo argomento. Parlare tramite metafore, simboli di qualcosa che ti appartiene o non sapevi ti appartenesse, te lo fa vedere immedesimandosi nella protagonista.

Vi ringrazio che lo abbiate definito delicato, questo è stato merito della squadra. In realtà una delle cose più belle che si possono fare creando un film è proprio confrontarsi su quello di cui stai parlando, che magari non riguarda direttamente la tua vita personale, ma c’è un motivo per cui vuoi farlo. E così con tutti gli altri collaboratori/trici  ci si trova a parlare del film, delle cose che piacciono di più o meno e capire il perché. Inizi a conoscere delle cose su di te e gli altri che prima non sapevi, perché ci emozioniamo il modo diverso. Fare un film è un lavoro di gruppo a differenza di altre forme d’arte.

Nel film la religione gioca un ruolo centrale. È proprio la speranza di un miracolo che spinge la protagonista ad intraprendere il viaggio verso un santuario per battezzare la figlia nata morta e permetterle di abbandonare il limbo. L’aspetto religioso si fonde così con le credenze locali che ricordano le fiabe con le quali siamo cresciuti. Questo mescolarsi di religione e fiabe era già presente nel tuo cortometraggio “la santa che dorme” del 2016. Secondo te cosa si nasconde dietro il bisogno della protagonista e il genere umano di credere in qualcosa?

LS: “Non penso di poter rispondere a nome dell’intero genere umano, ma si collega un po’ a quello che dicevo prima. Secondo me c’è bisogno di cercare qualcosa di sacro, inteso come qualcosa di prezioso dove va il tuo affetto da tenere al sicuro e che esula dalla questione della fede, della religione. Sta sul darsi delle spiegazioni su quelle cose non materiali, c’è qualcosa oltre la materialità, la realtà, ed è  il sacro.

Sotto diversi punti di vista Piccolo Corpo è un film audace ed innovativo: non solo hai deciso di portare sullo schermo una storia poco conosciuta, ma hai deciso di farlo in friulano e altri dialetti altrettanto sconosciuti. La lingua è l’elemento per eccellenza che definisce l’appartenenza ad un territorio, in questo film essa ha molteplici significati, ad esempio la contaminazione dell’incontro con l’altro. Per quale motivo hai preso questa scelta linguistica, correndo il rischio di allontanare il grande pubblico?

LS: “Perché secondo me il grande pubblico si allontana per altre ragioni. Negli ultimi anni ci siamo abituati a vedere molte cose sottotitolate, solo che diventa un vanto quando le lingue sono conosciute, come il francese e l’inglese, mentre per i dialetti meno. Non sono partita dall’idea di voler educare le persone alla lingua friulana, ma era l’idea iniziale in quanto necessità filologica: nessuno parlava italiano all’inizio del ‘900 in Friuli. Scelta che è stata appoggiata subito da Nefertiti Film (produttori e distributori del film), loro hanno esperienza e credono molto  nell’appropriatezza del linguaggio. Poi con il tempo è cambiato il significato: è diventato più politico, ampio e allo stesso tempo più privato. Mi sono resa conto che nella nostra regione, al confine con la Slovenia, ci sono state molte repressioni sanguinose riguardo l’utilizzo di molti dialetti, di origine slava, che durante il fascismo erano vietati. Nel caso della mia famiglia si parlava sloveno fino a qualche generazione fa e ora è stato completamente messo da parte. Quindi mi sono resa conto che ci sono ancora molte ferite al riguardo e che la lingua è una questione di identità e questo film parla di identità: volevo che le persone si esprimessero con il linguaggio con cui pensano. Nel film ci sono degli errori filologici perché ho deciso di far parlare, anche in modo liberatorio, i protagonisti con il proprio dialetto.

Il film è fatto anche di silenzi. La scena in cui Agata attraversa il lago nel silenzio nel bianco abbagliante delle montagne friulane è una sinestesia molto intensa. Se c’è, qual è stato il momento che ti ha lasciata senza parole durante questo viaggio sul tuo territorio? Qual è invece il luogo più ricco di significato per te?

LS: “Senza parole ci sono rimasta nella scena che abbiamo girato a Orias, in Val pesarina, dove i due personaggi principali si separano(SPOILER). Era una scena molto difficile da girare, ha iniziato a nevicare senza che ce lo aspettassimo ed è stato un momento pazzesco. Penso che anche per la seconda risposta sceglierei sempre questo posto, nel quale abbiamo passato molto tempo. Non perché sia il mio posto preferito rispetto ad altre location; perché tutte,  cercate personalmente con Giulio Squarci (aiuto regia) girando per un anno in tutta la regione, sono state scelte cercando la giusta “vibrazione”/ connessione, dedicandoci tempo.