“Il cinema italiano a una svolta”

Di Marco Fortunato

Una constatazione? Un auspicio? Probabilmente entrambi, o almeno questa è l’impressione che è emersa a margine del convegno – dal titolo omonimo a quello dell’articolo – che si è tenuto a Mantova pochi giorni fa nell’ambito degli Incontri del cinema d’Essai organizzati dalla Federazione Italiana dei Cinema Essai, ormai diventati l’osservatorio privilegiato sulla situazione del settore. Quest’anno il focus è stato sulla produzione nazionale, spesso accusata di essere eccessiva e di livello non adeguato, con la conseguenza di saturare spazi di mercato senza ottenere un corrispondente riscontro di pubblico e dunque, in ultima analisi, di non contribuire alla ripresa del mercato.

Sul primo aspetto i numeri forniti da Cinetel lasciano poco spazio all’interpretazione. Nel 2023 (e il dato si ferma al 30 settembre!) sono stati prodotti complessivamente ben 560 film di cui 250 in Italia o in coproduzione con il nostro Paese. Nell’ultimo triennio prepandemico 2017-19, per avere un confronto, i lungometraggi erano 442 in totale di cui 172 italiani. Un dato che deve far riflettere perchè, come ha ricordato Alberto Barbera è sintomo di un’ansia di produrre eccessiva probabilmente figlia anche dei meccanismi di sostegno pubblico che hanno messo a disposizione sempre più risorse evidentemente non sempre utilizzate nel modo adeguato. Perché il cinema non ha bisogno di più film (e il ragionamento ovviamente non vale solo per quelli italiani) ma di film più belli. Di film che sappiano parlare al pubblico e di un sistema che si sappia muovere con una linea strategica chiara.

La prova è sotto gli occhi di tutti ed è quel Io capitano che,come ha sottolineato Benedetto Habib, presidente Unione produttori Anica, alla quarta settimana di programmazione raccoglie ancora risultati lusinghieri e, ad oggi, come si può vedere nella tabella sottostante rappresenta il 7° risultato della stagione, sfiorando i 2,5 milioni d’incasso.

Un film che, al di là dei gusti personali, può contare su un lungo lavoro di scrittura durato oltre tre anni, su scelte distributive strategiche forti – in primis quella di uscire immediatamente dopo la Mostra del Cinema, per massimizzarne l’impatto comunicativo – e su un attento lavoro di promozione sul territorio e nelle sale che ha visto il regista, Matteo Garrone, impegnato in prima persona tanto che proprio durante la kermesse mantovana l’autore ha voluto incontrare ancora una volta il pubblico visto che il suo film era ancora in programmazione proprio al cinema Ariston sede degli Incontri FICE.

Una disponibilità, quella dei cosiddetti “talent”, ancora troppo spesso sottovalutata, e invece fondamentale a tutti i livelli per recuperare quel rapporto con gli spettatori. Lo ha ribadito, con forza, anche Marina Marzotto, presidente AGICI – Associazione Generale Industrie Cine-Audiovisive Indipendenti. Non è un caso che in vetta alla classifica dei film italiani più visti, se escludiamo alcuni titoli mainstream (come Me contro te e Tramite amicizia) ci siano proprio quei titoli accompagnati da lunghe tournée di incontri con regista e cast come L’ultima notte di Amore e Il sol dell’avvenire.

C’è poi il tema del livello qualitativo, che è strettamente connesso a quello quantitativo. Se le strutture produttive non crescono (come i dati dicono) in proporzione al numero di film prodotti è evidente che non si sta facendo altro che fare di più con le stesse forze in campo. È inevitabile che questo surplus sia di qualità minore perché sconta una riduzione dell’impegno, economico e concettuale, in tutte le fasi della lavorazione. Sarebbe al contrario utile investire più tempo e risorse nella realizzazione delle singole opere e dare maggiore rilevanza alla fase creativa, come ha chiesto espressamente Francesco Martinotti di ANAC che ha suggerito ad esempio ai produttori ad organizzare momenti di confronto per socializzare i progetti in lavorazione. Potrebbe essere un’operazione interessante soprattutto se, in parallelo, verrà attivata una politica di seria analisi del pubblico, portata avanti dagli esercenti. Perché se da anni sentiamo ripetere che non esiste più UN pubblico ma TANTI pubblici spesso ci si ferma qui nel senso che non ci si chiede come fare per conoscere meglio i propri pubblici, operazione che sarebbe tanto più necessaria dopo un evento come la pandemia che, probabilmente, ha cambiato in maniera significativa molte abitudini di consumo, tra cui anche quelle culturali. Appare opportuna, dunque, un’operazione di analisi dei diversi “pubblici”: quali caratteristiche e abitudini li accomunano e quali li dividono? Quali sono i pesi percentuali delle diverse fasce d’età? Com’è possibile fidelizzarli? Troppo spesso le risposte a queste domande sono affidate a studi generali mentre su questo aspetto dovrebbero lavorare, quotidianamente, i gestori delle singole sale perché questa conoscenza è il prerequisito indispensabile per costruire quel rapporto di fiducia tra IL cinema e I SUOI spettatori, aspetto questo che rappresenta l’essenza dell’esercizio d’essai.

Nel corso del dibattito sono anche emerse altre proposte concrete, che interessano i diversi attori della filiera. Dal punto di vista produttivo si è auspicata una revisione del sistema di contribuzione e sostegno che possa superare alcuni automatismi e ritornare a privilegiare i progetti che ottengano un ragionevole riscontro in sala (come avveniva peraltro in passato). Dal punto di vista comunicativo e promozionale è stata sottolineato come una maggior partecipazione dei talent alle presentazioni potrebbe essere incentivata contrattualizzandola già in fase di produzione del film. Infine alcuni esercenti, intervenuti in chiusura di convegno, hanno esortato i loro colleghi a fare sistema per esportare le buone pratiche sia rispetto agli strumenti di contatto che di fidelizzazione degli spettatori.

Il 71 Festival di San Sebastián

di Lorenzo Codelli

Da quattro anni in qua al veterano Festival di San Sebastián / Zinemaldia, giunto alla 71 edizione, trionfano le registe. Nel 2023 la prima vincitrice spagnola a conquistare la Concha de Plata è stata Jaione Camborda – nata 40 fa a San Sebastián – grazie al film O corno. L’odissea d’una pugnace galiziana costretta dagli eventi storici a emigrare in Portogallo. Una minuziosa rievocazione psicosociale del regime franchista allo sfascio.

Ricca come e più di sempre la selezione di opere provenienti dall’America Latina, per gran parte coprodotte da enti e compagnie iberici ed europei. Un’occasione per i cineasti argentini, presenti in massa, per denunciare pubblicamente le mire trumpiane, autolesioniste, del candidato presidente Javier Milei. 

 Dal loro martoriato paese è giunto il film che più abbiamo apprezzato a San Sebastián: Puan, diretto da Maria Aiché e Benjamín Naishtat, coprodotto dall’italiana Kino Produzioni. Una satira pungente del milieu universitario con al centro il personaggio woodyalleniano di un docente di filosofia in crisi (il bravissimo Marcelo Subiotto, premiato con la Concha d’Argento). Il finale prefigura il crollo del sistema didattico nel suo complesso. 

Nell’antico Teatro Victoria Eugenia è stata bene accolta la miniserie Nada di Mariano Cohn e Gastón Duprat, una perla della sezione “Culinary Zinema”.  Una miniserie argentina dedicata alle pietanze favorite in Argentina, con Robert De Niro come guest star.

Il clima generale del Festival si è riconfermato mitissimo. Non solo per la perpetua presenza di surfisti a placare le onde oceaniche, spesso burrascose; soprattutto per il calore umano col quale le platee del Festival – persino quelle composte da austeri giornalisti – accolgono plaudenti, a ritmo di rap, la brillantissima sigla ufficiale che precede ogni proiezione. Che rara esperienza!

Il “cinema” di Nico Naldini

Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                                 sentieri di cinema!

A tre anni esatti da quel 9 settembre 2020, in cui Domenico (detto Nico) Naldini ci ha lasciato, il Comune di Casarsa gli ha, doverosamente, intitolato la Biblioteca Civica situata nella nuova e prestigiosa sede di Palazzo Burovich de Zmajevich. Ma Nico Naldini non è stato solo poeta e scrittore.

Nella sua unica, pienissima e lunga vita è stato molto altro, anche se affettuosamente il cugino Pier Paolo Pasolini, a proposito delle sue poesie, scriveva: “Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere.”.

Sette anni separavano Nico Naldini da Pier Paolo Pasolini. Nico era nato il 1° marzo 1929 a Casarsa, in Friuli, da Enrichetta Colussi e Antonio Naldini, pilota di auto da corsa, mentre Pier Paolo era nato il 5 marzo 1922 a Bologna da Susanna Colussi, sorella di Enrichetta, e da Carlo Alberto Pasolini militare di carriera con nobili origini ravennate.

Nico Naldini “era un poeta dall’animo fanciullesco … un orso in forma umana, con la testa grossa, modi a volte fin troppo spicci, la tendenza a passare in fretta dalla gentilezza all’irritabilità, se qualcosa non gli andava bene.” come scrisse Alessandro Mezzena Lona in DoppioZero, l’11/09/2020, e rimase, volutamente, sempre un passo dietro al cugino fino alla sua morte. Forse per la sua profonda timidezza o forse per scelta, per non mettere mai nell’ombra le persone a cui teneva tanto.

Ma Nico Naldini aveva anche quella sferzante e contemporaneamente delicata capacità di narrare gli altri senza nulla nascondere, compresa l’orientamento sessuale: «L’omosessualità è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto.» aveva dichiarato una volta.

Dopo l’università a Trieste andò a Milano come direttore editoriale della Longanesi, per trasferirsi infine a Roma, agli inizi degli Anni Settanta dove, come ebbe a dichiarare Naldini stesso, «… con manovre tipiche di un Eugène de Rastignac da strapazzo mi sono conquistato le simpatie di un grande produttore come Alberto Grimaldi…». Al soldo di Grimaldi, Naldini svolgeva un delicato lavoro di selezione dei moltissimi progetti che piovevano sulla scrivania del produttore; un assistente/collaboratore di fiducia con mansioni che comprendevano anche l’addetto stampa.

Affermava con orgoglio e civetteria di essere stato «un ruffiano sopraffino» al servizio di quello che, nella seconda metà degli Anni Settanta, produsse in Italia tutto il cinema migliore: da Sergio Leone a Federico Fellini, da Bernardo Bertolucci a Pier Paolo Pasolini, Petri, Ferreri ed altri ancora.

A proposito di Fellini affermò una volta: «Gli ho fatto da ruffiano per tanto tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva volentieri, con Fellini.».

Con Alberto Grimaldi il cinema italiano godrà di una irripetibile stagione di

libertà creativa unita ad ingenti capitali che permetteranno di realizzare opere come Novecento di Bertolucci o Casanova di Fellini. «Nel cinema giravano molti più soldi che nell’editoria – sottolineava con beffardo sorriso Naldini – dunque molte più invidie e ghigliottine fra cui quella di rifiutare di produrre una Dama delle camelie proposta da Franco Zeffirelli».

Naldini raccontava che Grimaldi non andava mai sui set dei film che produceva, restava sempre in ufficio circondato da una serie di telefoni per parlare con le Major americane e farsi anticipare capitali attraverso prevendite dei diritti di sfruttamento delle pellicole. «Il mio ufficio era quello delle sofisticazioni maligne, oltre che delle esecuzioni: dalla sceneggiatura dovevo tornare al trattamento, con tutti gli ingredienti che piacevano ai finanziatori americani. Un lavoro perverso.» disse Naldini a proposito della preparazione dell’abstract dalla sceneggiatura di Salò e le 120 giornate di Sodoma da sottoporre agli americani senza spaventarli. Grimaldi all’epoca cercava un fotografo di scena per il film di Pasolini che fosse discreto, fuori dai giri romani, che non facesse trapelare nemmeno un’immagine prima dell’uscita del film. Naldini suggerì una giovane fotografa inglese, del tutto estranea ai giri romani, discretissima oltreché brava e sensibile. Fu così che Deborah Imogen Beer divenne l’unica fotografa ufficiale dell’ultimo tormentato lavoro di Pasolini Salò e le 120 giornate di Sodoma. Tutte le immagini della Beer sono ora custodite in un fondo presso gli archivi di Cinemazero.

Nel mondo della celluloide Nico Naldini cedette anche, nel 1974, alla tentazione della regia con Fascista, documentario prodotto, ça va sans dire, da Alberto Grimaldi, che suscitò all’epoca non poche polemiche. “Naldini ha preso delle decisioni stilistiche direi ferree nel progettare il film. Niente retorica antifascista, niente facile ‘ridicolo’ sul fascismo, rappresentazione del fascismo attraverso materiale elaborato dai fascisti stessi, cioè attraverso la loro idea falsa e vera di sé. […] Materiali che si accumulano, e infine esplodono in una espressività abnorme e involontaria. È stato un terribile gioco, e il film di Naldini gioca con questo gioco. Per questo è un film bellissimo. Ma anche pericoloso, perché sono i destinatari in buona fede che accettano il gioco. Quelli in cattiva fede fanno il ‘loro’ gioco, cioè, come si sa, non sanno giocare. Il fascismo è un tetro comportamento coatto.” scrisse acutamente Pier Paolo Pasolini in “Il Messaggero” del 17 ottobre 1974.

Il documentario di Naldini, dopo decenni di oblio, nel 2021 è stato restaurato in 2K ed editato in dvd grazie alla Grimaldi Film, CG Entertainment e, naturalmente, Cinemazero.

Nico Naldini continuò a sfiorare il cinema anche nel suo ultimo trasferimento a Treviso, dove faceva il pendolare con Sidi Bou Said in Tunisia, e dove scrisse praticamente tutta la sua produzione letteraria. Fece da consulente nel 2014 per Abel Ferrara impegnato a girare Pasolini, un film che si interrogava sulla tragica fine del poeta, interpretato da Willem Dafoe. Mentre, a pochi mesi dalla morte, con la sua consueta verve, fece da voce narrante nel documentario In un futuro aprile. Il giovane Pasolini diretto da Francesco Costabile e Federico Savonitto, sugli anni difficili e incantati della giovinezza in Friuli. Impegni assolti per amicizia, come spesso gli accadeva. Una frase di La Rochefoucauld che sottoscriveva in pieno e che meglio lo ritrae dice che “Il più grande sforzo dell’amicizia non è quello di mostrare i nostri difetti a un amico, ma quello di fargli vedere i suoi.” Nico Naldini l’ha posta nel testo introduttivo del suo Alfabeto degli amici del 2004 come franca ma delicata dichiarazione d’amore verso il prossimo.