Arriva in sala mercoledì6
dicembre sotto il doppio segno della Tucker Film e della Teodora
FilmIl male non esiste (Evil Does Not Exist) di Hamaguchi
Ryusuke! Vincitore a Venezia del Leone d’Argento – Gran Premio della
Giuria e osannato dalla critica di tutto il mondo, IL MALE NON ESISTE (Evil
Does Not Exist) è il nuovo attesissimo film del regista premio Oscar per Drive
My Car.
Nel villaggio di Mizubiki, vicino
a Tokyo, un’azienda senza scrupoli vuole costruire un campeggio di lusso (glamping)
rischiando di rompere l’equilibrio ecologico del luogo. Tra gli abitanti che si
oppongono al progetto ci sono un padre single, Takumi, e sua figlia Hana,
custodi di una vita ancora in perfetta armonia con la natura. La loro
resistenza dovrà però affrontare una situazione inaspettata, che cambierà per
sempre il destino di tutti.
Anche grazie alle musiche
evocative di Ishibashi Eiko, Hamaguchi esplora con maestria un tema di grande
attualità, trasformandolo in un’appassionante parabola universale. Un’opera
potente e misteriosa, una riflessione spiazzante e acuminata sugli equilibri e
i disequilibri di cui si nutre il rapporto tra l’uomo e la natura. Da un
lato, dunque, il ritmo della terra, dell’aria, dell’acqua e delle foreste,
dall’altro, come in un gioco di specchi, il ritmo delle musiche di Eiko
Ishibashi, punto d’innesco del lavoro di Hamaguchi.
È la natura, con i suoi cicli e le
sue leggi, a disegnare la vita nel piccolo villaggio montano. Il tempo sembra
fermo, il passato e il presente sembrano separati soltanto da una linea di
confine sottile. La comunità di Mizubiki, di cui fanno parte Takumi e la figlia
Hana, sta bene così: dentro una quotidianità mite e modesta che ha ereditato
dalla generazione precedente e che tramanderà alla generazione successiva.
«Per me, prima di girare Il
male non esiste, la natura era rappresentata solo dai parchi urbani –
racconta Hamaguchi – e non andavo oltre. Appena ho cominciato a lavorare sul
progetto del film, però, ho avvertito immediatamente la sensazione che la
natura ci può guarire…».
Molto amato e conosciuto in Italia
per grandi titoli come Happy Hour, Il gioco del destino e della
fantasia e Drive My Car (Oscar 2022 per il miglior film
internazionale), tutti distribuiti dalla Tucker Film, Hamaguchi rappresenta
sicuramente il futuro del Nuovo Cinema Giapponese: un autore profondamente
legato alle proprie radici e, al tempo stesso, capace di affrontare temi
universali che sanno parlare davvero a tutti. Al di là delle appartenenze
culturali e geografiche.
Sfruttare la pausa natalizia per venire al cinema è ben più
di una tradizione, è quasi un obbligo, soprattutto considerato il ricco programma
che ci aspetta quest’anno sul grande schermo, anzi sui grandi schermi, di
Cinemazero.
Immancabile l’ultimo film di Woody Allen, cinquantunesima
opera di uno dei cineasti più prolifici del nostro tempo, che con Coup de
chance – Colpo di fortuna ritorna con (l’ennesima) variazione sul tema,
anzi sui temi, che hanno caratterizzato la sua filmografia: l’amore e il ruolo
del caso. Emblematica la scena iniziale del
film, un piano sequenza che coglie il primo incontro tra i due amanti Fanny e
Alain, lei impiegata in una casa d’aste, lui scrittore, che si incontrano,
appunto per caso, in una strada di Parigi dopo essersi conosciuti anni prima in
un liceo di New York. C’è un senso preciso dietro questa scelta tecnica –
quella del piano sequenza – che, grazie anche alla maestria di Vittorio Storaro
storico direttore della fotografia di Allen, spinge immediatamente lo
spettatore a riflettere sulla “casualità” (chi di noi non ha avuto almeno una
volta nella vita un incontro casuale che ha cambiato la giornata?) e ad
immedesimarsi nello stato d’animo della protagonista il cui obiettivo sarà
capire da che parte sta andando la sua vita. Il senso del film ci viene dunque
svelato subito e lo svolgimento, costruito sul contrasto tra il caso e la
premeditazione, trova incarnazione nei due uomini che si incrociano nella vita
di Fanny. Da una parte Alain, artista senza radici innamorato dell’incertezza,
dall’altra Jean, il marito di Fanny, ricchissimo consulente finanziario, uomo
possessivo e abitudinario, convinto al contrario che il caso non esista e la
fortuna di un uomo vada costruita e manipolata. Presa in mezzo tra i due
uomini, la donna – che incarna in qualche modo entrambe le posizioni essendo un
ex animo ribelle convertitasi a una vita di agi e sicurezza – rappresenta il
vertice debole di questo triangolo amoroso. Come decidere da che parte stare? Se
è il caso a far nascere il dubbio, sarà anch’esso a dirimerlo? Basterà seguire l’amore
o servirà anche un colpo di fortuna? Pochi autori hanno l’abilità di Allen nel
raccontare come gli scherzi del caso possano intervenire nei rapporti di
coppia, anche con esiti drammatici, senza tuttavia sconfinare nella tragedia
più cupa, ma mantenendo sempre uno sguardo ironico, beffardo e quasi
canzonatorio nei confronti degli sforzi dei suoi personaggi che si affannano a
controllare un destino del quale pensano essere artefici, ma che in realtà sfugge
loro continuamente di mano
Chi di fortuna ne ha avuta ben poca è stato di certo Enzo
Ferrari protagonista di Ferrari, film che riporta dietro la macchina da
presa il maestro Michael Mann, autore, tra gli altri di film cult come Heat
– La sfida (il primo film a vedere insieme Roberto De Niro e Al Pacino come
protagonisti) e Insider – Dietro la verità che ricevette ben 7
candidature agli Oscar. Per inquadrare al meglio Ferrari conviene, come
spesso accade con i film stranieri, partire dal titolo originale “Enzo
Ferrari: The Man and The Machine” per capire meglio il senso di
un’operazione che non è un semplice biopic e che rifugge, l’opzione, forse
assai più semplice, di raccontare il mito di Ferrari per concentrarsi sull’uomo
e sulle macchine, passione e ragion d’essere di un’intera vita. Un ritratto che
mescola motori meccanici e sentimentali con continui passaggi tra i tormenti e
le contraddizioni dell’uomo e quelle dell’imprenditore, disposto a tutto pur di
salvare la sua azienda e il suo sogno. Per raccontarlo Mann fa una precisa
scelta di campo, quella di focalizzarsi su un periodo molto breve seppure
ricchissimo di eventi, della vita di Ferrari, l’estate del 1957. Un momento
chiave per l’azienda e la vita familiare del patron delle rosse, in cui è stato
costretto a giocarsi tutto, sia a livello professionale che personale, andando
incontro, rigorosamente alla massima velocità, ad un rischio imponderabile, nel
quale si giocherà il tutto per tutto.
Il film di Mann seppur non esente da difetti (su tutti la
scelta di far parlare Penelope Cruz in italiano, che risulta davvero
straniante, almeno all’inizio) è però un esempio di grande cinema. Dedicato a
Sydney Pollack, che avrebbe dovuto essere uno dei produttori, la maniacalità
impressionante con cui il regista ricostruisce soprattutto le parti legate alle
corse – e gli inevitabili incidenti – è solo il più evidente dei tanti indizi
dell’importanza che questo lavoro rappresenta per l’autore che ha dichiarato
come questo film costituisca uno dei progetti più importanti della sua vita. In
effetti Mann ci lavora da oltre 20 anni, probabilmente anche molto di più. Il
risultato, da un punto di vista tecnico, è impressionante e si traduce anche a
livello narrativo perché, grazie all’attenzione ai dettagli lo spettatore si
immerge alla perfezione in un mondo antico (quello dell’Italia provinciale di
quegli anni) non solo grazie alle riprese d’ambiente ma anche al sapiente uso
dei primi piani dove i volti sono come ingranditi, occupano l’inquadratura
facendo risaltare le emozioni degli attori che sembrano avvolgere tutto ciò che
li circonda.
Attesissimo è anche l’ultimo – in questo caso non solo in
senso cronologico ma anche nel senso che sarà il film che chiuderà
definitivamente la sua carriera – lavoro del maestro dell’animazione giapponese
Hayao Miyazaki, Il ragazzo e l’airone, che arriva a dieci anni di
distanza da quello che già a suo tempo era già stato annunciato come il suo
film di congedo dalla scene (Si Alza il Vento).
In quest’opera che ha avuto una genesi molto difficoltosa sia
per la sua natura di film d’animazione tradizionale, sia per l’età del cineasta
che per le conseguenze della Pandemia che ne hanno rallentato la realizzazione,
Miyazaki nasconde dietro l’apparente semplicità di una storia fantastica (quella
del giovane Mahito, un ragazzino orfano di madre che improvvisamente comincia
ad essere seguito da uno strano airone, che gli promette di ricongiungerlo con
la madre) una profonda riflessione sui grandi temi della vita: la maternità,
l’ambientalismo e i legami tra persone. Il suo obiettivo è quello di ricordarci
come l’unico efficace antidoto al male sia l’altruismo, che dobbiamo abituarci
a praticare verso un “altro” che non è sempre riconoscibile. Molti sono gli
elementi di continuità con la filmografia precedente, sia a livello concettuale
che visivo. Fino alla fine Miyazaki ci tiene a sottolineare come il “male”
assoluto non esista. Anche in questo come in tutti i suoi lavori precedenti le
azioni malvagie e loro conseguenze non sono frutto della volontà deliberata di
danneggiare qualcuno quanto piuttosto di azioni affrontate o con eccessiva
leggerezza o senza gli strumenti adeguati di valutazione. Lo stesso vale per
l’invito che il Maestro ci fa – attraverso le vicissitudini del protagonista –
a vivere sempre la vita come un viaggio da percorrere senza rimpianti e
pregiudizi ma imparando ad accettare l’aiuto di una guida se necessario
(l’airone in questo caso, che guida Mahito nel viaggio di scoperta). Dal punto
di vista visivo l’autore, anche se sembra impossibile, si supera, mescolando
autocitazioni da opere precedenti con trovate geniali ed una maestria nel
disegnare, e ancora prima immaginare, nuovi personaggi, nuove specie, nuovi
ambienti e nuove idee frutto di una creatività che sembra non avere limiti.
Chiudiamo questa carrellata di anticipazioni con quello che,
innegabilmente, è il nostro film di Natale, Foglie al vento di Aki
Kaurismaki cui già abbiano fatto cenno in precedenti articoli. Essenziale è
forse l’aggettivo che meglio sintetizza un’opera che ha la capacità –
tutt’altro che banale – di raggiungere nella maniera più diretta possibile il
cuore delle emozioni, dei protagonisti e dello spettatore.
Kaurismaki è essenziale prima di tutto nella messa in scena:
qualsiasi cosa voglia far dire, o far fare ai suoi personaggi, non ci sono giri
di parole, si va dritti al punto, facendo risparmiare tempo e spesso creando
anche un inconfondibile effetto comico che è una delle grandi chiavi del film.
Essenziale è il contesto del mondo in cui si muovono i personaggi: i costumi,
le scenografie passando per i movimenti sia di macchina che degli stessi attori
che fanno esclusivamente ciò che è necessario fare. Essenziale è l’esistenza
dei due protagonisti che si barcamenano, da soli, in una vita piena di
preoccupazioni, tra misere condizioni di lavoro e pochissimi svaghi (nel loro
paese il massimo del divertimento è andare a bere al bar o cantare al karaoke).
Ma essenziale non significa semplice, perché in questo apparente minimalismo si
cela un mondo di emozioni che, scena dopo scena, ci scaldano il cuore e ci
spingono a tifare per un lieto fine che sappiamo potrà avvenire solo se le
essenzialità dei due protagonisti riusciranno ad incontrarsi. A proposito il film dura solo 81 minuti. E in
un’epoca di film lunghi, come abbiamo spiegato nel precedente editoriale,
quella di Kaurismaki è una piacevole ma soprattutto istruttiva eccezione. Il suo
film, che andrebbe mostrato nelle scuole di sceneggiatura, è la dimostrazione
che con idee chiare ed originali si può fare un film eccellente capace di
essere universale e godibile per tutti.
“Custodi” di Marco Rossitti arriva a Cinemazero giovedì 14 dicembre alle 20:45, in collaborazione con il Club Alpino Italiano di Pordenone. Intervengono in sala il regista, anche docente di cinema all’Università di Udine, il direttore della fotografia Luciano Gaudenzio, Daniela Pizzarotti (suono in presa diretta) e alcuni protagonisti del film. Presentato al 71° Trento Film Festival, il documentario ha ricevuto il Premio Dolomiti Patrimonio Mondiale della Fondazione Dolomiti UNESCO e della SAT Società degli Alpinisti Tridentini, al miglior film sulla consapevolezza delle comunità rispetto agli eccezionali valori universali riconosciuti dalle Nazioni Unite e la capacità di una conservazione attiva del territorio. Dalla Val Resia all’Appennino di Reggio Emilia, passando per le lagune di pesca e i Magredi friulani, l’autore traccia brevi ritratti che sottolineano l’importanza del prendersi cura del territorio, il valore di tradizioni rivitalizzate nel rispetto di un patrimonio collettivo, della memoria, del delicato equilibrio fra uomo e natura.
Così Rossitti descrive la sua opera: «I luoghi appartengono a chi li abita, ovvero a chi ne ha cura e li sente essenziali alla propria identità. In latino habitare significa “avere abitualmente”. Nulla a che fare con la proprietà o il possesso: è costruire, difendere, custodire. I veri custodi non esibiscono il loro operato. Li riconosci per la profonda padronanza del territorio nel quale vivono e lavorano, acquisita dapprima attraverso la lezione dei padri, poi con l’osservazione attenta, la dedizione, la fatica: una consapevolezza dei luoghi intagliata nel volto e nelle mani, riflessa nella voce e nello sguardo, scolpita nella memoria e nell’anima. Negli anni, incontrando in diverse regioni del Nord Italia Cecilia, Bepo, Egidio, Miriam, Mauro, Konrad, Erika, Gianfranco, Tobia, Xiaolei, Roberto, Matteo, Massimo, ho capito che si può essere custodi sotto le spinte e per le motivazioni più diverse: per istinto, elezione, passione, tradizione, lungimiranza, destino, vocazione, scelta…».
Con
l’arrivo di dicembre fioriscono, come sempre, classifiche sui migliori film
dell’anno, bilanci sull’annata cinematografica, riflessioni sull’andamento del
cinema al cinema e via discorrendo. Non possiamo quindi sottrarci dal fare
anche noi una piccola riflessione su cosa resterà, a futura memoria, dei tanti
film italiani usciti in questo travagliato 2023.
A
nostro avviso tre sono i titoli che hanno segnato l’annata cinematografica: Io
capitano di Matteo Garrone, Il sol dell’avvenire di
Nanni Moretti e C’è
ancora domani di Paola Cortellesi; tutti film
portatori di un forte messaggio civile, politico, sociale, anche se ognuno
declinato secondo la particolare sensibilità dell’autore. Matteo
Garrone ha affrontato il tema dell’immigrazione dall’Africa in Io capitano con la sua particolare capacità di
guardare ben oltre il proprio ombelico, di indagare mondi
che non sono i suoi, ma a cui dà voce in chiave poetica, per lanciare
contemporaneamente una sfida su alcune cose che crediamo di conoscere, come i
folli viaggi a piedi nel Sahara o i campi di tortura gestiti dalla mafia
libica. Un viaggio, quello di Io capitano, come ricerca
dell’emancipazione e non semplice fuga per la sopravvivenza. Ma più che la
migrazione, la materia sulla quale sembra indagare magistralmente Garrone è il
percorso di maturazione del giovane Seydou, che nella scena finale esplode,
dopo aver provato tutte le emozioni del mondo, in una precoce presa di
coscienza, una raggiunta maturità. Il film può considerarsi una sorta di rilettura contemporanea dell’Odissea che si rispecchia nel
sogno dei migranti di “realizzarsi” altrove, quell’altrove davanti il quale
Garrone si ferma, senza sbarcare in Italia. Dopo il Leone d’Argento a Venezia Io
capitano di Matteo Garrone è stato indicato dall’Italia a comporre la shortlist
dei papabili per concorrere all’Oscar 2024 come miglior film straniero. Sono
quindici, infatti, i titoli internazionali all’interno dei quali verrà
selezionata, il 24 gennaio 2024, la cinquina finale per la corsa all’Oscar la
cui cerimonia è prevista a Los Angeles il 12 marzo 2024.
L’altro
film che rimarrà a futura memoria di questa annata è il surreale, incredibile,
ammirevole ma anche affettuosamente insopportabile Il
sol dell’avvenire dello splendido settantenne Nanni Moretti che
confeziona un melting pot del proprio immaginario
filmico/esistenziale: dalle canzoni in macchina, alle coreografie da musical in
strada, allo sguardo a tratti “allucinato” del protagonista. Dentro un pesante
passato (Guerra Fredda, Comunismo, rivolta del ’56 in Ungheria), si affianca un
confuso presente (rapporto matrimoniale in crisi, nuovi registi, piattaforme
streaming), che sfocia in un onirico futuro che può avere solo la dimensione di
un sogno. Un importante film che è una riflessione, senza sconti sul tempo
andato, sull’invecchiare e sulla difficoltà di rapportarsi di fronte al mondo
che cambia troppo in fretta. Tre film in uno per quest’opera politica, ironica
e sentimentale, una sorta di matrioska
cinematografica fatta di autocitazioni; quasi un film testamento sulla morte,
nelle sue diverse declinazioni: della politica, dell’amore, della morale
e del cinema stesso. Ma alla fine arriva il
sol dell’avvenire seppur in forma onirica.
Il terzo film di questo 2023 è, senza ombra di dubbio, C’è ancora domani di Paola Cortellesi, un fenomeno dagli aspetti che travalicano il cinema stesso per addentrarsi nel mondo della violenza sulle donne, nel patriarcato. Nel film della Cortellesi il discorso sulla donna è evidente dalla prima scena che si apre con uno schiaffo alla protagonista come violenza domestica di routine, perpetrato come atto dovuto. Un film apprezzabile nello scuotere lo spettatore di fronte a una problematica come la violenza domestica, purtroppo, ancora di scottante attualità, narrata nel film attraverso svariati cambi di tono che servono a stemperare qualcosa che gli occhi non vorrebbero vedere e le orecchie non vorrebbero sentire. Non, quindi, un roboante grido di protesta, ma una poetica astrazione della violenza che in un caso si trasforma in uno struggente tango a sostituire le botte inferte e ricevute. Astrazione che scuote ancora di più lo spettatore. Nel film le donne, complessivamente, sono molto più solide degli uomini, in particolare dell’ottuso marito della protagonista, che si vergogna di essere povero e giustifica la propria rabbia affermando: «Ho fatto due guerre». Il film è sostanzialmente un monito forte ed orgoglioso contro la violenza domestica perpetrata sulle donne cui farà da contraltare quell’apertura che nel 1946 permise a tutte le donne di poter esprimere il proprio pensiero politico e sociale. Alcune date possono in qualche modo chiarire cronologicamente il susseguirsi degli enormi cambiamenti avvenuti in un Paese tutto da rifare: il 19 luglio 1943 avviene il primo bombardamento su Roma occupata dai nazisti con 3.000 morti; il 4 giugno 1944 le truppe americane entrano a Roma che diviene “città aperta”; il 2 giugno 1946 il primo suffragio universale che segna la nascita della Repubblica con le donne al voto per la prima volta (82% l’affluenza alle urne). La continuità fra passato e presente nella pellicola della Cortellesi è suggerita dalla scelta di accompagnare con brani musicali moderni alcuni snodi narrativi, dando una connotazione pop nuova e, a suo modo, originale, dove tutto è detto, spiegato, mostrato, in un percorso, tutto sommato, di profonda prevedibilità, seppure permeato da brevi lampi di ironia. Un film perfetto per ogni tipo di pubblico, come afferma la critica più sofisticata, con uno svolgimento confezionato così bene da lasciare ammirati: piace al critico come alla zia Pina. È cinema popolare, di cui si sentiva, però, estremo bisogno dopo quasi tre anni di sofferenza delle sale per la pandemia. C’è ancora domani è un intelligente film che parte dal passato per lanciare un messaggio di speranza sul futuro, prendendo spunto dalla condizione femminile raccontata con passione e amarezza. Come in ogni film che si rispetti c’è la realtà ma ci sono anche i sogni. Come a dire che c’è ancora un domani.
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