Il muro sopra Berlino
Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …
sentieri di cinema!
Di Andrea Crozzoli
«Ich bin ein Berliner.» disse John F. Kennedy il 26 giugno 1963 parlando a cinquecentomila persone davanti al Rathaus Schöneberg di Berlino ovest per manifestare tutta la sua solidarietà ai berlinesi.
Devo confessare che anch’io mi sento, modestamente, in qualche modo un po’ berlinese avendo trascorso dal 1982 al 2022 otto/dieci giorni, ogni febbraio, per seguire la Berlinale, ovvero il festival del cinema. In totale oltre 365 giorni, ospite di carissimi amici in Apostel Paulus Straße, proprio nel quartiere di Schöneberg, a pochi metri da dove aveva parlato Kennedy nel 1963.
Per tutti gli anni ’80 ho frequentato una Berlino fortificata da un muro lungo oltre 150 chilometri, un’ambigua sfavillante isola chiusa nel cuore della Germania Est. Una città senza periferia e senza possibilità di scampo, incuneata in mezzo a quella Germania rimasta nel dopo guerra sotto l’influenza russa assieme a tutto l’est europeo: Polonia, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia etc.
Quell’isola, amministrata dalle potenze occidentali, e quel muro vennero eletti a simbolo della divisione del mondo in due blocchi “per intere generazioni” e come tutti i simboli Berlino Ovest doveva rappresentare un maniera evidente ai tedeschi dell’est, al di la del muro, la differenza che intercorreva fra loro e l’abbagliante magnificenza del capitalismo. In questa specie di bolla esistenziale, iper finanziata in ogni suo aspetto, Berlino Ovest non poteva permettersi nemmeno di spopolarsi, per cui i giovani che decidevano di andarci a vivere erano esonerati dal servizio militare e potevano godere di lauti contributi pubblici per avviare ogni tipo di iniziativa. Tutto doveva funzionare alla perfezione, persino l’illuminazione pubblica, per intensità e potenza, doveva ricordare, a chi era rimasto al di la del muro, l’abbagliante glamour della ricchezza capitalista. Era una città/vetrina, con la Berlinale affidata allo svizzero Moritz de Hadlen, abile uomo di cinema ed esperto organizzatore, che dal 1982 fece velocemente crescere un festival dal taglio culturale interessante, con un forte legame col cinema hollywoodiano, una giusta dose di autoriale divismo, un mare di film da ogni parte del globo e un copioso catalogo. L’unico vero grande festival cittadino in Europa, con la partecipazione di decine di migliaia di spettatori paganti alle proiezioni che si annidavano anche in piccole, ma accoglienti, sale, come quella nei pressi della Walther Schreiber Platz che ti accoglieva sempre con un caffè caldo dopo una camminata al gelo del febbraio degli anni ’80.
Il centro del Festival era allora allo Zoo Palast, tre schermi con oltre 1.300 posti, allocato all’inizio della Kurfürstendamm, elegante strada sulla quale si affacciavano boutique, alberghi di lusso, grandi magazzini, gioiellerie e cinema. Il cuore pulsante della Berlino Ovest di allora che doveva, oltre che abbagliare con le rutilanti luci, infondere cultura che non fosse solo sfacciatamente capitalista o di parte ma, nella sua articolazione, doveva dare spazio anche ai dissidenti e alle minoranze, per marcare la differenza con quello che succedeva al di là del muro.
Sul fronte cinema il festival ha riservato da sempre un occhio di riguardo all’Italia, già dagli anni ’70 quando Pier Paolo Pasolini vinse l’Orso d’Argento nel 1971 per Decameron e l’Orso d’Oro nel 1972 per I racconti di Canterbury. Nel 1985 nella giuria internazionale trovava posto anche un autorevole Alberto Sordi reduce da Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli, premiato sempre a Berlino nel 1982. Ma il centro della scena il cinema italiano lo conquistò nel 1986 con Federico Fellini che inaugurò fuori concorso il festival con Ginger e Fred e con Nanni Moretti e Liliana Cavani in concorso rispettivamente con La messa è finita (Orso d’Argento) e Interno berlinese pesantemente criticato da stampa e pubblico e, dulcis in fundo, con Gina Lollobrigida presidente della giuria.
Indimenticabile poi, sempre allo Zoo Palast nel 1987, la proiezione, in anteprima europea assoluta e in nuovo avvolgente dolby surround, di Platoon di Oliver Stone premiato poi con l’Orso d’Oro per la regia.
Si avvicinava, intanto, quel fatidico 1989 e la caduta del muro, ma i prodromi si erano già manifestati diverso tempo prima con l’URSS che attraversava una fase di riforme e grandi cambiamenti fra cui un minor controllo sui Paesi del Patto di Varsavia. Venute meno le rigide imposizioni dell’URSS, gli apparati governativi della Germania Est nel 1988 e 1989 non reagirono duramente alle proteste interne ma accettarono passivamente la situazione. Già nel nevoso febbraio del 1989, l’anno dell’Orso d’Oro a Rain Man di Barry Levinson, passando vicino alla Porta di Brandeburgo, nel settore ovest, si sentivano nitidamente dei colpi di martello, erano i mauerspechte, ossia i “picchi del muro”, dotati di martelli e scalpelli. Fra i molti mauerspechte ricordo un giovane con martello e scalpello che stava riempendo lo zaino di pezzetti del muro di cemento armato per portarli in Canada, dai suoi amici, come trofei. Gli chiesi in prestito gli attrezzi e recuperai anch’io il mio pezzetto di muro berlinese. In sostanza nessuno fermava, di qua e di là, la lenta erosione del muro, il simbolo della cortina di ferro, del mondo diviso in due blocchi. Un muro che avrebbe nel tempo generato tristemente altri muri. Alcuni mesi dopo, esattamente il 18 ottobre 1989 Erich Honecker, storico leader della DDR, a seguito di proteste popolari, rassegnava le dimissioni. Si arrivava così a quel fatidico 9 novembre 1989 quando poco prima delle 19, alla conferenza stampa in diretta televisiva, il portavoce del governo della DDR, Guenter Schabowski, affermò che in pratica, si sarebbe potuto attraversare il Muro. «Da quando?» gli chiese il corrispondente italiano dell’ANSA. «Da subito!» rispose imprudentemente Schabowski. Questo annuncio televisivo spinse subito decine di migliaia di berlinesi dell’est verso i varchi del muro che separavano la città. I Vopos, colti di sorpresa da un afflusso così massiccio, alzarono le sbarre permettendo a tutti il passaggio senza controlli. Per tutta la notte il flusso di tedeschi dell’est venne accolto dagli applausi di tanti concittadini dell’ovest. L’implosione del regime divenne realtà. Il crollo del muro, senza scontri violenti, cambiò completamente, da quel momento, l’assetto dell’Europa. Quel 9 novembre del 1989 il vero crollo fu anche quello della volontà della dirigenza della DDR di tenere imprigionato tutto un popolo. Infatti il Muro, aldilà del tratto più televisivamente conosciuto, ossia quello davanti alla Porta di Brandeburgo, non fu demolito né quel giorno né nelle settimane successive ma un po’ alla volta fino alla fine del ’91. Ma l’iconografia scolpita nelle menti rimane quella dei ragazzi che si arrampicano sul Muro tirandosi su a vicenda. In tre giorni, due milioni di persone passarono il confine sancendo la fine di un mondo. Berlino così andava assumendo un nuovo volto, una nuova dimensione. Nel febbraio 1990 a poco più di tre mesi dalla caduta del muro, all’uscita delle proiezioni allo Zoo Palast, si potevano incontrare i tedeschi dell’ex est con in testa il colbacco d’ordinanza e il naso incollato sulle vetrine di gioielli e orologi lungo l’elegante Kurfürstendamm.
Nel febbraio 1991 intanto la sede principale del festival veniva spostata dallo storico Zoo Palast alla Haus der Kulturen der Welt, struttura costruita dagli americani negli anni ’50 all’interno del Tiergarten, il più famoso ed esteso parco berlinese. Quell’anno vinse l’Orso d’Oro Marco Ferreri con La casa del sorriso un caustico film sulle vicende amorose in un ospizio. Berlino inoltre, per il suo forte valore simbolico, è stata da sempre protagonista di un’ampia produzione cinematografica e la Berlinale confezionò, a pochi anni dalla caduta del muro, un ciclo di film dedicato alla città e al muro. Nella prestigiosa sala del Delphi FilmPalast assistemmo ad una proiezione, gremita fino all’inverosimile, di Totò e Peppino divisi a Berlino esilarante film del 1962 di Giorgio Bianchi con irresistibili duetti fra Totò e Peppino De Filippo travolti e divisi dalla costruzione del muro durante la loro trasferta tedesca. Nel frattempo a Berlino iniziarono poderosi e lunghi lavori per ricostruire un’unità fra le varie parti della città. Alla Potsdamer Platz, sulle ceneri del terreno lasciato libero dal muro, venne realizzato il nuovo fulcro centrale della città con la costruzione di strade, gallerie di negozi, teatri e svariati cinema multisala. Dalla caduta del muro si registrò contemporaneamente un progressivo impoverimento della popolazione dell’est; già nel febbraio del 1991 si vedevano non poche persone che vendevano per strada le poche cose di cui erano in possesso per recuperare qualche soldo: scarpe, suppellettili e oggetti diversi venivano esposti sulle panchine lungo i viali. I lavoratori delle poste situate nelle zone est percepivano salari inferiori ai loro omologhi dell’ovest.
Si attraversò in seguito a Berlino anche lunghi periodi in cui era impossibile trovare un’auto di seconda mano in quanto il mercato era stato completamente assorbito dalla richiesta dell’ex est per sostituire le ormai obsolete Trabant con l’usato occidentale. A questa crisi si aggiunse anche uno scadere drastico di tutti i servizi sociali prima garantiti. Sul fronte cinema, intanto, nel 1994 l’Orso d’Oro alla carriera venne assegnato ad una splendida Sophia Loren, vestita da Armani, con proiezione de La ciociara di Vittorio De Sica, mentre Bernardo Bertolucci presentò Piccolo Buddha fuori concorso. Ma è con l’anno 2000 che la Berlinale si trasferì finalmente nella nuova Potsdamer Platz disegnata da Renzo Piano e nel Theater am Potsdamer Platz con i suoi 1.754 posti ed assunse l’aspetto attuale di vero e proprio festival internazionale adulto e compiuto. Ormai i segni della divisione fra est ed ovest erano diventati sempre più labili, anche un certo razzismo che serpeggiava nei confronti degli abitanti dell’est sembrava svanito. Il decennio degli anni 2000 si aprì con l’Orso d’Oro a Magnolia di Paul Thomas Anderson interpretato da Tom Cruise e seguì con importanti film premiati con l’Orso come nel 2004 La sposa turca di Fatih Akin o nel 2006 Il segreto di Esma di Jasmila Žbanić sui devastanti traumi del conflitto nei Balcani. Lo stesso anno si vide sugli schermi del festival anche Bye Bye Berlusconi! di Jan Henrik Stahlberg, un film tedesco di satira sulla politica italiana che terminò, non appena si accesero le luci in sala, con l’ingresso della milanese Banda degli Ottoni a Scoppio che suonava l’Internazionale e tutto il pubblico emozionato si alzò in piedi e li accolse con un lungo e convinto applauso, manifestando quella certa Ostalgie (nostalgia dell’est) che serpeggiava da tempo in molti strati della società berlinese. È del 2003, infatti, il film culto sulla caduta del muro, quel Goodbye Lenin! di Wolfgang Becker sugli stravolgimenti sociali e urbani che seguirono al crollo. Film premiato alla Berlinale di quell’anno che è divenuto uno dei più grandi successi nella storia del cinema tedesco. Un film che rende più radicalmente conto dei cambiamenti, facendo emergere anche un certo ambiguo rimpianto per un mondo ormai definitivamente perduto. A distanza di 34 anni dalla caduta del muro, rimasto in piedi del resto per soli 27 anni, l’impressione che si ha è quella che i berlinesi, in tutta questa complessa storia, abbiano forse maturato la convinzione di aver “gettato il bambino assieme all’acqua sporca”!