Il nostro primo bilancio sociale

di Marco Fortunato

Qualità, eccellenza, etica, innovazione e sostenibilità: sono alcuni dei concetti chiave attorno a cui si sviluppano, da sempre, le attività di Cinemazero e che da oggi trovano una nuova declinazione, quella del bilancio sociale.

Uno strumento che nasce con l’obiettivo di restituire, oltre i numeri del rendiconto finanziario, l’impatto culturale e sociale dell’attività di un ente, e dunque appare ideale per tradurre in parametri oggettivi una delle priorità dell’Associazione, quella di creare un rapporto con il territorio e la comunità di riferimento. Per questo, pur non formalmente obbligato, il Consiglio Direttivo ha fortemente voluto la redazione di questo documento, rivelatosi già alla sua prima stesura particolarmente corposo. Oltre 60 pagine, che, accanto agli indici numerici, come i dati degli spettatori o delle scuole coinvolte, rappresenta un’opportunità unica per sottolineare gli aspetti qualitativi delle attività, valorizzandone e misurandone l’impatto sul tessuto sociale. Anche da un punto di vista strategico, dunque, un’opportunità per veicolare al meglio ed in maniera completa il valore delle tante iniziative realizzate da Cinemazero, dagli incontri con gli autori alle attività didattiche, dai festival e rassegne alle mostre fotografiche passando per il recupero e la digitalizzazione di preziosi materiali d’archivio messi a disposizione della collettività.

Il risultato è stato quello di una ricca fotografia della vastità e complessità dell’attività di Cinemazero che risulta strettamente legata alla sua comunità, come testimoniano le molte collaborazioni, ma anche aperta a sinergie di respiro nazionale ed internazionale, con progetti ed iniziative in grado di raggiungere centinaia di migliaia di persone che a loro volta sono in grado di generare un considerevole indotto, sia diretto che indiretto. Un accento particolare merita il tema della sostenibilità ambientale, che vede da sempre l’associazione all’avanguardia, come testimoniano le tante azioni concrete messe in campo in questi anni e arricchite, proprio ora, dalla notizia di un finanziamento per gli interventi di efficientamento energetico dell’Aula Magna.

La prima edizione è stata presentata pochi giorni fa nel corso dell’annuale assemblea soci e ha rappresentato un’occasione per avviare un confronto sulle prospettive e il futuro partendo dalla consapevolezza della capacità di Cinemazero, in oltre quarant’anni di vita, di crescere e mutare, di adattarsi ai tempi e modi di una società in evoluzione, ma senza mai perdere il riferimento alle origini, alle motivazioni che hanno portato alla sua fondazione: la passione per il cinema, della sala come esperienza unica, sociale e basata su una visione eccellente, confermando il ruolo di Cinemazero come imprescindibile riferimento, non solo per la città ma per il territorio, un valore aggiunto da difendere, in un contesto di grande crisi per il cinema.

Il documento completo si può trovare qui https://cinemazero.it/chi-siamo/bilancio-sociale/

Romanzo Popolare – l’arte della Commedia

di Lorenzo Codelli

Vogliamo i colonnelli andò male: la distribuzione dell’Italnoleggio lo sabotò, lo fece smontare, insomma fece di tutto perché sparisse rapidamente dalla circolazione. Dopo aver conosciuto Tognazzi nell’episodio di Alta fedeltà mi ero trovato con lui in grande sintonia ed avevo visto che era un attore molto fine. Tognazzi nella vita normale ha una sua rozzezza, ma quando si mette a recitare la perde completamente e diventa attentissimo, pieno di dubbi e di reticenze: bisogna spingerlo perché faccia ridere. Venendo dal varietà e dagli sketch che faceva con Vianello, evidentemente lui un po’ si vergogna di questa origine; così non vorrebbe mai far ridere. È un bravissimo e fine attore.

Con Age e Scarpelli avemmo l’incarico dalla Fida Film di scrivere un film per Manfredi con il quale non avevo mai lavorato, e ci mettemmo a scrivere Romanzo popolare per lui. La storia di un operaio a Roma che sposava una ragazza molto più giovane di lui, poi la ragazza s’innamorava di un questurino. Manfredi lesse la sceneggiatura e disse: «Non mi piace, è un film vecchio, un personaggio che non m’interessa, bisognerebbe cambiarlo…» lo dissi: «No. Se lo vuoi fare lo facciamo così, e sennò te lo fai da te». Lui era anche regista, aveva fatto già Per grazia ricevuta.

Così ci separammo. Fu una fortuna: perché se l’avesse fatto lui sarebbe stato il solito film «romano». Lo raccontammo invece a Tognazzi e a lui piacque molto; soltanto che non poteva essere un personaggio romano. Allora riscrivemmo tutta la sceneggiatura per farlo diventare milanese o padano. Quindi venne fuori questo straordinario lavoratore milanese con un linguaggio mutuato dai sindacati, con una cultura un po’ accattata, e che si crede evoluto in rapporto alla ragazza venuta dal Sud e trattata come una bestiolina selvaggia. Poi c’era il rapporto con il questurino, anche lui venuto dal Sud. Una descrizione dell’ambiente della fabbrica e della catena di montaggio, che in Italia non era ancora stata fatta. Se non in maniera molto fasulla da quel gruppo che faceva film attraverso i canali del Partito Comunista: mostravano sempre degli operai cupi con la bicicletta in mano, il cui prototipo era Girotti. Operai che s’innamoravano dell’operaia che era stata messa incinta dal padrone.

Con Romanzo popolare ebbi molte soddisfazioni, perché in tutti i dibattiti che si fecero sul film, a Milano, a Torino, i partecipanti dicevano sempre: «Finalmente nel cinema italiano si vede un operaio com’è veramente, con dei lati anche divertenti, con una cordialità: degli operai che fanno l’amore, che litigano, che hanno anche i loro problemi da risolvere sul piano sindacale».

Le sfide di Hazanavicius

di Andrea Crozzoli

«Predire è un’arte difficile, soprattutto quando parliamo del futuro!» risponde sorridendo così Michel Hazanavicius a chi gli chiede di vaticinare sulla crisi della sala cinematografica. Regista cult della nuova generazione, di origini lituane ma nato e cresciuto a Parigi, è a Gorizia per ritirare il premio Amidei 2022 all’opera d’autore e per seguire l’omaggio che la manifestazione gli ha riservato. Fattosi conoscere in Francia con le due parodie sull’agente segreto più famoso del mondo: OSS 117: Le Caire, nid d’espions (2006) e OSS 117: Rio ne répond plus (2009), Michel Hazanavicius è esploso a livello mondiale con i cinque Oscar vinti con The Artist (2011), sentito omaggio al cinema muto che, oltre ai premi ottenuti dai due attori, ha ricevuto tra gli altri il premio per il miglior film ai Golden Globes 2012, il premio come miglior regista ai BAFTA 2012 e il premio come miglior film e regia ai César 2012. Proporre un film in bianco e nero, muto è stato un atto d’amore verso il cinema ma anche un azzardo produttivo che rischiava di essere un flop. Girato negli Stati Uniti in sei settimane The Artist ha goduto di una pioggia di Oscar e un successo internazionale che hanno cambiato la vita al regista. Cambiamento  che Hazanavicius, in maniera ironica e distaccata ma estremamente lucida, sintetizza così: «Vincere l’Oscar radicalizza il tuo rapporto con il pubblico e la critica. Chi ti stimava poi ti adora. Chi non ti stimava poi ti odia!». Ma Michel Hazanavicius ama osare, spiazzare, percorrere sentieri non convenzionali. Anomala figura nel panorama autoriale d’oltralpe, la sua smodata cinefilia lo ha portato a ripercorrere il cinema attraverso remake, rivisitazioni, rielaborazioni dei diversi generi cinematografici: dallo spionaggio, con il già citato agente OSS117, al cinema muto e ora all’horror. Ad ottobre, infatti, vedremo sugli schermi italiani il suo nuovo film Coupez (Final Cut) che ha inaugurato a maggio il 75mo Festival di Cannes. Fedele remake di Zombie contro zombieOne Cut of the Dead di Shinichirou Ueda, il film di Hazanavicius è uno scatenato divertissement che ricorda a tratti la frenesia dello stile slapstick già peraltro omaggiato in Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo (It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World) del 1963 di Stanley Kramer. Va ricordato che Zombie contro zombieOne Cut of the Dead di Shinichirou Ueda venne presentato in anteprima, nel 2018, all’udinese Far East Film Festival, riscuotendo un incredibile successo. Non un film sull’horror, quello di Hazanavicius, ma un atto d’amore nei confronti del fare cinema, il racconto di un film sul film, la celebrazione di tutto quel sottobosco del cinema horror di serie B costretto a condividere spazi e tempi per un obiettivo comune. Un mondo capace di far emergere punte di genialità e solidarietà dove c’era solo incomprensione. «Il punto di contatto fra film e pubblico sono gli attori – ha dichiarato a Gorizia Hazanavicius – puoi fare il più bel film ma se gli attori non sono all’altezza il messaggio non passa al pubblico!». Non è un caso quindi la scelta di Romain Duris, eccellente attore di culto in Francia (nella sua vasta filmografia troviamo anche Tutti i battiti del mio cuore) nel ruolo portante del frenetico e convulso regista che in Coupez (Final Cut) deve girare questo horror in maniera “veloce, economica e dignitosa”. Duris riesce alternativamente a essere aggressivo e titubante, vittima degli eventi e artefice dl proprio destino, ottimo interprete e pessimo attore, in definitiva quasi un avatar dello stesso Hazanavicius che, comme d’habitude, utilizza anche la moglie Bérénice Bejo. Ma non basta, trova qui spazio anche per sua figlia Simone (nel film è la figlia di Romain Duris). Al centro di tutto c’è però l’amore e la passione per il cinema, sapientemente stemperate in una risata liberatoria davanti a quest’opera che si pone tra il buono e il buonissimo. Qui siamo più vicini al secondo a nostro modesto avviso. Ma Michel Hazanavicius ama le sfide, lo spiazzamento, le sorprese e a Gorizia ha annunciato il suo prossimo lavoro: «Sono una persona molto regolare. Lavoro ogni giorno dalle 10.00 alle 18.00. Scrivo sempre ascoltando musica. La musica è importante. Leggo molto, mi documento. Ora sto preparando un film di animazione sulla shoah. Vedremo!» conclude sorridendo.

La cinepresa non è una bomba molotov

di Riccardo Costantini

È stato ritrovato un documentario importantissimo, praticamente inedito, con Damiano Damiani (ricorre il centenario della nascita del regista originario di Pasiano di Pordenone) e con protagonisti anche Bernardo Bertolucci e Cesare Zavattini. “La cinepresa non è una bomba Molotov”, del fotografo, regista e giornalista tedesco Gideon Bachmann, considerato perduto dopo un solo passaggio televisivo a fine anni ’70 in Germania, torna al pubblico, proprio nell’anno dell’anniversario di Damiani, che fa da narratore e demiurgo del film.

Il documentario pone domande attualissime: il cinema può essere politicamente utile? Può causare sconvolgimento sociale? Il film è davvero una tale forza di cambiamento come si è sempre creduto, o può solo introdurre nuove abitudini, nuove mode, nuove ossessioni? A dare il titolo, “La cinepresa non è una bomba Molotov”, è una frase pronunciata nel film da Bernardo Bertolucci.

Il documentario verrà presentato a Bologna, presso l’Auditorium DAMSLab, lunedì 27 giugno alle 14:45, nell’ambito della XXXVI edizione del festival “Il cinema ritrovato”. L’introduzione è affidata a Riccardo Costantini, responsabile archivi di Cinemazero e coordinatore del festival Pordenone Docs Fest: il documentario infatti è stato restaurato dall’associazione culturale pordenonese presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata, a partire da una copia 16mm conservata dalla Cineteca del Friuli.

Protagonista, in un insolito mockumentary, è Damiano Damiani, regista, scenografo e sceneggiatore originario di Pasiano di Pordenone, scomparso a Roma nel 2013, che ha diretto, tra l’altro “Il giorno della civetta” (1968) e alcuni episodi del celebre sceneggiato televisivo sulla mafia “La piovra” (1984-95). Bachmann, per garantirsi la fiducia della produzione tedesca committente, aveva promesso di realizzare un film sulla vita del regista italiano ma durante le riprese scoprì che «Damiani era molto più interessato a lavorare con noi a un film sul cinema di strada che a essere oggetto di un normale lavoro biografico». Così è nato un grande documentario politico, fatto, prosegue l’autore «con la speranza che la politica potesse motivare i giovani e che i film potessero essere veicolo di tale motivazione. Io ero allora, come molti post-sessantotto, convinto che l’educazione e la coscienza fossero le strade future del miglioramento sociale. Io credevo ancora che il cinema fosse uno strumento di rivoluzione».

Oggi, a 44 anni di distanza, immersi in una crisi forse ancor più profonda di allora, rivedere quel documentario e ascoltare le riflessioni di grandi cineasti dell’epoca, può fornire nuovi spunti per interpretare il ruolo del cinema nella società. Per Bachmann, «ciò che i film politici possono fare per noi è darci la sensazione di non essere soli là fuori nella tempesta. Che qualcuno condivida le nostre opinioni. Il cinema può fornire solidarietà».

A seguire, dopo “La camera non è una bomba molotov”, verrà presentato “Il Carso”, cortometraggio di Franco Giraldi ritrovato e restaurato da Cinemazero, Pordenone Docs Fest e Fondazione Cineteca di Bologna, dalla copia d’epoca 35mm di Videa. Il film, prodotto nel 1960 dalla Documento Film e girato durante le vacanze di Natale del 1959 sul Carso triestino era stato dato per perduto, fino al ritrovamento da parte di Lorenzo Codelli di una copia conservata in ottimo stato negli archivi della Cineteca di Bologna. Il regista, attore, scrittore e sceneggiatore sloveno Franco Giraldi, all’epoca ex giornalista cinematografico emigrato a Roma e attivo come assistente alla regia, firmava un personalissimo, dolceamaro affresco ‘western’ sulla propria terra d’origine. Giuseppe Pinori – in seguito direttore della fotografia per Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana, i fratelli Taviani – immortalava tramite immagini indelebili il duro lavoro quotidiano dei pescatori e dei contadini di Santa Croce / Sveti Križ. Un villaggio in rapido spopolamento, schiacciato tra il confine con la Jugoslavia di Tito e le pendici a strapiombo sul Golfo di Trieste. È del critico triestino Callisto Cosulich, anche lui emigrato nella capitale, il lirico commento fuori campo.

«In questo documentario, ma anche magnificamente nei suoi film di fiction, il Carso è un vero protagonista: non posso non ricordare lo splendido “Un anno di scuola”, film che ho amato molto e che ho visto nascere, – è il commento di Claudio Magris – Il Carso, per me e per Giraldi, diventa personaggio indissolubile dalla storia di quell’epoca: un territorio aspro, slataperiano, in contrasto con la “vecchia Europa” della città, dove i ragazzi si danno “del lei”. Vedendo questo documentario, non posso non ricordare il magnifico Carso che appare in un film che ritengo un autentico capolavoro di Giraldi, “La frontiera”. Un film bellissimo, forse il suo più bello».