Il Padrino, cinquant’anni dopo: un’offerta che non si può (ancora) rifiutare
di Paolo A. D’Andrea
La prima parola che salta in mente, riflettendo a cinquant’anni di distanza sul Padrino di Francis Ford Coppola, è congiuntura. Non a caso, un termine che ha un preciso significato economico (si pensi al tedesco Konjunktur) ma è correntemente utilizzato nelle discipline storiche – oltreché, più prosaicamente, come sinonimo di una fortunata coincidenza di eventi. Il capolavoro del regista italo-americano riassume in sé, perfettamente, questa polisemia. Perché, innanzitutto, The Godfather è stata una smaccata, furbissima operazione di marketing, messa in campo perdipiù in un periodo di vacche magrissime per l’industria cinematografica statunitense (42,8% il tasso di disoccupazione, al 1970, tra le manovalanze del settore; 100 milioni di dollari il passivo accumulato dalle produzioni nei primi sei mesi di quello stesso anno). Genio di Robert Evans, discusso production chief della Paramount all’epoca, nell’intuire il potenziale insito nelle bozze confuse di Mario Puzo e nel giocare la carta del film-evento, del colosso destinato – per contenuti e cast – a spaccare (e dunque sedurre) l’opinione pubblica. In secondo luogo Il padrino è l’esito di una lunga serie di rinunce e ripensamenti: voleva dirigerlo e interpretarlo Burt Lancaster, Sergio Leone gli preferì il sogno di C’era una volta in America, rifiutarono Arthur Penn, Peter Bogdanovich, Richard Brooks, Otto Preminger…Toccò a un trentenne, nemmeno troppo convinto e con una serie di insuccessi al botteghino e debiti mica da ridere (citofonare alla Warner) sulle spalle, prendere in mano il progetto e portarlo all’immortalità. Pare sia stato il vice di Evans, Peter Bart, a spingere per Coppola: rendiamogliene merito.
Una volta uscito, Il padrino segna il maggior incasso della storia del cinema. Lo supererà tre anni più tardi Lo squalo di Steven Spielberg. Il successo nelle sale spiega, tuttavia, solo una piccola parte dell’impatto della pellicola: un’opera destinata a sedimentare nell’immaginario collettivo, a modificare non soltanto la percezione collettiva del fenomeno-Mafia, ma a riscrivere anche i termini della rappresentazione che la mafia stessa offre di sé: è possibile pensare a una figura come quella di John Gotti, star criminale degli anni Settanta e Ottanta, senza la mediatizzazione intervenuta nel frattempo grazie (anche) al film di Coppola?
Ma The Godfather è questo e altro. È grande cinema tragico, nel senso prima aristotelico e poi shakespeariano del termine; è, secondo l’intenzione del regista, grande allegoria della “sostituzione” dell’economia del dono (la Famiglia mafiosa e la sua etica, incarnata nel “vecchio” Vito Corleone) con il capitalismo predatorio (la voracità macbethiana di potere di Michael), immagine dell’America nel suo passaggio da Frontiera a Strada ferrata, da spazio anomico a nomos del più forte. È, infine, il ritorno in pompa magna di un’idea retorica, ejzenštejniana, di montaggio (il celeberrimo sintagma parallelo che riunisce la sacralità del battesimo con la ferinità dell’omicidio seriale), il trionfo dell’ossimoro apparente autorialità-intrattenimento.
Tanti, tantissimi gli elementi di cui discutere assieme al secondo appuntamento del Maestro al Microscopio (mercoledì 2 marzo, ore 17:30), la serie di incontri dedicata all’analisi approfondita di pietre miliari della storia del cinema. Nell’atmosfera unica della sala cinematografica, a cinquant’anni di distanza, Il padrino non si conferma soltanto come un film da vedere e rivedere – banalità –, ma quale inestimabile oggetto di studio che ci costringe, per densità, a spaziare dal filmico al sociologico, dall’analisi dell’evoluzione industriale del sistema-Hollywood alla ponderazione sui mutamenti degli immaginari e dei costumi.