La rassegna video-cinematografica autunnale, ogni giovedì dal 9 al 30 novembre, propone quattro incontri che hanno l’obiettivo di rappresentare tante diverse facce della Montagna: dalle grandi pareti di roccia al mondo nascosto nel buio degli abissi, a quello della fotografia naturalistica – e d’inchiesta – che questi grandi scenari ha il privilegio e la capacità di catturare.
Protagonisti del primo incontro, il 9 novembre, saranno Roberto Valenti, alpinista accademico del Club Alpino Italiano, ambientalista e fotografo naturalista, ed Ervin Skalamera, da sempre appassionato della natura e fotografo dall’età di 20 anni. Con le loro multivisioni faranno immergere gli spettatori nei silenzi della Patagonia immensa e li porteranno a fare sci alpinismo nel Nord della California, attraverso la Sierra ed i vulcani Mount Shasta e Lassen Peak. Per concludere questo viaggio con il video “Global Warming”, il racconto di come comunità umane sempre più energivore abbiano accelerato il cambiamento, alterando l’equilibrio energetico del pianeta. Il nostro “optimum climatico”, a cui ci eravamo egoisticamente affezionati, si sta sgretolando e noi uomini “non dobbiamo restare a guardare”.
Il 16 novembre appuntamento con Silvia Petroni, pisana, alpinista, laureata in fisica e scrittrice. Ha pubblicato il libro “Il vuoto tra gli atomi” che ha partecipato alla 25ª edizione del “Premio Italo Calvino”. Singolare il suo percorso di vita, che l’ha portata dalla ricerca universitaria all’attività alpinistica, che pratica attualmente in ambienti e su terreni diversi, e alla narrativa. Lo racconterà attraverso alcune proiezioni che spazieranno dall’Arco Alpino – con prime ripetizioni femminili da capocordata e prime e seconde ripetizioni assolute nelle Alpi Orientali – alle Alpi Apuane. Per concludere questo viaggio con un filmato sulla goulotte di misto da lei aperta il 22 febbraio 2020 – ovvero subito prima dell’esplosione della pandemia e del conseguente lockdown – che ha chiamato “Spillover Gully”.
Nell’incontro del 23 novembre, gli spettatori potranno scendere nel mondo ipogeo con Roberto Tronconi che presenterà il film “Corchia, la montagna vuota”, documentario di grandissima fattura, frutto di un lungo e meticoloso lavoro di ricostruzione storica. Attraverso i racconti di alcuni dei protagonisti dell’impresa si rivivono le tappe fondamentali dell’esplorazione dell’Antro del Corchia, sistema che ad oggi è uno dei maggiori complessi carsici in Italia ed Europa. Il narrato è accompagnato dalle ottime riprese girate ad hoc, per ripercorrere le gesta degli esploratori dell’epoca, arricchito da foto e documenti originali.
Il 30 novembre, una serata speciale dedicata alle Dolomiti Patrimonio Mondiale UNESCO. Protagonisti Ivo Pecile, Marco Virgilio e due dei loro documentari che raccontano per immagini le caratteristiche paesaggistiche e geologiche dei Parchi dolomitici. Le splendide immagini, realizzate grazie a lunghe sessioni di lavoro in ambiente, riescono a cogliere la natura meravigliosa di queste fantastiche montagne. Le interviste ai gestori dei Parchi, agli esperti naturalisti e agli studiosi di geologia dell’area dolomitica, completano il viaggio immersivo nel Patrimonio Mondiale raccontandone le peculiarità e le sfumature meno note.
Per info
Torna a Pordenone, dal 3 novembre al 20 dicembre, la rassegna di cinema e cultura “Gli occhi dell’Africa“, giunta alla XVII edizione, promossa da Cinemazero e Caritas, con il Centro culturale Casa dello Studente, il Centro Missionario Diocesano e altre realtà associative del territorio. Quest’anno, in collaborazione con Pordenone Docs Fest, la manifestazione cambia pelle e punta sul cinema documentario, per accendere i riflettori su alcune questioni chiave, come il cambiamento climatico, le sfide politiche ed economiche che attraversano il continente. Ambiente, economia, democrazia sono le parole chiave di questa edizione, che riparte dai problemi per affrontarli e analizzarli in una nuova luce. Sono questioni che rendono la vita sempre più difficile in alcuni luoghi e influenzano anche il rapporto degli Stati africani con il nostro Nord del mondo.
Ad aprire la rassegna, venerdì 3 novembre alle 20:45 a Cinemazero, sarà l’anteprima nazionale di un film pluripremiato – miglior documentario al Tribeca Film Festival: Between the Rains di Andrew H. Brown e Moses Thuranira: la storia personale di Kole, un ragazzo del Kenya, alle prese con continue gravi siccità e il rischio di conflitti tra popolazioni vicine, per contendersi i pascoli. Interviene Anna Pozzi, giornalista e scrittrice, redattrice del mensile “Mondo e missione”, è tra gli autori del Rapporto Immigrazione Caritas Migrantes 2023. Collabora con diverse testate per le quali ha realizzato reportage dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. È specializzata in migrazioni, tratta di persone e nuove schiavitù, temi sui quali ha pubblicato vari volumi.
Il secondo film in programma, il 10 novembre alle 20:45, è dedicato al sogno di Bobi Wine, cantante afrobeat amatissimo nel suo Paese, di portare la democrazia in Uganda dopo anni di dittatura. Bobi Wine, The People’s Presidentdi Moses Bwayo e Christopher Sharp racconta la campagna elettorale, densa di passione, di un uomo che non ha paura di sfidare le forze dell’ordine per dare voce a chi non ce l’ha. Interviene Fabrizio Lava, fotografo professionista e cooperante.
Lava è anche l’autore di una delle due mostre fotografiche che verranno inaugurate in occasione della rassegna il 10 novembre alle 18:00: “Il cuore del Congo. Viaggio attraverso i volti dell’Africa”, nello “Spazio Foto” del Centro culturale Casa dello Studente di Pordenone. Nei “Nuovi Spazi”, invece, sarà allestita l’esposizione “Sguardi Plurali”, con le fotografie dei vincitori nazionali del bando di Camera Fotografia, FIERI e Società Umanitaria di Carbonia: 19 autori di origini straniere, provenienti da tutta Italia, alcuni giunti da pochi anni, altri nati qui. Sarà presente Oleksandra Horobets, una degli autori, giovane fotografa di origine ucraina, nata nel 1997, iscritta presso l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino.
Il terzo appuntamento cinematografico, venerdì 17 novembre alle 20:45 a Cinemazero è con Xaraasi Xanne (Crossing Voices) di Bouba Touré e Raphaël Grisey: la storia di un’utopia che riemerge dagli anni Settanta: il rivoluzionario ritorno a casa, in Mali, di un gruppo di operai emigrati a Parigi, per fondare una cooperativa agricola e coltivare un sogno. Interviene Pietro Cingolani, ricercatore in Antropologia Culturale all’Università di Bologna, esperto di processi migratori, transnazionalismo, etnografia urbana, relazioni inter-etniche, relazioni tra mobilità e segregazione sociale. Il suo ultimo libro è “Etnografia delle migrazioni” (Carocci, 2023).
Venerdì 24 novembre alle 20:45 è in programma un’altra anteprima nazionale: “Money, Freedom, a Story of the CFA Franc”, della giornalista afro senegalese di Katy Léna Ndiaye. L’autrice ricostruisce la storia di una moneta, il franco CFA, un’eredità coloniale bizzarra e comoda per Parigi e l’Unione europea. Nell’occasione verrà presentato il Calendario Cuamm 2024 di Medici con l’Africa.
La rassegna comprende, come da tradizione, anche alcuni incontri all’Università della Terza Età di Pordenone, intitolati “Scoprendo l’Africa”. Martedì 7 novembre, alle 15:30, nell’auditorium della Casa dello Studente, il noto giornalista Giuseppe Ragogna parlerà della Repubblica Centrafricana e dei progetti Cuamm Medici con l’Africa in questo Paese. Al Marocco al femminile sarà dedicato l’incontro di martedì 28 novembre, sempre alle 15:30. Inoltre, per i bambini della scuola primaria, è in programma alla Casa dello Studente, sabato 4, 11 e 18 novembre, un laboratorio per costruire dei coloratissimi braccialetti con disegni e motivi africani, realizzati con la cartapesta, a cura dell’artista Ilaria Bas.
Non mancherà un concerto d’eccezione: sabato 25 novembre sul palcoscenico del Teatro Zancanaro di Sacile si esibirà la regina dell’Afro Groove Manou Gallo, nell’ambito de “Il volo del jazz”. Cantante, bassista, percussionista e band leader della Costa d’Avorio, Manou Gallo è considerata fra i dieci migliori bassisti al mondo, un’artista in grado di unire il funk e il groove alle eredità africane.
La rassegna “Gli occhi dell’Africa” viene realizzata grazie al sostegno della Regione FVG, del Comune di Pordenone – Assessorato alla Cultura e di Nuovi Vicini Società Cooperativa Sociale, con la partecipazione di Circolo Controtempo – Il Volo del Jazz.
«Ich bin ein Berliner.» disse
John F. Kennedy il 26 giugno 1963 parlando a cinquecentomila persone davanti al
Rathaus Schöneberg di Berlino ovest per manifestare tutta la sua solidarietà ai
berlinesi.
Devo confessare che anch’io mi sento, modestamente, in qualche
modo un po’ berlinese avendo trascorso dal 1982 al 2022 otto/dieci giorni, ogni
febbraio, per seguire la Berlinale, ovvero il festival del cinema. In totale
oltre 365 giorni, ospite di carissimi amici in Apostel Paulus
Straße, proprio nel quartiere di Schöneberg, a pochi metri da dove aveva
parlato Kennedy nel 1963.
Per tutti gli anni ’80 ho frequentato una Berlino fortificata da
un muro lungo oltre 150 chilometri, un’ambigua sfavillante isola chiusa nel
cuore della Germania Est. Una città senza periferia e senza possibilità di
scampo, incuneata in mezzo a quella Germania rimasta nel dopo guerra sotto
l’influenza russa assieme a tutto l’est europeo: Polonia, Romania, Ungheria,
Cecoslovacchia etc.
Quell’isola, amministrata dalle potenze occidentali, e quel muro vennero
eletti a simbolo della divisione del mondo in due blocchi “per intere
generazioni” e come tutti i simboli Berlino Ovest doveva rappresentare un maniera evidente ai
tedeschi dell’est, al di la del muro, la differenza che intercorreva fra loro e
l’abbagliante magnificenza del capitalismo. In questa specie di bolla
esistenziale, iper finanziata in ogni suo aspetto, Berlino Ovest non poteva
permettersi nemmeno di spopolarsi, per cui i giovani che decidevano di andarci
a vivere erano esonerati dal servizio militare e potevano godere di lauti
contributi pubblici per avviare ogni tipo di iniziativa. Tutto doveva
funzionare alla perfezione, persino l’illuminazione pubblica, per intensità e
potenza, doveva ricordare, a chi era rimasto al di la del muro, l’abbagliante
glamour della ricchezza capitalista. Era una città/vetrina, con la Berlinale
affidata allo svizzero Moritz de Hadlen, abile uomo di cinema ed esperto
organizzatore, che dal 1982 fece velocemente crescere un festival dal taglio
culturale interessante, con un forte legame col cinema hollywoodiano, una
giusta dose di autoriale divismo, un mare di film da ogni parte del globo e un
copioso catalogo. L’unico vero grande
festival cittadino in Europa, con la partecipazione di decine di migliaia di
spettatori paganti alle proiezioni che si annidavano anche in piccole, ma
accoglienti, sale, come quella nei pressi della Walther Schreiber Platz che ti
accoglieva sempre con un caffè caldo dopo una camminata al gelo del febbraio
degli anni ’80.
Il centro del Festival era allora allo Zoo Palast, tre
schermi con oltre 1.300 posti, allocato all’inizio della Kurfürstendamm,
elegante strada sulla quale si affacciavano boutique, alberghi di
lusso, grandi magazzini, gioiellerie e cinema. Il cuore pulsante della Berlino
Ovest di allora che doveva, oltre che abbagliare con le rutilanti luci,
infondere cultura che non fosse solo sfacciatamente capitalista o di parte ma,
nella sua articolazione, doveva dare spazio anche ai dissidenti e alle
minoranze, per marcare la differenza con quello che succedeva al di là del
muro.
Sul fronte cinema il festival ha riservato da sempre un occhio di
riguardo all’Italia, già dagli anni ’70 quando Pier Paolo Pasolini vinse l’Orso
d’Argento nel 1971 per Decameron e l’Orso d’Oro nel 1972 per I
racconti di Canterbury. Nel 1985 nella giuria internazionale trovava posto
anche un autorevole Alberto Sordi reduce da Il Marchese del Grillo di
Mario Monicelli, premiato sempre a Berlino nel 1982. Ma il centro della scena
il cinema italiano lo conquistò nel 1986 con Federico Fellini che inaugurò
fuori concorso il festival con Ginger e Fred e con Nanni Moretti e
Liliana Cavani in concorso rispettivamente con La messa è finita (Orso
d’Argento) e Interno berlinese pesantemente criticato da stampa e
pubblico e, dulcis in fundo, con Gina Lollobrigida presidente
della giuria.
Indimenticabile poi, sempre allo Zoo Palast nel 1987, la
proiezione, in anteprima europea assoluta e in nuovo avvolgente dolby surround,
di Platoon di Oliver Stone premiato poi con l’Orso d’Oro per la regia.
Si avvicinava, intanto, quel fatidico 1989 e la caduta del muro,
ma i prodromi si erano già manifestati diverso tempo prima con l’URSS che
attraversava una fase di riforme e grandi cambiamenti fra cui un minor
controllo sui Paesi del Patto di Varsavia. Venute meno le rigide imposizioni
dell’URSS, gli apparati governativi della Germania Est nel 1988 e 1989 non reagirono duramente alle
proteste interne ma accettarono passivamente la situazione. Già nel nevoso
febbraio del 1989, l’anno dell’Orso d’Oro a Rain Man di Barry Levinson,
passando vicino alla Porta di Brandeburgo, nel settore ovest, si sentivano
nitidamente dei colpi di martello, erano i mauerspechte, ossia i “picchi
del
muro”, dotati di martelli e scalpelli.
Fra i molti mauerspechte ricordo un giovane con martello e scalpello che
stava riempendo lo zaino di pezzetti del muro di cemento armato per
portarli in Canada, dai suoi amici, come trofei. Gli chiesi in prestito gli
attrezzi e recuperai anch’io il mio pezzetto di muro berlinese. In sostanza nessuno fermava, di qua e di là,
la lenta erosione del muro, il simbolo
della cortina di ferro, del mondo diviso in due blocchi. Un muro che avrebbe
nel tempo generato tristemente altri muri. Alcuni mesi dopo, esattamente il 18
ottobre 1989 Erich Honecker, storico leader della DDR, a seguito di proteste
popolari, rassegnava le dimissioni. Si arrivava così
a quel fatidico 9 novembre 1989 quando poco prima delle 19, alla
conferenza stampa in diretta televisiva, il portavoce del governo della DDR,
Guenter Schabowski, affermò che in pratica, si sarebbe potuto attraversare il
Muro. «Da quando?» gli chiese il corrispondente italiano dell’ANSA. «Da
subito!» rispose imprudentemente Schabowski. Questo annuncio televisivo spinse
subito decine di migliaia di berlinesi dell’est verso i varchi del muro che
separavano la città. I Vopos, colti di sorpresa da un afflusso così massiccio,
alzarono le sbarre permettendo a tutti il passaggio senza controlli. Per tutta
la notte il flusso di tedeschi dell’est venne accolto dagli applausi di tanti
concittadini dell’ovest. L’implosione del regime
divenne realtà. Il crollo del muro, senza scontri violenti, cambiò
completamente, da quel momento, l’assetto dell’Europa. Quel 9 novembre del 1989
il vero crollo fu anche quello della volontà della dirigenza della DDR di
tenere imprigionato tutto un popolo. Infatti il Muro, aldilà del tratto più
televisivamente conosciuto, ossia quello davanti alla Porta di Brandeburgo, non
fu demolito né quel giorno né nelle settimane successive ma un po’ alla volta
fino alla fine del ’91. Ma l’iconografia scolpita nelle menti rimane quella dei
ragazzi che si arrampicano sul Muro tirandosi su a vicenda. In tre giorni, due
milioni di persone passarono il confine sancendo la fine di un mondo. Berlino
così andava assumendo un nuovo volto, una nuova dimensione. Nel febbraio 1990 a
poco più di tre mesi dalla caduta del muro, all’uscita delle proiezioni allo Zoo
Palast, si potevano incontrare i tedeschi dell’ex est con in testa il
colbacco d’ordinanza e il naso incollato sulle vetrine di gioielli e orologi
lungo l’elegante Kurfürstendamm.
Nel febbraio 1991 intanto la sede principale del festival veniva spostata dallo storico Zoo
Palast alla Haus der Kulturen der Welt, struttura costruita dagli
americani negli anni ’50 all’interno del Tiergarten, il più famoso ed esteso
parco berlinese. Quell’anno vinse l’Orso d’Oro Marco Ferreri con La casa del sorriso un caustico film sulle vicende amorose in un
ospizio. Berlino inoltre, per il suo forte valore simbolico, è stata da sempre
protagonista di un’ampia produzione cinematografica e la Berlinale confezionò,
a pochi anni dalla caduta del muro, un ciclo di film dedicato alla città e al
muro. Nella prestigiosa sala del Delphi FilmPalast assistemmo ad una
proiezione, gremita fino all’inverosimile, di Totò e Peppino divisi a Berlino
esilarante film del 1962 di Giorgio Bianchi con irresistibili duetti fra Totò e
Peppino De Filippo travolti e divisi dalla costruzione del muro durante la loro
trasferta tedesca. Nel frattempo a Berlino iniziarono poderosi e lunghi lavori per
ricostruire un’unità fra le varie parti della città. Alla Potsdamer Platz,
sulle ceneri del terreno lasciato libero dal muro, venne realizzato il nuovo fulcro centrale della
città con la costruzione di strade, gallerie di negozi, teatri e svariati
cinema multisala. Dalla caduta del muro si registrò
contemporaneamente un progressivo impoverimento della
popolazione dell’est; già nel febbraio del 1991 si vedevano non poche persone
che vendevano per strada le poche cose di cui erano in possesso per recuperare
qualche soldo: scarpe, suppellettili e oggetti diversi venivano esposti sulle
panchine lungo i viali. I lavoratori delle poste situate nelle zone est
percepivano salari inferiori ai loro omologhi dell’ovest.
Si attraversò in seguito a Berlino anche lunghi periodi in cui era
impossibile trovare un’auto di seconda mano in quanto il mercato era stato
completamente assorbito dalla richiesta dell’ex est per sostituire le ormai
obsolete Trabant con l’usato occidentale. A questa crisi si aggiunse anche uno
scadere drastico di tutti i servizi sociali prima garantiti. Sul fronte cinema, intanto, nel 1994
l’Orso d’Oro alla carriera venne assegnato ad una splendida Sophia Loren,
vestita da Armani, con proiezione de La ciociara di Vittorio De Sica,
mentre Bernardo Bertolucci presentò Piccolo Buddha fuori concorso. Ma è
con l’anno 2000 che la Berlinale si trasferì finalmente nella nuova Potsdamer
Platz disegnata da Renzo Piano e nel Theater am Potsdamer Platz
con i suoi 1.754 posti ed assunse l’aspetto attuale di vero e proprio festival
internazionale adulto e compiuto. Ormai i segni della divisione fra est ed
ovest erano diventati sempre più labili, anche un certo razzismo che
serpeggiava nei confronti degli abitanti dell’est sembrava svanito. Il decennio
degli anni 2000 si aprì con l’Orso d’Oro
a Magnolia di Paul Thomas Anderson interpretato da Tom Cruise e seguì con
importanti film premiati con l’Orso come nel 2004 La sposa turca di
Fatih Akin o nel 2006 Il segreto
di Esma di Jasmila Žbanić sui
devastanti traumi del conflitto nei Balcani. Lo stesso anno si vide sugli
schermi del festival anche Bye
Bye Berlusconi! di Jan Henrik
Stahlberg, un film tedesco di satira sulla politica italiana che terminò, non
appena si accesero le luci in sala, con l’ingresso della milanese Banda
degli Ottoni a Scoppio che suonava l’Internazionale e tutto il
pubblico emozionato si alzò in piedi e li accolse con un lungo e convinto
applauso, manifestando quella certa Ostalgie (nostalgia dell’est)
che serpeggiava da tempo in molti strati della società berlinese. È del 2003,
infatti, il film culto sulla caduta del muro, quel Goodbye
Lenin! di Wolfgang Becker sugli stravolgimenti sociali e urbani che
seguirono al crollo. Film premiato alla Berlinale di quell’anno che è divenuto
uno dei più grandi successi nella storia del cinema tedesco. Un film che rende
più radicalmente conto dei cambiamenti, facendo emergere anche un certo ambiguo
rimpianto per un mondo ormai definitivamente perduto. A distanza di 34 anni
dalla caduta del muro, rimasto in piedi del resto per soli 27 anni,
l’impressione che si ha è quella che i berlinesi, in tutta questa complessa
storia, abbiano forse maturato la convinzione di aver “gettato il bambino
assieme all’acqua sporca”!
In questi giorni a Cinemazero
sono in programmazione, tra gli altri, l’ultima fatica di Martin Scorsese Killers
of the flower moon (tre ore e 26 minuti) e la Palma d’Oro, Anatomia di
una caduta di Justine Triet (due ore e trentasei minuti), che seguono di
poche settimane l’applauditissimo Oppenheimer di Christopher Nolan (tre
ore). Tre opere accomunate dal minutaggio importante che hanno riaperto il
dibattito, peraltro ciclico, sulla lunghezza dei film.
In generale l’impressione è che
negli ultimi anni quest’ultima sia aumentata notevolmente. Non solo quella dei
grandi film d’autore ma anche quelli delle opere più popolari, in particolare
le commedie, che fino a pochi anni fa di solito si aggiravano sui 90 minuti. Precisiamolo
subito a scanso di equivoci: di film lunghi è ricca la storia del cinema, ciò
che in questa sede ci interessa è analizzare il mercato nel suo insieme per
capire se possa essere individuata o meno una tendenza e quali possano esserne le
motivazioni. Ma partiamo dai dati.
Un interessante articolo apparso
sull’Economist pochi giorni fa ha analizzato oltre 100 mila film dagli anni
Trenta, quando il sonoro ha stabilizzato la durata dei film, fino ai giorni
nostri, evidenziando come la durata media dei lungometraggi sia passata da
un’ora e 21 minuti del 1930 ad una di un’ora e 47 del 2022, con una crescita
del 24%. Proviamo ad analizzare quali possono essere le ragioni di questa
evoluzione.
Premesso che non si è trattato di
una crescita lineare, i numeri raccontano che la durata dei film tra gli anni
‘30 e ‘70 si aggirava in media sui 90 minuti. Una delle ragioni di questa
stabilità era da ricercare nella pressione coordinata di produttori ed
esercenti entrambi propensi a limitare la durata dei lungometraggi. Va
considerato che, nell’era della pellicola, la materia prima – ovvero la
celluloide – era una voce molto importante e costosa del budget, per cui fare
un film più corto significava utilizzarne di meno e dunque risparmiare. Anche gli esercenti dei cinema, per motivi
diversi ma pur sempre di natura economica, vedevano di cattivo occhio le opere
eccessivamente lunghe. Per essi, infatti, valeva l’equazione che tanto più il
film è breve, tanto maggiore è il numero di spettacoli che si possono programmare
e di conseguenza di biglietti che, potenzialmente, si possono staccare. E
dunque anche loro erano interessati ad una sorta di moral suasion per
contenere l’estro creativo degli autori.
Una svolta si ebbe con l’avvento
della televisione e il conseguente desiderio dell’arte cinematografica di
distinguersi da quella televisiva, anche – ma non solo – per la grandiosità del
racconto. Tra i primi anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta (con Lawrence
d’Arabia nel 1962 che sfondò la soglia delle tre e mezza quindi con Cleopatra,
l’anno successivo,la cui durata iniziale avrebbe dovuto essere di oltre
quattro ore per poi essere ridotta, fino a Il padrino nel 1972 con due
ore e 55 minuti passando per 2001 Odissea nello spazio con le sue due
ore e mezza) la durata media dei film inizio ad aumentare, anche in maniera
discontinua. Anche negli anni successivi non mancarono i kolossal del
minutaggio, come ad esempio Novecento di Bertolucci, anch’esso costretto
a dividere il film che, insieme, superava le cinque ore, o C’era una volta
in America di Sergio Leone (162 minuti), ma senza che ciò riuscisse a
determinare una tendenza stabile ed univoca.
La vera rivoluzione coincise con
l’avvento del digitale che abbatté drasticamente i costi di lavorazione. Quando
i dischi rigidi sostituirono la pellicola vennero meno le ragioni economiche
che i produttori avevano utilizzato per limitare la creatività degli autori.
Anzi la situazione quasi si ribaltò poiché, una volta messo in piedi il set (e
pagato il cachet di maestranze ed attori) era conveniente sfruttarli al massimo
e, nel dubbio, girare una scena in più – a set allestito – poteva essere una
buona idea.
In questi anni presero ad
affermarsi le saghe, o film a episodi, a partire da Il signore degli anelli i
cui eccezionali incassi dimostrarono che il pubblico non aveva nulla contro i
film lunghi e anzi, se la trama lo appassiona, considera la durata una virtù,
specie se la sceneggiatura è tratta da un romanzo, quasi che la lunghezza del
film fosse associata al riconoscimento ed al rispetto per il racconto
originale.
Sulla scorta di questo successo
la maggior parte dei film “ad episodi” dagli anni Duemila in poi hanno avuto
durate considerevoli. Due ore e ventitré minuti per I pirati dei Caraibi
nel 2001 (che fu un successo enorme); Harry Potter e la pietra filosofale
(il primo film, del 2002), due ore e trentadue; Guerre stellari episodio VI
nel 2005, due ore e venti. E poi ancora I pirati dei Caraibi – La
maledizione del forziere fantasma nel 2006, due ore e trenta; Avatar,
due ore e quarantadue; Il cavaliere oscuro, due ore trenta; addirittura
Martin Scorsese è arrivato a tre ore per The Wolf Of Wall Street e i
film di 007 con Daniel Craig sono tutti oltre le due ore venti.
In questi ultimi anni questa tendenza si è ulteriormente consolidata. Basti pensare alla saga degli Avengers (i cui capitoli sono quasi tutti tra le due ore e mezza e le tre) ma anche a film d’autore come Babylon, Avatar 2,The Irishman e al recentissimo Oppenheimer, oltre ai due film citati in apertura.
Le ragioni di questo
consolidamento potrebbero essere di due tipi ed in qualche modo rappresentare
un’evoluzione dei due motivi che hanno originato questo processo, entrambi a
loro volta evolutisi a seguito dell’ingresso sul mercato dei nuovi attori del
settore: le piattaforme di streaming. Da un lato infatti il loro ruolo, sempre
maggiore, come produttori ha fatto venire meno qualsiasi ostacolo di natura economica.
Queste realtà, spesso con grandi società di capitali alle spalle, hanno infatti
investito budget senza precedenti e spesso proprio questa disponibilità di
risorse – quasi assoluta – è stata utilizzata come leva per attrarre i grandi
autori contemporanei (pensiamo a Scorsese ma anche a Cuaron o altri cineasti
che hanno pubblicamente dichiarato di aver accettato l’offerta dei colossi
dello streaming perché essi garantivano loro totale libertà creativa e, a
differenza dei produttori tradizionali, non ponevano nessun vincolo di budget).
Dall’altra proprio l’affermazione di nuovi contenuti audiovisivi, come le serie
televisive rese popolari dalle piattaforme, ha cambiato i meccanismi di
narrazione, spingendo gli autori a un cambio di prospettiva nella costruzione
del film. Con un duplice effetto. Da una parte si registra una maggior
inclinazione ad approfondire i singoli personaggi del racconto, anche quelli secondari,
mutuando uno stratagemma tipico dei racconti seriali che, basandosi sugli
indici di ascolto delle singole puntate – o in questo caso della visione
dell’episodio della saga – in cui è più o meno presente un determinato personaggio
cercano di capire il suo appeal sul pubblico e di conseguenza adeguarne la
presenza, riducendone o aumentandone il minutaggio. In un film ciò significa
impostare su un personaggio un sequel. Dall’altra la tendenza è ad esaltare le
potenzialità visive e sonore del mezzo cinematografico lasciando spazio a dei
virtuosismi visivi e sonori, non sempre necessari al racconto, ma funzionali a
dare al pubblico l’impressione di assistere a qualcosa di unico e di non
replicabile in un’esperienza casalinga – pensiamo all’utilizzo di alcuni
effetti speciali o all’ampio uso di droni – quasi a voler esibire la grandezza
dell’operazione (e la capacità tecnica del suo autore) e giustificare che la
visione di quel film “meriti la sala”.
Ma davvero quello che vuole il
pubblico è solo vedere film più lunghi? Spesso l’impressione degli spettatori
va nella direzione opposta e non è raro ascoltare o leggere dei commenti a un
film che una maggiore sintesi avrebbe giovato all’efficacia della narrazione. A
questo proposito, a Natale, arriva sul grande schermo un film decisamente in
controtendenza: Fallen leaves di Aki Kaurismäki, un’emozionante commedia
sull’amore, essenziale e minimalista nella messa in scena, che dura solamente 81
minuti. Troppo poco per meritare la sala? Al pubblico l’ardua sentenza.
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