King Vidor 8 1/2
alla 70 Berlinale
di Lorenzo Codelli
«King Vidor non ha mai smesso di andare al cinema e Fellini era tra i registi che ammirava maggiormente. Vidor riteneva che gran parte dei film fossero autobiografici, e negli anni ’70 aveva concepito un progetto rimasto sulla carta e ispirato a 8 1/2 di Fellini: “A un certo punto della sua carriera a Hollywood un regista non vuole più realizzare film che non esprimano le proprie idee personali. Si sente responsabile nei confronti del pubblico e decide così di fermarsi. Alla ricerca della propria anima ritorna nella piccola città natia e il film si basa soprattutto su questa ricerca […] Lo girerò in gran parte nel mio ranch. Ranch e fattorie sono sempre state le mie location preferite“». Così racconta Kevin Brownlow – che ha frequentato a lungo il regista di Alleluia (1929) – nel bel catalogo King Vidor pubblicato in inglese e tedesco in occasione della retrospettiva della 70 Berlinale (1). In effetti, fino dai suoi primi film muti, come il pamphlet socialista The Other Half (1919) o il western evangelico The Sky Pilot (1921), Vidor afferma con estremo vigore le proprie idee, una valanga di idee. Nel 1920 dichiara: «Credo nel cinema che porta un messaggio all’umanità». Martin Scorsese intitola “Un sogno di progresso sociale” il suo saggio per il catalogo berlinese, ricordando che Duello al sole (1947) era stato il primo film che aveva visto da bambino: «Con un Technicolor febbrile, i primi piani, l’incessante moto dinamico dall’inizio alla fine». Scorsese si dichiara d’accordo con Raymond Durgnat, l’eminente storico inglese: vitalità, dinamismo, ritmo, ottimismo, stanno alla base dell’universo vidoriano. «King Vidor è infinitamente interessante e coinvolgente. Per me è una fonte continua d’ispirazione», conclude Scorsese. Se poi capita, come a Berlino, di vedere o rivedere una quarantina dei suoi classici, capolavori o opere dimenticate, perlopiù proiettati in pellicola a 35mm, si raggiunge l’estasi! Un solo esempio, Passaggio a Nord-Ovest (1940). L’epopea d’un plotone di ranger nordamericani, durante la guerra coloniale del 1759, in marcia forzata per sterminare la tribù degli Abnaki alleata con le truppe francesi. La brutalità fisica dell’azione è pari alla selvaggia bellezza dei boschi, dei fiumi, delle montagne. Abbaglianti i toni marrone, blu, verde, del Technicolor d’epoca. Spencer Tracy, capo dei guerriglieri, incarna – siamo nel 1939/40, e il film è tratto da un bestseller scritto due anni prima da Kenneth Roberts – un ibrido tra Hitler, Stalin e Roosevelt. Un uomo forte (dixit Morando Morandini), loquace quanto manesco. Vidor lo esalta e lo critica incessantemente. Gli espliciti, sanguinari atti di barbarie sferrati contro i pellirossa preannunciano certi film di denuncia sul genocidio dei primi americani che arriveranno una decina d’anni più tardi. Nell’amore/odio tra il bellicoso ranger del carismatico Tracy e il raffinato pittore laureato ad Harvard che l’accompagna per immortalarne le gesta (il pacifico attore Robert Young) si concentra la fertile duplicità di King Vidor, autore provocatorio e contemplativo, infuocato e lirico.
- A cura di Karin Herbst-Meßlinger e Rainer Rother, edizioni Bertz-Fischer/Stiftung Deutsche Kinemathek, 252 p., illustrazioni.