LE GIORNATE DEL CINEMA MUTO DAL 3 AL 10 OTTOBRE LA 39a LIMITED EDITION
Finale con Laurel & Hardy online e in replica domenica 11 ottobre al Teatro Verdi di Pordenone
Un
festival senza il suo pubblico non è un festival e se le centinaia
di cinefili provenienti da ogni parte del mondo che si danno
abitualmente appuntamento alle Giornate del Cinema Muto quest’anno
non possono raggiungere Pordenone a causa della pandemia, sono le
Giornate ad andare dagli spettatori, vicini e lontani, in attesa di
festeggiare tutti insieme nel 2021 il traguardo della 40a
edizione. Grazie alla collaborazione degli archivi
internazionali
e insieme al partner MYmovies,
anche in questa 39a
Limited Edition,
in streaming dal
3 al 10 ottobre,
il festival garantisce un programma che, benché inevitabilmente
ridotto, rispecchia la ricchezza della
settima arte con commedie, drammi, western, diari di viaggio, dalle
origini del cinema muto alla sua massima fioritura. Senza
rinunciare all’accompagnamento eseguito dai più quotati musicisti
specializzati che fanno parte della squadra delle Giornate. Nel
programma selezionato dal direttore Jay Weissberg ritroviamo nomi di
autori celebri come G.W.
Pabst,
Cecil
B. DeMille
ma anche l’italiano Carlo
Campogalliani e,
fra le star,
Stan Laurel,
OliverHardy,
Mary
Pickford,
Sessue
Hayakawa.
Accanto a loro, cineasti e interpreti meno conosciuti o dimenticati
ma che rappresentano il meglio dei primi tre decenni del cinema. Non
mancano i riferimenti all’attualità, con il programma di
cortometraggi che invitano a “ripartire”, e un evento con
partitura per orchestra e coro, Gli
apache di Atene (1930),
con cui il regista greco Dimitrios
Gaziades anticipava
il neorealismo.
In
chiusura uno spettacolo in presenza, domenica
11 ottobre
(ore 16.30) al
Teatro Verdi di Pordenone,con
la“replica”dell’evento
finale che vede protagonisti, separatamente, Stan
Laurel e
Oliver Hardy.
Prima
di girare nel 1927 il loro primo film insieme (Duck
Soup,
presentatol’anno
scorso) i due avevano
già una ragguardevole carriera alle spalle, a lungo oscurata dai
trionfi successivi.
Il lavoro di riscoperta si deve alla Lobster Films di Parigi e alla
Library of Congress con un contributo dell’australiano National
Film & Sound Archive. Dopo la presentazione on line con la musica
di Neil Brand, al Verdi si vedranno, accompagnati
dal vivo dalla Zerorchestra,
Detained
(1924) con Stan Laurel e Moonlight
and Noses
da
lui diretto nel 1925 (nel cast c’è Fay
Wray,
futura splendida diva di King
Kong
che fu ospite delle Giornate nel 1999, a Sacile); il giovane Hardy è
co-protagonista con Billy Ruge di The
Serenade,
del 1916, e accanto a Larry Semon (Ridolini) in The
Rent Collector,
del 1921.
Un giorno Nico Naldini mi disse: «La
speranza è un sentimento che non appartiene alla vita. Bisogna avere
la vitalità di realizzare progetti, non speranze!» e questa
vitalità l’ha avuta fino alla fine. Fino a quel fatidico mercoledì
9 settembre 2020 quando serenamente è passato dal sonno al sonno
eterno. Intellettuale colto, raffinato, anticonformista fino
all’imprevedibilità, Domenico Naldini, per tutti Nico, classe 1929,
cugino di Pier Paolo Pasolini e a sua volta poeta, scrittore, regista
e tanto altro, è stato da sempre vicino al lavoro di ricerca e
raccolta documenti su Pasolini che Cinemazero ha portato, e porta,
avanti da sempre.
Naldini, da sensibile e poliedrica personalità qual’era, aveva spesso frequentato i diversi territori del cinema. Nei tumultuosi Anni Settanta si cimentò nella regia con Fascista (1974) un film basato interamente sul montaggio di brani dei cinegiornali Luce con il commento di Giorgio Bassani. Il cugino Pier Paolo Pasolini disse a proposito del film: «Un’opera bellissima e pericolosa. Fascista privilegia il rapporto mistificatorio, ridicolo, bieco fra Mussolini e i suoi sudditi osannanti, sottolineando l’importanza dello stile oratorio del duce con le masse. Rispetto ai fascisti attuali, ormai dei veri e propri nazisti, quelli avevano un’aria casalinga.». Il lavoro venne presentato in quegli anni anche nella natìa Casarsa dal locale circolo del cinema con tanto di dibattito finale alla presenza dell’autore.
In quel periodo Naldini era
responsabile della comunicazione per la PEA, la società di
produzione di Alberto Grimaldi, potente produttore napoletano che
aveva realizzato il meglio del cinema di qualità di quel tempo. Da
Sergio Leone con Per qualche dollaro in più (1965), Il
buono, il brutto, il cattivo (1966), a Bernardo Bertolucci con
Ultimo tango a Parigi (1972) e Novecento (1976). Poi
Federico Fellini con Fellini Satyricon (1969) e Il
Casanova di Federico Fellini (1976) fino a Pier Paolo Pasolini
con la trilogia della vita: Il Decameron (1971), I racconti
di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte
(1974) e quell’ultimo capolavoro Salò o le 120 giornate di Sodoma
(1975). Sfuggì a Grimaldi solo C’era una volta in America
che non riuscì a produrre per dei dissidi col regista. Leone,
infatti, tra il 1967 e il 1977 lavorò su infinite versioni orali del
film in quanto i diritti cinematografici del romanzo The Hoods
(in Italia, Mano armata) di Harry Gray non erano
disponibili. Grimaldi abilmente riuscì ad ottenerli, passando, però,
poi la mano per dissapori sulla sceneggiatura con Leone. Chiesi a
Naldini notizie su Grimaldi, su come lavorava questo mitico
produttore: «Alberto Grimaldi non veniva mai sul set, lasciava
fare tutto ai registi; lui era sempre chiuso nel suo ufficio
circondato da telefoni. Era un gran parlatore e il suo lavoro
consisteva nel convincere gli americani a finanziargli i film
assicurandosi la distribuzione delle opere in tutto il mondo. E io
preparavo le sinopsi per gli americani come responsabile della
comunicazione. Per Salò
ho dovuto inventarmene una, visto che non avrebbero mai sborsato un
dollaro se avessero letto la vera sinopsi.». In vena di
confidenze, quel giorno, Naldini mi precisò anche: «Per fare
bene l’ufficio stampa nel cinema bisogna essere prima di tutto dei
grandi ruffiani.» e con la sua lieve ma profonda ironia
proseguì: «L’ufficio stampa richiede molto spesso di usare
sapientemente l’adulazione o un atteggiamento di ostentata
sottomissione per raggiungere i propri scopi. E io sono stato, in
questo senso, ruffiano fino in fondo. Mi divertivo!».
Naldini, pur narcisista cosciente e responsabile, non ostentava mai. Se qualcuno ricordava il suo lavoro nel mondo del cinema, minimizzava, ironizzava, sorvolava con sapienza su questi aspetti. Il trascorrere del tempo lo aveva, però, addolcito, aveva smussato gli angoli spigolosi del suo carattere che lo avevano spesso portato, sempre con estrema classe, a sfuriate fulminanti come quella cui avevo assistito nel 1994 in occasione di un grande omaggio a Pasolini da lui coordinato. Aveva chiesto, ad un noto studioso e docente friulano, di collaborare alla parte fotografica dell’esposizione che vedeva Cinemazero impegnato in prima persona. Lo studioso era attirato dalla cosa ma non gradiva molto la presenza di Cinemazero, temendo forse di non riuscire ad avere la giusta visibilità. Naldini spazientito da quell’atteggiamento tentennante e temporeggiatore prese in mano il telefono e gli chiese se voleva aderire al progetto o meno, aggiungendo perentorio: «Sia il tuo parlare sì, sì o no, no; il di più viene dal maligno.». A questa citazione dal Vangelo secondo Matteo il docente rispose: «Si, ma …» Non riuscì a terminare la frase che Naldini con rabbia aveva già chiuso perentoriamente la comunicazione.
Durante questi ultimi trent’anni ci
siamo incontrati in moltissime altre occasioni, comprese le
presentazioni dei suoi molti libri redatti sempre con una felice e
affabulatoria prosa poetica che lo pone, a mio avviso, tra i grandi
scrittori italiani contemporanei.
Nel giugno 2014 avevamo visitato
assieme l’indimenticabile mostra “Trame di cinema – Danilo
Donati e la Sartoria Farani” che Piero Colussi aveva
portato a Villa Manin di Passariano.
Seduto su un divano rosso di sapore
buñuelliano [vedi foto sopra], Nico Naldini, visibilmente
emozionato per le suggestioni ricevute da tutti quei costumi che lui
aveva visto indossati sui vari set cinematografici, si lasciò andare
ai ricordi: «Per Salò
Grimaldi cercava un fotografo di scena discreto, fuori da giri
romanocentrici, che non lasciasse trapelare alcuna immagine, sia per
la particolarità del film, sia per evitare scandali e processi che
spesso precedevano e accompagnavano i lavori di Pasolini. Gli indicai
quindi Deborah Beer, inglese, discretissima e brava, oltre ad essere
la compagna di Gideon Bachmann, vecchia conoscenza di Pasolini.
Deborah Beer, che stava lavorando sul set di Novecento,
abbandonò tutto e seguì magnificamente l’intera lavorazione del
blindatissimo set di Salò!».
È quindi grazie anche a Naldini se ora quei negativi, quegli scatti
esclusivi sul set di Salò, sono conservati presso l’archivio
di Cinemazero.
Le sue frequentazioni “ruffiane”, come addetto stampa, facevano di Nico Naldini una inesauribile fonte di aneddoti e storie: «Federico Fellini quando doveva iniziare un nuovo film, convocava i diversi collaboratori fra cui il costumista Piero Tosi, cercando di portarlo in un’eterosessualità che Tosi non gradiva affatto. Fellini lo condusse in un locale di striptease dal quale Piero Tosi fuggì inorridito. Da allora non ha più voluto parlare con Fellini. Subentrò così Danilo Donati, al quale Federico rimproverava, durante il Casanova, una eccessiva furia creativa. Fellini voleva fare le cose con calma mentre Donati era una forza della natura. Per quanto riguarda Tosi, lui rimase nell’ambiente di Luchino Visconti, dove erano tutti sotto il pressante dominio visconteo. Un enclave molto crudele, come la definì Pasolini, con giudizi netti, trancianti. Per cui o si era dentro o si era fuori del clan. Pasolini, e noi tutti, eravamo fuori.».
L’ultima testimonianza,
sempre sul filo poetico della leggera ironia, Naldini l’aveva
concessa recentissimamente per il bellissimo documentario In
un futuro aprile (2020)
di
Francesco Costabile e Federico Savonitto dove raccontava, scevro da
ogni nostalgica malinconia, gli anni giovanili in Friuli accanto al
cugino.
Con
Naldini, purtroppo, se n’è andato per sempre un insostituibile,
prezioso e acuto testimone del novecento italiano. Ci restano,
fortunatamente, per sempre le sue opere.
Il jazz di Controtempo torna dal vivo con il IL
VOLO DEL JAZZ, al suo 16. anno di vita. “Un’edizione che nasce in un
momento complesso per tutti – sottolinea la presidente Paola Martini – e per
questo ancora più preziosa”.
Otto i concerti (affiancati da diversi altri
eventi), per oltre 40 musicisti sui palchi della rassegna, dal 16 ottobre al
18 dicembre, selezionati dal direttore artistico Loris Nadal con il
criterio della curiosità e dell’intenzione di offrire al pubblico occasioni
uniche di arricchimento musicale e culturale, con le punte di diamante del jazz
italiano e l’eccellenza dei jazzisti provenienti dall’estero a raccontare altri
territori e culture: perché il jazz è meticcio per definizione e senza confini.
Si terranno al Teatro Zancanaro di Sacile,
cuore propulsore della rassegna, alla Fazioli Concert Hall, dove nel segno di
una consolidata collaborazione è atteso il concerto di chiusura, passando per Cinemazero
e la rinnovata sinergia con la rassegna “Gli Occhi dell’Africa” e al Paff! di
Pordenone.
Il via venerdì 16 ottobre, con una
prestigiosa anteprima fuori abbonamento, la doppia replica (alle 19 e alle
21:30, nel Teatro Zancanaro, per dare modo a un più ampio pubblico possibile di
accedere) del concerto di Stefano Bollani che si esibisce in “Piano
variations on Jesus Christ Superstar”, personale rivisitazione del capolavoro
di Lloyd Webber e Rice. Una versione totalmente inedita e interamente strumentale per pianoforte
solo: improvvisando sui motivi originali e sulle canzoni, Bollani segue il suo
guizzo giocoso e il suo spirito musicale, formato dai tanti generi e incontri
che hanno forgiato il suo linguaggio musicale. Per omaggiare e per far sì che
la sua musica trasmetta il calore e la profondità dei personaggi del film di
Webber e Rice, il pianoforte è intonato a 432 Hz, una scelta inusuale che permette
di restituire un suono caldo, suadente, profondo e al tempo stesso limpido.
Sabato 31 ottobre (alle 21, Teatro Zancanaro), sarà la volta del
sassofonista Daniele Sepe con “The cat with the hat” che vede la
partecipazione del batterista Hamid Drake: un sentito omaggio al
grande sassofonista argentino Gato Barbieri, fonte di ispirazione costante per
Sepe. Un progetto che, a ben
vedere, va oltre l’omaggio per immaginare un repertorio diversificato per
generi e provenienza, come se a comporlo o interpretarlo fosse stato Barbieri
in persona.
Sabato 7 novembre (alle 21, Teatro Zancanaro), appuntamento
speciale con Francesco Cafiso 4et e l’Accademia Musicale Naonis in “A tribute to Charlie Parker”. Nel
centenario dalla nascita, un concerto dedicato al grande musicista e compositore che ha
reinventato il sassofono contralto e ha contribuito più di tutti a fondare il
bebop. Francesco Cafiso si esibisce con il
suo quartetto e insieme all’Orchestra d’archi dell’Accademia Musicale Naonis
diretta dal Maestro Valter Sivilotti. Grazie alla concessione delle partiture
originali da parte del festival Umbria Jazz, verranno riletti gli arrangiamenti
originali che lo stesso Cafiso aveva già avuto la possibilità di suonare e
registrare in occasione di alcuni concerti in Italia e a New York nel 2005,
prodotti dallo stesso Festival Umbria Jazz.
Sabato 14 novembre (alle 21, Teatro Zancanaro), Francesco Bearzatti Tinissima “Zorro” per la prima
assoluta con il live painting di Davide Toffolo, frontman dei Tre
allegri ragazzi morti. Dopo i successi delle suite dedicate a Tina Modotti, Malcolm X, Woody
Guthrie e dell’originalissimo Monk’n’roll, il Tinissima 4tet di Francesco Bearzatti presenta una nuova biografia musicale: ZORRO. Le avventure dell’uomo mascherato più amato nel
mondo che combatte il potere e si schiera con il popolo, suonate dal
gruppo più passionale e militante degli ultimi 10 anni. Il concerto si arricchisce con il live painting di
Toffolo che descrive le avventure di Zorro attraverso i suoi disegni dal vivo.
In collaborazione con Gli Occhi dell’Africa, rassegna organizzata da
Cinemazero, Caritas e l’Altrametà, giovedì 19 novembre a Cinemazero di
Pordenone, alle 21, il concerto di Gabin Dabiré: dall’etno al jazz, dal pop al rock,
dalla musica tradizionale a quella sperimentale, per attraversare le profondità
di un archetipo atavico e transculturale, risvegliando l’idea di un’Africa nera
variamente connotata nell’immaginario di ognuno. Originario dall’ Alto Volta, oggi Burkina
Faso, Dabiré, che vive in Italia dalla fine degli anni ’80, inizia fin da
giovanissimo a girare il mondo, spinto dalla passione musicale e dalla volontà
di diffondere la cultura africana.
Sabato 21 novembre si torna al Teatro
Zancanaro di Sacile (alle 21) per il concerto del batterista e
percussionista francese Manu Katchè, noto per aver collaborato con star della musica rock del
calibro di Peter Gabriel, Sting, Dire Straits, Tracy Chapman, Tori Amos. Al
Volo del Jazz presenta
il suo nuovo disco: “The ScOpe”, lavoro all’insegna del groove, per
avvolgere il pubblico in un gioco ritmico che intreccia tutti i generi
frequentati in carriera.
Sabato 28 novembre, alle 21, al Teatro
Zancanaro
va in scena “Cosmic Renaissance”: un viaggio cosmico del quintetto
plasmato da Gianluca Petrella, trombonista
refrattario alle etichette che – avendo già da tempo sistemato ogni questione
di fama e autorevolezza relativa al pianeta Terra – veste di nuovo i panni
dello skipper intergalattico per turisti degli altri pianeti, oltre le
convinzioni del jazz più compiuto.
Ultimo appuntamento, fuori abbonamento, venerdì 18 dicembre, alle 20:45, alla Fazioli Concert Hall di Sacile, con il concerto del pianista finlandese Iiro Rantala, “un fenomeno naturale sui tasti” (Jazz thing). Per quasi vent’anni Iiro Rantala ha conquistato i palcoscenici del jazz d’Europa e non solo, con il suo anarchico “Trio Töykeät”. Spazia dal jazz alla classica, al pop e alla tradizione musicale e folk scandinavo, con molto sentimento e malinconia ma anche con arguzia e fascino. Un vero maestro del pianoforte moderno senza confini.
Qual è il significato di
Tenet, l’affascinante spy-thriller firmato da Christopher
Nolan? Dipende. Sicuramente ce n’è più di uno, o almeno non c’è
solo quello racchiuso nel titolo e nella
trama di cui, in questa sede, non ci occuperemo. D’altronde
l’obiettivo di questo spazio è quello di provare ad essere
un’occasione di riflessione sull’andamento del “sistema
cinema”. E per questo di solito non analizziamo i singoli film e il
loro significato, o almeno non dal punto di vista narrativo.
Ma in questo caso,
appunto, il discorso è diverso perché Tenet, oltre a quello
sullo schermo, ha di certo anche un altro significato, quasi un
ruolo, profondo ed importantissimo per tutto il mondo cinema.
Se è vero che, in
generale, dopo la pandemia ogni settore economico ha dovuto
“raccogliere i cocci” e tentare una difficile ripartenza, ciò è
stato ancora più vero per il settore culturale e in particolare
quello cinematografico.
Anche quando era chiaro
che le sale avrebbero riaperto abbiamo assistito ad una fuga generale
dei film dai listini: tanti (troppi) i
film finiti in streaming, tanti (troppi) i titoli posticipati a data
da destinarsi. «È il mercato bellezza!»
diceva la distribuzione a noi esercenti ed era quasi una
musica a cui ci stavamo abituando.
Poi è arrivato Tenet
e ha dimostrato il contrario. O almeno ci ha provato. Ha provato
a dimostrare, nei fatti, che la sala può continuare ad avere un
ruolo determinante nella filiera della settima arte,
che le persone sarebbero tornate
al cinema, che un’aggregazione sicura e responsabile è possibile e
che la voglia di cinema, dopo mesi di streaming, non è affatto
morta. Ha dimostrato che è ancora possibile ribadire
la centralità del ruolo della sala cinematografica (Nolan lo
ha detto più volte e si è speso pubblicamente in questo senso),
cambiare le regole di mercato (per la prima volta un film del genere
è uscito prima in Europa che oltreoceano) e la Warner Bros – la
major che distribuisce il film – ha dato prova tangibile di quel
coraggio che tanti suoi colleghi a
parole avevano detto di avere ma poi hanno fatto fatica a mettere in
pratica
C’è riuscito Tenet?
Ha vinto o perso la scommessa? È presto per dirlo, ma al momento
sembra (usiamo il condizionale perché i dati sono parziali) che i
risultati, almeno in Italia, siano buoni. Il film dovrebbe arrivare
ad incassare nel nostro Paese 6 milioni di euro – Dunkirk ne
fece 8,8 ma aveva un pubblico potenzialmente più alto e il fattore
meteo di quest’anno non giocava certo a favore del
cinema – anche se il conto, sul versante meramente
economico, si farà a livello globale e qui peserà la difficilissima
situazione del mercato americano ancora alle prese con il picco della
pandemia.
Determinante
per capire o meno il successo dell’operazione sarà anche il
confronto con chi (i film) ha fatto la scelta opposta. È il caso
dell’attesissimo Mulan che la Disney ha scelto di far uscire
direttamente sulla propria piattaforma, saltando il passaggio in
sala.
Qui le cifre ancora non
si conoscono – le poche che girano in rete non risultano ufficiali
– ma è un dato di fatto che, ad oggi, nessuno dei prossimi titoli
del colosso dell’animazione statunitense abbia abbandonato i
listini delle sale cinematografiche, salvo qualche spostamento, come
a dire che, dopo l’esperimento fatto con Mulan, per tutti
gli altri il passaggio sul grande schermo sarà imprenscindibile.
E Cinemazero? Ha fatto,
come sempre, la sua parte. Quasi 1.300 gli spettatori che, ad oggi,
hanno visto il film in sala: amandolo, odiandolo, criticandolo o
semplicemente non capendolo. Poco importa, perché, come detto, il
significato “oltre lo schermo” era quello di riportare la gente
in sala e dimostrare che un futuro è possibile. E il pubblico di
Pordenone ha dimostrato di averlo capito.
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