Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede … sentieri di cinema!
Di Andrea Crozzoli
Nella
vecchia cara Europa ogni angolo è carico di storia, una storia stratificata nei
secoli. Non sfugge, quindi, a questa regola nemmeno il castello di Pordenone,
antico maniero citato per la prima volta in un documento della seconda metà del
1200 nel quale un tale Bernardo, patriarca di Aquileia, informa l’imperatore
Rodolfo d’Asburgo che Filippo Ulderico, fratello del duca di Carinzia e
Carniola, ha eretto un castello a Pordenone su un’altura nei pressi del fiume
Noncello. Quindi, già allora il maniero era sotto la giurisdizione asburgica e,
fra alti e bassi, rimaneggiamenti, costruzioni e abbattimenti, tale
giurisdizione asburgica è rimasta. Nella seconda metà del 1800 decisero poi di
trasformarlo in carcere, funzione che da allora, anche con il passaggio
all’Italia, ha mantenuto ancora oggi.
Da quando gli austriaci se ne sono andati al termine della prima guerra mondiale il carcere ha subito, apparentemente, al suo interno solo qualche nuova tinteggiatura. Strutturalmente i corridoi sono rimasti stretti ed angusti con cancelli di ferro ogni pochi metri; i soffitti bassi e le inferriate alle finestre danno un senso di claustrofobia che prende allo stomaco. Le celle sono di pochi metri quadrati ed ospitano quattro ma anche sei posti letto a castello, qualcosa che fa riportare alla mente gli epici romanzi di Victor Hugo o Alexandre Dumas.
Quello
di Pordenone però è, tutto sommato e fortunatamente, un piccolo carcere che
contiene solamente poco più di cinquanta detenuti contro i 37 previsti; un
sovraffollamento sì del 151% ma mitigato dai risibili numeri in assoluto molto
contenuti rispetto ad una situazione nazionale sull’orlo del collasso che ha
visto, dal 2000 ad oggi (dati al 31/07/2024), ben 1.786 suicidi in tutta la
penisola dovuti anche alle condizioni di disagio per il sovraffollamento. Sarà
per l’impegno delle varie istituzioni, prefettura e provveditorato regionale in
primis, sarà per le dimensioni contenute dell’istituto, sarà per una illuminata
direzione del carcere ad opera di Leandro Lamonaca, sarà per
l’impegno e la disponibilità di tutto il personale carcerario, sarà per la non
particolare gravità dei reati consumati (tipo spaccio, tentata rapina, truffa,
contrabbando), sarà per l’incessante attività di don Piergiorgio Rigolo
cappellano dell’istituto di pena, ma il clima all’interno del carcere
pordenonese non è assolutamente paragonabile a quello che si sente narrare in
altre situazioni sparse lungo lo stivale.
Dal
canto suo Cinemazero da molti anni prestava al carcere, gratuitamente, dvd del
proprio archivio per proiezioni, ma dal marzo di quest’anno, su sollecitazione
di don Rigolo e del suo braccio destro Silvano Varnier, ogni venerdì (compresi
i bollenti mesi di luglio e agosto), viene presentato un film con
l’introduzione, in presenza all’interno del carcere, di un esponente di
Cinemazero che presenta il film e, a fine proiezione, dialoga poi con i
detenuti.
Un appuntamento molto atteso che coinvolge più della metà dei cinquanta ospiti della struttura. Fra i partecipanti alle proiezioni si percepisce tangibilmente l’esigenza di socializzare con l’esterno: imprescindibile è il rito di salutare e stringere la mano a tutti. Sono persone perfettamente consapevoli del loro status e sono alla strenua ricerca dell’ascolto, della socializzazione, del confronto, del riscatto.
Il
carcere ha significato per molti di loro tagliare i ponti con il mondo esterno;
non è raro che anche la famiglia stessa lasci il detenuto al suo destino e il
ritorno in società, a fine pena, diventa perciò difficoltoso, irto di problemi
soprattutto per chi non ha legami affettivi, familiari o di semplice amicizia.
In
un carcere così oggettivamente retrò nella sua struttura, luogo di espiazione
della pena più che di riabilitazione, ogni momento di socializzazione è
intensamente vissuto da una platea attenta, che segue con interesse il film,
che dialoga in maniera competente come nel caso della proiezione di TIR
alla presenza del suo autore, il regista Alberto Fasulo. Aldilà dei diversi
credi religiosi don Piergiorgio Rigolo è il punto di riferimento
imprescindibile per tutti i detenuti, l’uomo ponte con l’esterno, con il mondo.
L’uomo che ogni venerdì accompagna il cinemazerino di turno (sia Maurizio
Solidoro o Sabatino Landi o Piero Colussi o Andrea Crozzoli o Paolo D’Andrea) a
questo appuntamento di crescita, di riflessione ma anche di divertimento con
tanto di applauso finale a fine proiezione, perfetto esempio di valenza
sociale, oltre che culturale, di che cosa significa una visione cinematografica
collettiva.
Non
c’è la pretesa da parte di Cinemazero di risolvere tutti i problemi con il
cinema, ma crediamo però fermamente che sia giusto dare il nostro piccolo,
sincero e convinto contributo. Una goccia nel mare, ma 20.000 gocce fanno già
un litro.
« Tardes de soledad » di Albert Serra ha conquistato la Concha de Oro alla 72 edizione del Donostia Zinemaldia/San Sebastián International Film Festival. Il regista catalano attivo soprattutto in Francia e varie volte accolto al Festival di Cannes, esordisce nel documentario con un ritratto al microscopio del torero-star Andrés Roca Rey. Seguendolo attimo per attimo, dai rituali della vestizione agli scongiuri mistici, alla sanguinolenta corrida, fino alla svestizione, Serra è ben cosciente di riaprire il dibattito, tuttora muy caliente in Spagna, su liceità o interdizione di questo antico « sport ». Alla tauromachia e alle sue mitologie hanno dedicato pagine e pellicole memorabili Ernest Hemingway, Federico García Lorca, Rouben Mamoulian, Francesco Rosi e altri connaisseurs. Serra contempla le azioni quotidiane del torero e si compiace di divinizzarlo. Roca Rey del resto ha le physique dell’ammaliatore, virile o femmineo a seconda dei momenti. Tra i film del concorso a San Sebastián segnaliamo l’argentino « El hombre que amaba los platos voladores » di Diego Lerman. Il trascinante mattatore Leonardo Sbaraglia incarna un vero reporter tv che nel 1986 fece credere all’intera Argentina nello sbarco dei dischi volanti. Fake news ante litteram…
Premio Speciale della Giuria a « The Last Showgirl » di Gia Coppola – nipote di Francis Ford. Le ultime performances in uno squallido cabaret di Las Vegas da parte di un’indomita ballerina. Pamela Anderson, rediviva, fa quello che può per rendere commovente il prevedibile apologo. Premio per la migliore produzione basca a « Chaplin Espíritu gitano / Chaplin Spirit of the Tramp » diretta dall’esordiente Carmen Chaplin. La nipote del genio – finora nota come attrice – accompagna suo padre Michael alla ricerca delle radici gitane di Charlot. Emozionantissime confessioni dell’intera tribù chapliniana. In 91 minuti un turbine di retroscena intimi. La ricchissima sezione « Horizontes Latinos » ha consolato chi credeva che il cinema argentino fosse stato falcidiato dal pazzoide capelluto. Si veda ad esempio l’ottimo « Simon de la montaña » di Federico Luis, già premiato alla Semaine de la Critique di Cannes 2024. Un ragazzo pseudo disabile ritrova via via se stesso in un ospizio di allegri minorati. Tutti presenti e fieri sul palco di San Sebastián.
La retrospettiva « Italia violenta. El cine policiaco italiano » ha proposto 22 opere « poliziottesche », o presunte tali, da « Ossessione » (1943) di Luchino Visconti fino a « L’ultima notte di Amore » 2023) di Andrea Di Stefano. Assieme a perle quali « Il bivio » (1951) di Fernando Cerchio e « Cadaveri eccellenti » (1976) di Francesco Rosi, e alla pubblicazione di un corposo catalogo illustrato in castigliano e inglese.
L’avvio del secondo ciclo
delle Serate di cinema muto (iniziativa di Cinemazero in collaborazione
con le Giornate del Cinema Muto e la Cineteca del Friuli) ha consentito al
pubblico pordenonese di rivedere nella magnificenza del grande schermo il
discusso, monumentale capolavoro di Fritz Lang.
L’abbacinante potenza visiva,
il magniloquente respiro epico, l’arcana – e perché no, ambigua – mistica dei Nibelunghi
(Die Nibelungen, 1924) giungono fino a noi intatti, se non
addirittura amplificati dal secolo che ci separa dalla sua uscita.
Quando
Fritz Lang e la moglie e sceneggiatrice Thea von Harbou proposero alla
Decla-Bioscop, da poco fusasi con la Universum Film (la celebre UFA), un
adattamento della saga germanica dei Nibelunghi, avevano essenzialmente tre
scopi ben chiari in mente:
Far
dono al popolo tedesco, cui il film è non a caso esplicitamente dedicato, di un
“antidoto cinematografico” alla cupezza, alla miseria e al rancore del periodo
postbellico. Lang, nato austriaco e divenuto ufficialmente cittadino tedesco
nel 1922, sentiva che il progetto avrebbe potuto restituire a una nazione
sconfitta, fiaccata dai debiti di guerra e smembrata da un’inflazione
galoppante, una sorta di rinnovato mito delle origini, una res gestae che,
attraverso il ricordo di un passato leggendario, fosse in grado di rilanciare
l’orgoglio e le ambizioni di un intero popolo;
Sfidare
Hollywood con la grandeur di un colossal da esportazione che ambiva, tra
le altre cose, a dimostrare la superiorità della cultura tedesca su quella di
una nazione “senza storia” come gli Stati Uniti;
Realizzare
la seconda parte – e questo attiene alla poetica personale di Lang – di un
trittico sul presente, il passato e il futuro della Germania, inaugurato dal Dottor
Mabuse (Dr. Mabuse, der Spieler, 1922) e destinato a compiersi nel
1927 con la distopia di Metropolis (Id.). In mezzo, l’epopea
storico-mitica dei Nibelunghi.
Cimentarsi
negli anni Venti con la saga epica di Sigfrido e Crimilde significava innescare
necessariamente un confronto con un precedente assurto nel tempo a uno status
quasi scritturale: la Tetralogia wagneriana, quell’Anello del Nibelungo che
costituisce non solo l’apoteosi della teoria del teatro totale, ma anche il
culmine indiscusso del dramma musicale di stampo romantico, pietra miliare
della cultura tedesca tutta. Lang, pur mal sopportando Wagner – probabilmente anche
per il dichiarato antisemitismo di quest’ultimo, essendo Lang figlio di
un’ebrea convertita al cattolicesimo –, non poteva per forza di cose ignorarne
la lezione: ed ecco allora che I Nibelunghi si pone nei confronti
dell’opera wagneriana in una sorta di dialettica aperta e instabile. Da una
parte ne riprende alcuni elementi: l’incipit del film, in cui vediamo il
protagonista forgiare la spada nell’antro del fabbro Mime, è per esempio
direttamente debitore del Sigfrido wagneriano; d’altra parte, tuttavia,
Lang espunge in maniera deliberata e provocatoria una serie di connotati
identificativi del ciclo di Wagner. Nei Nibelunghi sono del tutto
assenti la complessa cosmologia e la stratificata gerarchia divina che
costituiscono parte integrante della Tetralogia: Sigfrido, in Lang, non ottiene
i suoi straordinari poteri in virtù della sua discendenza divina, ma alla luce del
successo delle sue azioni: la sua invulnerabilità (foglia di tiglio
permettendo), è unicamente il frutto dell’impresa dell’uccisione del drago.
È
d’uopo fare a questo punto un discorso un po’ più ampio sulle fonti del film.
Sono essenzialmente quattro, nessuna delle quali è riportata nei titoli di
testa:
Il Nibelungenlied,
il più importante poema epico nazionale della civiltà germanica, composto all’alba
del 1200 e tramandato nei secoli in forma anonima. Il poema, che come tutte le
grandi narrazioni epiche oscilla tra storia e sua rielaborazione mitologica,
narra un’elaborata sequenza di avvenimenti, ma il suo nucleo centrale è
costituito dalla tragica vicenda d’amore che si sviluppa tra Sigfrido, figlio
del re di Xanten Sigmundo, e Crimilde, sorella del re dei Burgundi Guntèro, e
dalla successiva vendetta che quest’ultima perpetra in reazione al vile assassinio
dell’amato;
La Saga
dei Volsunghi, stilata in prosa da un anonimo islandese attorno alla fine
del XIII secolo, che narra a sua volta le imprese di Sigfrido, Crimilde,
Brunilde, ecc., a sancire l’immaginario comune delle popolazioni nordeuropee di
origine germanica;
I
Nibelunghi (1861), tragedia in tre atti del drammaturgo tedesco
Friedrich Hebbel, dalla quale Lang e von Harbou recuperano numerosi espedienti
narrativi e adattamenti linguistici, rifiutandone però al contempo
l’impostazione religiosa (nel dramma di Hebbel ha un’importanza preponderante
lo scontro tra il paganesimo morente e l’incombente cristianità);
Il già
citato Anello del Nibelungo wagneriano.
La
combinazione e rielaborazione di queste fonti genera un film prismatico che è
innanzitutto il tentativo di tracciare in un’unica opera monumentale una sorta
di genealogia dello spirito tedesco. Nel corpo statuario di Paul Richter,
l’interprete di Sigfrido, sono ravvisabili espliciti elementi biopolitici: esso
incarna un’ideale di mascolinità tedesca, sana e proattiva, in aperta
opposizione all’umanità straziata da poco uscita dal conflitto mondiale:
quella, per intenderci, potentemente visualizzata in Guerra alla guerra,
il celebre reportage fotografico di Ernst Friedrich sui militari tedeschi al
fronte durante il primo conflitto mondiale, uscito proprio nel 1924 come
apologo antimilitarista.
Giova
ricordare che la figura di Sigfrido, per la sua morte violenta, è stata
ripetutamente associata ai caduti della Grande guerra nei paesi di cultura
tedesca: qualora vi capiti di visitare l’Università di Vienna, vi troverete in
una teca di vetro una scultura di Josef Müllner, esposta al pubblico nel 1923,
dedicata agli studenti morti nei campi di battaglia: si tratta di una testa
marmorea rappresentante il volto senza vita di Sigfrido. L’eroe della Canzone
dei Nibelunghi è del resto l’emblema dell’uomo tradito e colpito alle
spalle: e non è forse la cosiddetta “leggenda della pugnalata alla schiena” uno
dei motivi ricorrenti della retorica postbellica che voleva la Germania
sconfitta non a causa della superiorità dei nemici, ma per colpa della
vigliaccheria del fronte interno, ossia degli stessi tedeschi contrari alla
guerra? Una delle immagini più consuete della pubblicistica tedesca a cavallo
tra le due guerre era non a caso quella di un soldato biondo – un Sigfrido,
appunto – pugnalato alle spalle dagli agenti del complotto ebraico-bolscevico.
Sigfrido
è anche l’uomo della Natura, un tutt’uno con l’ambiente: lo vediamo sovente
circondato da fiori e alberi; parla addirittura agli uccelli come un san
Francesco ante litteram. In una delle visioni di Crimilde lo osserviamo stagliato
accanto a un alberello in fioritura che, a preconizzarne la morte, a un certo
punto si tramuta in un orrendo teschio: la fine di Sigfrido corrisponde a un
torto fatto alla Natura. Come ha scritto Susan Power Bratton nel saggio From
Iron Age Myth to Idealized National Landscape: Human-Nature Relationships and
Environmental Racism in Fritz Lang’s Die Nibelungen, “Sigfrido non si
manifesta come un giovane signore feudale, ma come un’emanazione del paesaggio
tedesco”. Sicuramente la comprensione profonda del film di Lang non può
prescindere dalla valutazione di questi aspetti nazionalistico-identitari, che
spiegano anche il fascino suscitato dalla pellicola su uomini come Joseph Goebbels
e lo stesso Adolf Hitler (che probabilmente, fatte salve le suggestioni
puramente estetiche e architettoniche, vedeva nella vendetta di Crimilde
l’equivalente della rivalsa che voleva prendersi nei confronti dei paesi che
avevano sconfitto la Germania nella Prima guerra mondiale, e nel nano Alberico,
custode di un immenso tesoro, un chiaro sottotesto antisemita). Sarebbe al
contempo estremamente superficiale ridurre i Nibelunghi, come peraltro
ha fatto uno studioso eminente come Sigfried Kracauer, a un film precursore
dell’ideologia nazista – dalla quale come noto Lang fuggì intellettualmente e fisicamente,
a differenza di Thea von Harbou che al nazismo aderì con convinzione. Un occhio
attento non può fare a meno di notare l’ambiguità con cui Lang ammanta il
personaggio di Sigfrido: un uomo a ben vedere arrogante, presuntuoso, la cui
ingenuità non è virtù, non è innocenza: è leva che innesca la caduta degli
eventi. Per due volte inganna e sconfigge Brunilde per ottenere un vantaggio
personale. Guardando il film da una prospettiva contemporanea, è difficile
comprendere come questo mercenario pieno di sé possa essere considerato un
eroe. E c’è una forte dose di ironia nel vederlo superare agilmente nemici
altisonanti (il drago, il re dei nani Alberico) e perire al cospetto di minacce
“umane troppo umane”: la fragilità di re Guntèro e la slealtà di Hagen (nei
quali certa critica ha voluto vedere un’incarnazione della classe politica
weimariana). Soprattutto, la langiana onnipotenza del caso, così
icasticamente tematizzata nei Nibelunghi, cozza clamorosamente con
qualsiasi trionfo della volontà nazistoide. Il film va tenuto insomma
alla giusta distanza dalle sue letture distorte, senza per questo spazzare
sotto al tappeto la sua (per larga parte inconsapevole) influenza postuma su di
esse.
Ciò
che lascia ancor oggi esterrefatti è l’impalcatura
registico-scenografico-visiva del film. Lang attinge a innumerevoli fonti
pittoriche: Hans Thoma, Wilhelm von Kaulbach, Arnold Böcklin, lo stesso Caspar
David Friedrich. Impiega il talento di Karl Vollbrecht per dar vita a un enorme
pupazzo di gomma vulcanizzata che si fa credibile drago (ci voleva una
quindicina di persone per animarlo), chiede a Walter Ruttman di realizzare
un’onirica sequenza animata sullo stile dei precedenti astratti Opus. Lavora
sul contrasto visuale tra le foreste in cui si muove inizialmente Sigfrido e la
freddezza geometrica, teatrale e simbolica della corte burgunda, dove un ruolo
fondamentale è svolto dai meravigliosi costumi di Aenne Willkomm, ibridazione
tra motivi della moda degli anni Venti e una sorta di astrattismo
medievaleggiante.
In
generale il film insiste su ripetuti dualismi, ravvisabili anche in forma
amplificata tra il primo e il secondo atto: l’equilibrio, la simmetria della
prima parte si risolve nel dinamismo caotico della seconda; la virginale e
biancovestita Crimilde del primo segmento si trasforma in un’implacabile, tetra
vendicatrice nerovestita nel secondo (e qui va fatto un plauso
all’indimenticabile interpretazione di Margarete Schön, che nella sua
immobilità inquietante e calcolatrice ricorda in alcune scene la pedina della
Regina del gioco degli scacchi); alla razionalista corte burgunda fa da
contraltare la selvaggia città degli Unni, abitata da barbari scimmieschi e
alticci che conservano però, alla faccia di alcune superficiali letture
razziste, un residuo vibrante di umanità (è indimenticabile da questo punto di
vista il personaggio del re degli Unni Etzel, o Attila che dir si voglia); al
mondo magico e incantato del primo capitolo segue infine la sanguinosa
carnalità guerresca del secondo. Ed è proprio nel bagno di sangue finale – un
vero e proprio crepuscolo degli dei –, nel culmine di una ritorsione che ha
trasformato Crimilde non in un angelo della vendetta, ma in una sterminatrice
di massa, che il film prende maggiormente le distanze da una possibile lettura
protonazista. Non è un caso che durante il regime sia stata solo la prima parte
a essere riproposta come opera ideologicamente esemplare: solo essa, nella sua
parzialità, tornava utile alla capziosa esegesi revanscista di Hitler e dei
suoi sodali. Morte chiama morte: questo è l’unico vero epitaffio dei Nibelunghi.
Semplicemente, uno dei film più solenni e terrificanti della storia del cinema.
I prossimi appuntamenti di Serate
di cinema muto:
Martedì 29 ottobre: Il
cineocchio di Dziga Vertov
Sabato 30 novembre: Il
navigatore di Buster Keaton e Donald Crisp (con accompagnamento dal vivo
della Zerorchestra)
Mercoledì 11 dicembre: Cenere
di Febo Mari (in occasione dei cent’anni dalla scomparsa di Eleonora Dusa,
con accompagnamento dal vivo di Angelo Comisso)
Martedì 17 dicembre: Il
ladro di Bagdad di Raoul Walsh
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