Tra le innumerevoli rassegne cinematografiche sparse tra spiagge e vallate della nostra regione, da otto anni si è conquistata una propria vetta Cortomontagna a Tolmezzo. Questo concorso per cortometraggi dedicato alle terre alte è organizzato da ASCA – Associazione delle Sezioni CAI di Carnia, Canal del Ferro, Val Canale, con la collaborazione della Comunità di montagna della Carnia e del BIM e il supporto dei partner che sostengono il progetto. Secondo gli organizzatori guidati dall’amica Adriana Stroili «Cortomontagna vuole essere uno sguardo ampio nel panorama del cinema girato in quota, un concorso per film brevi provenienti da tutto il mondo».
La giuria presieduta da Dante Spinotti, e della quale il sottoscritto fa parte, premia le opere ritenute più originali. Una selezione dei corti viene proiettata al pubblico il 3 dicembre al Cinema Nuovo David di Tolmezzo alla presenza di filmmaker e alpinisti e in seguito circola in altre sedi. Anche quest’anno non mancano le liete sorprese. Ad esempio Pablo di Florent Quint, un episodio della serie francese Everyday Climbers, nel quale un ventiquattrenne belga fa il tour de France in bici per dedicarsi a scalate mozzafiato in solitario. In 51 x 3000 degli spagnoli Javier Cuevas e Adrián Azorín, lo scalatore provetto Jonathan Garcia affronta le pareti dei Pirenei riflettendo sulle proprie ambizioni. Amanecer di Antonia Galmez e Francisca Navarro segue le disavventure di queste due scalatrici cilene prima, durante e dopo un incidente di montagna. In Lost la cineasta Maya Deborah De Bernardi Jagarinec si perde ben volentieri vagabondando per il remoto Ladakh indiano.
Ormai appuntamento obbligato per gli
appassionati del cinema documentario e per i professionisti del settore in
cerca di nuovi progetti in fase di sviluppo, Ji.hlava International Documentary
Festival arriva alla sua 27esima edizione con un programma massiccio ma coeso
capace di soddisfare le richieste sia di un pubblico generalista interessato ad
approfondire temi del contemporaneo sia di coloro che cercano le ultime novità in campo di sperimentazione del
linguaggio audiovisivo documentario.
A farla da padrone, come di
consuetudine, le tre retrospettive dedicate alla filmmaker americana Shirley
Clarke, a Lionel Rogosin e al cinema documentario filippino con una selezione
di titoli capaci di raccontare l’evoluzione del genere dagli albori del cinema
ai maestri contemporanei come Khavn e Lav Diaz.
In un’edizione che si è contraddistinta
per il ritorno del pubblico, perlopiù giovane, frutto di una politica aperta
all’inclusione degli spettatori universitari e liceali, non sono mancate le
polemiche con la proiezione fuori concorso del controverso Sparta di
Ulrich Seidl, accusato di aver creato un clima violento su un set popolato da
bambini, e per questo già oggetto di critiche a San Sebastian e Toronto, dove il film è
stato tolto dal palinsesto. Sempre fuori concorso è stato proiettato l’ultima
opera di Sergej Losznitsa, Natural History of Destruction, tratto da W.G
Sebald, che, come al solito, va oltre la ricostruzione d’archivio e si erge a
riflessione universale sulla guerra e la distruzione a essa legata.
Se nel fuori concorso due filmmaker
navigati e di riferimento come Losznitsa e Seidl si sono imposti, nei vari
concorsi il festival è riuscito a proporre una buona varietà di giovani autori
tra cui i vincenti Damir Markovina, regista di Deserters, film
autobiografico sulla guerra in Bosnia, la città di Mostar e i suoi abitanti,
fuggiti alle violenze etniche, e il vincente 7h15 Merle Noir della
giovane Judith Auffray, mirabile riflessione sull’immaginazione e i limiti
dello sguardo cinematografico.
Da segnalare inoltre l’ultima fatica di
Werner Herzog, The Fire Within: Requiem for Katia and Maurice Kraft,
sublime ritratto dei vulcanologi Katia e Maurice Kraft, già protagonisti recentemente di The Fire of Love di
Sara Dosa, e il poetico e sorprendente Gigi La Legge del friulano
Alessandro Comodin, gravitati entrambi in Constellations.
Nel prossimo
2023, ormai alle porte, saranno già venti gli anni trascorsi dalla scomparsa di
Alberto Sordi, un attore che ha rappresentato in maniera indelebile l’italiano
medio, con le poche virtù e i tanti vizi. Un artista
unico e insuperabile “nell’acchiappare rapinosamente i tratti, anche i più
nocivi, del temperamento nazionale e restituirli in forma comica”, come
scrisse a suo tempo con precisione Filippo
Ceccarelli.
Il vero
ingresso da protagonista nel cinema, nonostante avesse già alle spalle alcune
decine di film, Sordi l’ha avuto nel 1952 con Lo sceicco bianco di
Federico Fellini. Il regista romagnolo lo volle a tutti i costi, contro il
parere di produttori ed esercenti, e il film fu un clamoroso fiasco. Caparbiamente, però, Fellini lo impose anche nel
suo successivo I vitelloni (1953) e fu un successo clamoroso, costellato
nel corso degli anni da numerosi altri film memorabili come Un americano a
Roma (1954) di Steno, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Tutti
a casa (1960) di Luigi Comencini, Una vita difficile (1961) di Dino
Risi. Alcune sue iconiche battute sono entrate nel
lessico popolare come: «M’hai provocato e io ti distruggo …» rivolto
al piatto di maccheroni in Un americano a Roma. In mezzo secolo di
attività ha lavorare in oltre 150 film, diventando l’attore che ha maggiormente
rispecchiato le debolezze del nostro paese.
Nel
febbraio del 1985 l’ho incontrato a Berlino, in veste di giurato, al
FilmFestSpiele; una manifestazione dove, peraltro, era di casa avendo vinto nel
1973 l’Orso d’Argento come miglior attore protagonista in Detenuto in attesa
di giudizio di Nanni Loy. Nel 1981 poi Il marchese del Grillo di
Mario Monicelli si aggiudicò l’Orso d’Argento grazie anche alla magnifica
interpretazione di Alberto Soirdi nei panni del caustico marchese.
Durante
l’intervista che gli feci in occasione del nostro incontro berlinese, a
proposito del numero incredibile di film in cui aveva lavorato, lucidamente mi
disse: «Il mio stile è quello di prendere pezzi di cronaca e
rappresentarli… nell’immediato dopoguerra sono arrivato a dodici film in un
anno. Non avendo il fisico del comico, perché allora doveva essere buffo,
prendevo i personaggi della strada e li rappresentavo. Lo spunto era il
neorealismo, e anziché fare un film drammatico lo facevo in chiave comica. In
questo genere, che poi e stato chiamato “commedia all’italiana”, sono
stato il primo, e siccome il costume in quegli anni cambiava così rapidamente,
dovevo rappresentare subito la realtà che mi circondava. Prima che un nuovo
cambiamento facesse invecchiare quella situazione.». Una scelta quindi
programmatica e perseguita con enorme perseveranza e successo.
All’inizio
della sua carriera Alberto Sordi fece non poca difficoltà ad imporre la sua
cifra stilistica in cui interpretava personaggi comici ma cinici, spesso tragicamente amari nel
fondo, che rappresentavano con satirica spietatezza l’italiano medio tendenzialmente
bugiardo, doppiogiochista, un po’ codardo, prepotente con i deboli e servile
con i potenti per mendicare qualche privilegio. Era arrivato addirittura a vestire, nel
film di Vittorio De Sica Il giudizio universale (1961), i panni di un
viscido mercante di bambini che li acquista in Italia per poi rivenderli in
America, fornendo al personaggio una sua inquietante “etica professionale”;
qualcosa, come scrisse acutamente Michele Serra, di “meravigliosamente
ambiguo perché non si capisce quanto ci fosse di denuncia e quanto di
compiacimento nei suoi personaggi”.
Alberto
Sordi, sempre con grande
ironia e pungente sarcasmo, nel corso della sua carriera ha rappresentato in
maniera così efficace la pervasività dell’italiano medio da indurre, pensiamo,
anche lo stesso Pier Paolo Pasolini ne La ricotta
(1963), per bocca di Orson Welles, a definire quel tipo di personaggio come «… un mostro, un pericoloso delinquente, conformista,
colonialista, razzista, schiavista, qualunquista …».
Un’indignazione che arriverà fino a Nanni Moretti quando in Ecce Bombo, (1978) icasticamente griderà: «Ma che siamo in un
film di Alberto Sordi… Te lo meriti Alberto Sordi».
Sì, ce lo meritiamo questo grande protagonista del cinema
italiano, questo implacabile specchio cinematografico delle nostre debolezze
che ancora oggi immutabilmente ci accompagnano “grazie a” quei personaggi
qualunquisti e opportunisti, che cercano impunemente di ottenere, a spese del prossimo, il
massimo del profitto con il minimo sforzo. Ci manca, però, un nuovo Alberto
Sordi a rappresentarli.
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