Nico Naldini e il cinema
Ricordi di un prezioso testimone
Di Andrea Crozzoli
Un giorno Nico Naldini mi disse: «La speranza è un sentimento che non appartiene alla vita. Bisogna avere la vitalità di realizzare progetti, non speranze!» e questa vitalità l’ha avuta fino alla fine. Fino a quel fatidico mercoledì 9 settembre 2020 quando serenamente è passato dal sonno al sonno eterno. Intellettuale colto, raffinato, anticonformista fino all’imprevedibilità, Domenico Naldini, per tutti Nico, classe 1929, cugino di Pier Paolo Pasolini e a sua volta poeta, scrittore, regista e tanto altro, è stato da sempre vicino al lavoro di ricerca e raccolta documenti su Pasolini che Cinemazero ha portato, e porta, avanti da sempre.
Naldini, da sensibile e poliedrica personalità qual’era, aveva spesso frequentato i diversi territori del cinema. Nei tumultuosi Anni Settanta si cimentò nella regia con Fascista (1974) un film basato interamente sul montaggio di brani dei cinegiornali Luce con il commento di Giorgio Bassani. Il cugino Pier Paolo Pasolini disse a proposito del film: «Un’opera bellissima e pericolosa. Fascista privilegia il rapporto mistificatorio, ridicolo, bieco fra Mussolini e i suoi sudditi osannanti, sottolineando l’importanza dello stile oratorio del duce con le masse. Rispetto ai fascisti attuali, ormai dei veri e propri nazisti, quelli avevano un’aria casalinga.». Il lavoro venne presentato in quegli anni anche nella natìa Casarsa dal locale circolo del cinema con tanto di dibattito finale alla presenza dell’autore.
In quel periodo Naldini era responsabile della comunicazione per la PEA, la società di produzione di Alberto Grimaldi, potente produttore napoletano che aveva realizzato il meglio del cinema di qualità di quel tempo. Da Sergio Leone con Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), a Bernardo Bertolucci con Ultimo tango a Parigi (1972) e Novecento (1976). Poi Federico Fellini con Fellini Satyricon (1969) e Il Casanova di Federico Fellini (1976) fino a Pier Paolo Pasolini con la trilogia della vita: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974) e quell’ultimo capolavoro Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Sfuggì a Grimaldi solo C’era una volta in America che non riuscì a produrre per dei dissidi col regista. Leone, infatti, tra il 1967 e il 1977 lavorò su infinite versioni orali del film in quanto i diritti cinematografici del romanzo The Hoods (in Italia, Mano armata) di Harry Gray non erano disponibili. Grimaldi abilmente riuscì ad ottenerli, passando, però, poi la mano per dissapori sulla sceneggiatura con Leone. Chiesi a Naldini notizie su Grimaldi, su come lavorava questo mitico produttore: «Alberto Grimaldi non veniva mai sul set, lasciava fare tutto ai registi; lui era sempre chiuso nel suo ufficio circondato da telefoni. Era un gran parlatore e il suo lavoro consisteva nel convincere gli americani a finanziargli i film assicurandosi la distribuzione delle opere in tutto il mondo. E io preparavo le sinopsi per gli americani come responsabile della comunicazione. Per Salò ho dovuto inventarmene una, visto che non avrebbero mai sborsato un dollaro se avessero letto la vera sinopsi.». In vena di confidenze, quel giorno, Naldini mi precisò anche: «Per fare bene l’ufficio stampa nel cinema bisogna essere prima di tutto dei grandi ruffiani.» e con la sua lieve ma profonda ironia proseguì: «L’ufficio stampa richiede molto spesso di usare sapientemente l’adulazione o un atteggiamento di ostentata sottomissione per raggiungere i propri scopi. E io sono stato, in questo senso, ruffiano fino in fondo. Mi divertivo!».
Naldini, pur narcisista cosciente e responsabile, non ostentava mai. Se qualcuno ricordava il suo lavoro nel mondo del cinema, minimizzava, ironizzava, sorvolava con sapienza su questi aspetti. Il trascorrere del tempo lo aveva, però, addolcito, aveva smussato gli angoli spigolosi del suo carattere che lo avevano spesso portato, sempre con estrema classe, a sfuriate fulminanti come quella cui avevo assistito nel 1994 in occasione di un grande omaggio a Pasolini da lui coordinato. Aveva chiesto, ad un noto studioso e docente friulano, di collaborare alla parte fotografica dell’esposizione che vedeva Cinemazero impegnato in prima persona. Lo studioso era attirato dalla cosa ma non gradiva molto la presenza di Cinemazero, temendo forse di non riuscire ad avere la giusta visibilità. Naldini spazientito da quell’atteggiamento tentennante e temporeggiatore prese in mano il telefono e gli chiese se voleva aderire al progetto o meno, aggiungendo perentorio: «Sia il tuo parlare sì, sì o no, no; il di più viene dal maligno.». A questa citazione dal Vangelo secondo Matteo il docente rispose: «Si, ma …» Non riuscì a terminare la frase che Naldini con rabbia aveva già chiuso perentoriamente la comunicazione.
Durante questi ultimi trent’anni ci siamo incontrati in moltissime altre occasioni, comprese le presentazioni dei suoi molti libri redatti sempre con una felice e affabulatoria prosa poetica che lo pone, a mio avviso, tra i grandi scrittori italiani contemporanei.
Nel giugno 2014 avevamo visitato assieme l’indimenticabile mostra “Trame di cinema – Danilo Donati e la Sartoria Farani” che Piero Colussi aveva portato a Villa Manin di Passariano.
Seduto su un divano rosso di sapore buñuelliano [vedi foto sopra], Nico Naldini, visibilmente emozionato per le suggestioni ricevute da tutti quei costumi che lui aveva visto indossati sui vari set cinematografici, si lasciò andare ai ricordi: «Per Salò Grimaldi cercava un fotografo di scena discreto, fuori da giri romanocentrici, che non lasciasse trapelare alcuna immagine, sia per la particolarità del film, sia per evitare scandali e processi che spesso precedevano e accompagnavano i lavori di Pasolini. Gli indicai quindi Deborah Beer, inglese, discretissima e brava, oltre ad essere la compagna di Gideon Bachmann, vecchia conoscenza di Pasolini. Deborah Beer, che stava lavorando sul set di Novecento, abbandonò tutto e seguì magnificamente l’intera lavorazione del blindatissimo set di Salò!». È quindi grazie anche a Naldini se ora quei negativi, quegli scatti esclusivi sul set di Salò, sono conservati presso l’archivio di Cinemazero.
Le sue frequentazioni “ruffiane”, come addetto stampa, facevano di Nico Naldini una inesauribile fonte di aneddoti e storie: «Federico Fellini quando doveva iniziare un nuovo film, convocava i diversi collaboratori fra cui il costumista Piero Tosi, cercando di portarlo in un’eterosessualità che Tosi non gradiva affatto. Fellini lo condusse in un locale di striptease dal quale Piero Tosi fuggì inorridito. Da allora non ha più voluto parlare con Fellini. Subentrò così Danilo Donati, al quale Federico rimproverava, durante il Casanova, una eccessiva furia creativa. Fellini voleva fare le cose con calma mentre Donati era una forza della natura. Per quanto riguarda Tosi, lui rimase nell’ambiente di Luchino Visconti, dove erano tutti sotto il pressante dominio visconteo. Un enclave molto crudele, come la definì Pasolini, con giudizi netti, trancianti. Per cui o si era dentro o si era fuori del clan. Pasolini, e noi tutti, eravamo fuori.».
L’ultima testimonianza, sempre sul filo poetico della leggera ironia, Naldini l’aveva concessa recentissimamente per il bellissimo documentario In un futuro aprile (2020) di Francesco Costabile e Federico Savonitto dove raccontava, scevro da ogni nostalgica malinconia, gli anni giovanili in Friuli accanto al cugino.
Con Naldini, purtroppo, se n’è andato per sempre un insostituibile, prezioso e acuto testimone del novecento italiano. Ci restano, fortunatamente, per sempre le sue opere.