Piattaforma uguale a forma piatta?

Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede                                                           sentieri di cinema!

di Andrea Crozzoli

Nel finale di È stata la mano di Dio, decimo film di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano urla a Fabietto, ossia al Sorrentino adolescente della finzione: «A tien’ ‘na cosa ‘a raccuntà?». La risposta dovrebbe venire direttamente dal cinquantenne regista napoletano – come di consueto autore anche della sceneggiatura – argomentando il perché delle sua scelta di raccontare mescolando realtà, ricostruzione romanzesca e finzione in una struttura di fondo sostanzialmente lineare e temporalmente conseguenziale seppur priva di quel barocchismo emerso con vigore nei suoi film precedenti. Qui Sorrentino sembra giunto “a un O.K. Corral dei sentimenti, una resa dei conti dal sapore crepuscolare”. Ha dichiarato numerosissime volte il suo amore per Federico Fellini, citato continuamente nel suo cinema, tanto che in questo film entra addirittura in scena (solo in voce) e lo sentiamo discutere mentre sceglie le comparse a Napoli. Ma già nell’incipit Sorrentino cita il grande riminese con l’ingorgo iniziale di auto, come in Otto e mezzo, che appare direttamente in piazza del Plebiscito, dopo una lunga carellata dal mare, su Napoli e il suo golfo. Un sogno che, freudianamente, è contaminato dalla realtà e l’apparizione onirica di San Gennaro su auto d’epoca che imbarca la zia Patrizia e lascia a quest’ultima, dopo una prestazione, del denaro che il marito però ritroverà nella borsetta della moglie. Il buon Sorrentino non rinuncia del tutto ai suoi stilemi e infila nel film anche un fraticello nano che saluta nel finale il nostro Fabietto imbarcato sul treno per Roma come il Moraldo de I vitelloni.

Paolo Sorrentino e Toni Servillo

Se quasi 60 anni or sono Federico Fellini con l’insuperato capolavoro Otto e mezzo aveva ridisegnato la struttura stessa del film con sogni, ricordi, proiezioni visive, desideri visualizzati, associazioni mentali che si disponevano sullo stesso piano, intersecandosi e mescolandosi, quasi a “fotografare” la coscienza nel suo fluire. Sorrentino sceglie, invece, la strada classica, della semplice narrazione attraverso un montaggio lineare, dove l’unione delle diverse inquadrature, avviene secondo criteri di logica e di continuità, organizzando una semplice concatenazione delle inquadrature e la loro sequenzialità. Come scrivere con una bella calligrafia indipendentemente dai contenuti. Da Paolo Sorrentino si sarebbe aspettato e preteso qualcosa di più. Da chi mira al secondo Oscar ci saremmo aspettati una narrazione più articolata, più complessa, più personale se non autoriale. Ci saremmo aspettati ad esempio un uso nuovo del montaggio, perché nello specifico filmico è l’elemento che fa assurgere il cinema ad autonoma espressione artistica, emotiva, intellettuale che può essere di straordinario impatto. Otto e mezzo in questo senso è l’esempio più classico, il punto di riferimento ineludibile. Sorrentino invece sembra rinunciare ad ogni ricerca stilistica, che possa disturbare o confondere la linearità del racconto. Evita accuratamente il montaggio alternato o parallelo ma anche il montaggio discontinuo, così come evita flash-back o flash-forward, per non parlare delle ellissi. Sembra imperare in lui l’esigenza programmatica di voler farsi capire da tutti, a prescindere. Inseguire l’universalità ad ogni costo. Forse perché il produttore è una piattaforma che deve veicolare i suoi prodotti agli oltre 200 milioni di abbonati sparsi in tutto il mondo? Questo significa abbassare il livello di scrittura filmica, per renderlo comprensibile al maggior numero di persone come stigmatizza anche il lungimirante Nanni Moretti che vede nelle piattaforme il responsabile principale del condizionamento verso il basso del percorso espressivo di un autore. Il risultato è un film affossato da diverse cadute di stile, pieno di situazioni in bilico fra il grottesco e il superfluo nel raccontare la tempesta ormonale di questo 15enne, privo di amicizie, di una ragazza, perso per il seno mozzafiato di sua zia ma anche per la disponibilità allo svezzamento di una matura baronessa. Insomma un film che è “una cerimonia di transustanziazione in cui l’auteur si offre eucaristicamente allo spettatore. Smette di essere stile e si fa corpo filmico. Come Dio. Prendete e guardatene tutti.” (cit.).

Vampyr – Il vampiro

il cinema ritrovato a Cinemazero

Di Paolo Antonio D’Andrea

Con il mese di gennaio ritorna l’appuntamento con i classici restaurati della Cineteca di Bologna. L’occasione, in questo caso, la fornisce un anniversario di particolare importanza: a compiere 90 anni, senza sentirli, è Vampyr – Il vampiro (Vampyr – Der Traum des Allan Grey, 1932) di Carl Theodor Dreyer, capolavoro assoluto di uno dei più straordinari registi della storia del cinema. Prodotto subito dopo l’exploit della Passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928), Vampyr prende ispirazione dal più famoso racconto di vampirismo femminile, Carmilla (1872) di Sheridan Le Fanu, ed è il primo film sonoro del regista danese.

Nonostante gli autorevolissimi precedenti tratti da Bram Stoker (il Nosferatu di Murnau e il Dracula di Browning), la pellicola di Dreyer appare come un unicum: un horror stranamente solare, ove il bianco prevale sul nero, con protagonista “un sognatore e fantasticatore che ha smarrito il confine tra la realtà e il soprannaturale”, figlio ultimo dei sonnambuli dell’espressionismo tedesco. La straniante complessità di un film girato con la logica illogica del sogno valse a Dreyer, all’epoca, un eclatante insuccesso. Oggi, con occhi diversi, non possiamo non gridare al miracolo. Basterebbe il sintagma alternato con cui Vampyr principia: da una parte un uomo con una falce in spalla, dall’altra un angelo – è l’insegna della locanda ove alloggerà Grey. Quella che a prima vista appare come un’antinomia piuttosto schematica, nasconde un capovolgimento: dacché, in Vampyr, la morte è salvezza e l’immortalità dannazione. Beato colui che, umano, muore; maledetto colui che, vampiro, vive in eterno. Non è un caso che una delle immagini più celebri del film, la soggettiva del protagonista dall’interno di una cassa da morto, ci racconti proprio dell’orrore di chi vede ancora, nonostante il trapasso.

Come da prassi, all’epoca il film venne girato in tre versioni per il mercato estero. Le (poche) scene in cui gli attori parlano furono rifatte in tedesco, francese e inglese. Il parlato, tuttavia, ha ben poca rilevanza nella sua economia narrativa: Dreyer gira ancora con lo spirito del muto, ma il suo non è misoneismo, è amore per l’immagine che racconta da sé. Impossibile non soffermarsi dunque sulla pregnanza di una pellicola che costituisce un’intatta lezione di cinema a novant’anni di distanza. L’analisi sarà affidata all’oramai consueto appuntamento con Lo Sguardo dei Maestri, dedicato, sulla scorta del successo del precedente incontro dedicato a Mulholland Drive di David Lynch, alla “vivisezione” di un capolavoro che, come ha scritto Edvin Kau, fonde “gioco, thriller psicologico e metafilm”.

Arrivederci dunque a un 2022 che, come da tradizione, vedrà Cinemazero camminare a passi spediti verso il futuro, ma con una valigia piena di classici.

LA FILM COMMISSION FVG A UNA SVOLTA

Di Lorenzo Codelli

Gli organi di stampa hanno annunciato il 9 dicembre che la Film Commission FVG, finora ente autonomo, sta per essere assorbita dalla Promo Turismo FVG. La nostra rivista intende sollecitare cineasti, addetti ai lavori e cinefili a intervenire su questo tema. In 21 anni la FC ha sostenuto 71 film, 56 fiction, 51 documentari, 20 spot, secondo il database del sito http://www.fvgfilmcommission.com

        In questa fase di transizione abbiamo posto tre domande a Federico Poillucci, ex presidente della FC, e al suo collega Gianluca Novel.

Con la nuova gestione della FVGFC potranno ulteriormente crescere sia le lavorazioni da parte di soggetti esterni che i progetti dei cineasti locali?

GN Si, questa è la speranza. Ovvero che le possibilità che l’audiovisivo offre in termini di promozione territoriale possa esser colta appieno da Promo Turismo e che si decida quindi di aumentare la dotazione del Film Fund o di introdurre nuovi incentivi.

Ci saranno fondi per sviluppare maestranze e attrezzature hi-tech in regione?

GN E’ difficile rispondere a questa domanda, molto dipenderà dalla direzione che il nuovo responsabile vorrà dare alla struttura. Personalmente, penso che ogni azione in questo senso dovrà per forza essere coordinata con il Fondo Regionale per l’Audiovisivo, in quanto istituito tra le altre cose proprio per qualificare le risorse professionali regionali.

Verrà applicato il deposito legale di una copia di ciascuna produzione allArchivio Film FVG?

FP Il regolamento del Film Fund continuerà a prevedere le stesse condizioni anche in capo alla nuova struttura.

PIF: LA VITA AI TEMPI DELL’ALGORITMO

Di Marco Fortunato

Dal palco di Cinemazero, nel 2016, aveva spoilerato il finale del suo film (In guerra per amore) prima di lasciare al grande schermo le avventure di Arturo Giammaresi, il suo alter ego cinematografico dai tempi di La mafia uccide solo d’estate, che avrebbe raccolto risate ed applausi, nella sua travagliata ricerca dell’amore. E proprio Arturo – interpretato da un Fabio De Luigi abile nell’apparire sempre fuori posto, incapace di comprendere quanto gli sta accadendo e soprattutto come uscirne -, e con lui naturalmente PIF – all’anagrafe Pierfrancesco Diliberto – si apprestano a tornare sul grande schermo di Cinemazero il prossimo mercoledì 26 gennaio.  Per l’occasione l’autore palermitano sarà presente in sala per incontrare il pubblico e raccontare la genesi della sua terza fatica dietro la macchina da presa il cui titolo è quantomai eloquente: E noi come stronzi rimanemmo a guardare.

Più che un titolo quasi una spietata autocritica, o meglio un’amara constatazione, da cui anche lo stesso regista non si sottrae, sulla collettiva indifferenza della nostra società verso la deriva di un’inarrestabile corsa alla globalizzazione senza regole che tutto travolge, dalla vita lavorativa a quella privata. Un piano inclinato che ci fa scivolare, tutti, sempre più in basso, in una continua corsa all’efficienza, al risparmio e all’ottimizzazione (ma di cosa poi?). Un crescendo di smarrimento e alienazione di cui, inizialmente, ci troviamo a sorridere, seppur a denti stretti, per poi ritrovarci immersi fino al collo, sfiduciati e privi di prospettive.

Proprio come accade nel film ad Arturo il cui beffardo destino fa si che proprio lui sia vittima del suo stesso algoritmo che ne decreta inesorabilmente l’inutilità lavorativa, l’anzianità e le scarse prospettive sentimentali, come certificano delle app dedicate. L’unica scelta obbligata diventerà allora quella di arruolarsi per Fuuber moderna ditta di consegne che paga a cottimo secondo un meccanismo di incentivazione che premia o punisce chi non sta alle regole del gioco o non soddisfa le assurde pretese dei clienti.

Un film che tocca quindimolti temi, dalla frustrazione del presente alla paura per il futuro, passando per l’ansia di subire un controllo assoluto e totale, creando una costante situazione di sospensione dove tutti, protagonisti e pubblico, percepiscono una sensazione di straniamento e di palpabile disagio (lo zaino per le consegne di Arturo che si blocca è una metafora della sua incapacità di muoversi nell’ambiente e nella vita che lo circonda.

Un risultato a cui contribuisce il meccanismo narrativo che lo stesso PIF aveva già utilizzato in precedenza (in particolare nel  suo primo programma televisivo individuale, Il testimone, dove raccontava da vicino i dettagli di vita quotidiana di personaggi legati a sport, politica, spettacolo seguendoli come un’ombra) che qui troviamo declinato in Raffaello, interpretato proprio da PIF,  i cui occhi curiosi e i cui dubbi, un po’ complici, un po’ consolatori, accompagnano lo spettatore, un po’ alla volta, sempre più vicino ad Arturo e al suo mondo, dove presto il cinico sorriso lascia spazio all’amara riflessione.