Piccolo Corpo: intervista a Laura Samani
Di Cinemazero Young Club
Una tematica centrale nel tuo film Piccolo Corpo è, appunto, quella del corpo, più precisamente il corpo delle donne. Siamo all’inizio del 1900, in un piccolo villaggio di pescatori del nord Italia dove emergono le dinamiche di genere del tempo, eppure le due figure centrali del film compiono delle scelte autonome: si appropriano del loro corpo così come della loro identità, non sono oggetti come il tempo e il luogo vorrebbe ma sono soggetti propri. Quando hai deciso di voler analizzare la complessità della questione di genere? E come pensi che il cinema possa produrre un cambiamento rispetto a questa tematica?
Laura Samani “Io non ero cosciente di questo tipo di argomento, nel senso che non ho pensato di voler raccontare di un corpo di una donna a cui succedono queste cose, ma semplicemente volevo parlare di un essere umano. In realtà mi contraddico, perché dai documenti emerge che erano gli uomini a fare questo tipo di viaggi e io sono andata in automatico a pensare cosa sarebbe successo se l’avesse fatto una donna. È stato un po’ un caso, è più legato al mio carattere, mi piace concentrarmi su ciò che è raccontato in maniera non ufficiale. Ci sono colleghi/e che fanno azioni politiche più coscienti rispetto a quelle che faccio io, quindi secondo me è in qualche misura un racconto politico sul corpo femminile però non intenzionale, ma spontaneo su come vivo io le cose.
Oltre alla questione del corpo femminile, nel film emerge il tema della maternità e con essa un dolore che raramente viene rappresentato sul grande schermo, ossia quello causato dalla perdita di ciò che si è creato. Cosa e chi ti ha ispirato questa storia? Quali sono le esperienze, secondo te, che ti hanno permesso di affrontare una questione così delicata in una maniera tanto realistica, sensibile e toccante?
LS: “Il modo in cui è iniziato è proprio da un racconto. Un signore della bassa friulana mi ha raccontato dell’esistenza di questi santuari e mi sono subito incuriosita e informata. Quindi è iniziato in maniera semplice con un “c’era una volta”. Io sono rimasta molto toccata da questo argomento. Parlare tramite metafore, simboli di qualcosa che ti appartiene o non sapevi ti appartenesse, te lo fa vedere immedesimandosi nella protagonista.
Vi ringrazio che lo abbiate definito delicato, questo è stato merito della squadra. In realtà una delle cose più belle che si possono fare creando un film è proprio confrontarsi su quello di cui stai parlando, che magari non riguarda direttamente la tua vita personale, ma c’è un motivo per cui vuoi farlo. E così con tutti gli altri collaboratori/trici ci si trova a parlare del film, delle cose che piacciono di più o meno e capire il perché. Inizi a conoscere delle cose su di te e gli altri che prima non sapevi, perché ci emozioniamo il modo diverso. Fare un film è un lavoro di gruppo a differenza di altre forme d’arte.
Nel film la religione gioca un ruolo centrale. È proprio la speranza di un miracolo che spinge la protagonista ad intraprendere il viaggio verso un santuario per battezzare la figlia nata morta e permetterle di abbandonare il limbo. L’aspetto religioso si fonde così con le credenze locali che ricordano le fiabe con le quali siamo cresciuti. Questo mescolarsi di religione e fiabe era già presente nel tuo cortometraggio “la santa che dorme” del 2016. Secondo te cosa si nasconde dietro il bisogno della protagonista e il genere umano di credere in qualcosa?
LS: “Non penso di poter rispondere a nome dell’intero genere umano, ma si collega un po’ a quello che dicevo prima. Secondo me c’è bisogno di cercare qualcosa di sacro, inteso come qualcosa di prezioso dove va il tuo affetto da tenere al sicuro e che esula dalla questione della fede, della religione. Sta sul darsi delle spiegazioni su quelle cose non materiali, c’è qualcosa oltre la materialità, la realtà, ed è il sacro.
Sotto diversi
punti di vista Piccolo Corpo è un film audace ed innovativo: non solo
hai deciso di portare sullo schermo una storia poco conosciuta, ma hai deciso
di farlo in friulano e altri dialetti altrettanto sconosciuti. La lingua è
l’elemento per eccellenza che definisce l’appartenenza ad un territorio, in
questo film essa ha molteplici significati, ad esempio la contaminazione
dell’incontro con l’altro. Per quale motivo hai preso questa scelta linguistica,
correndo il rischio di allontanare il grande pubblico?
LS: “Perché secondo me il grande pubblico si allontana per altre ragioni. Negli
ultimi anni ci siamo abituati a vedere molte cose sottotitolate, solo che
diventa un vanto quando le lingue sono conosciute, come il francese e
l’inglese, mentre per i dialetti meno. Non sono partita dall’idea di voler
educare le persone alla lingua friulana, ma era l’idea iniziale in quanto necessità
filologica: nessuno parlava italiano all’inizio del ‘900 in Friuli. Scelta che
è stata appoggiata subito da Nefertiti Film (produttori e distributori del
film), loro hanno esperienza e credono molto
nell’appropriatezza del linguaggio. Poi con il tempo è cambiato il significato:
è diventato più politico, ampio e allo stesso tempo più privato. Mi sono resa
conto che nella nostra regione, al confine con la Slovenia, ci sono state molte
repressioni sanguinose riguardo l’utilizzo di molti dialetti, di origine slava,
che durante il fascismo erano vietati. Nel caso della mia famiglia si parlava
sloveno fino a qualche generazione fa e ora è stato completamente messo da
parte. Quindi mi sono resa conto che ci sono ancora molte ferite al riguardo e
che la lingua è una questione di identità e questo film parla di identità:
volevo che le persone si esprimessero con il linguaggio con cui pensano. Nel
film ci sono degli errori filologici perché ho deciso di far parlare, anche in
modo liberatorio, i protagonisti con il proprio dialetto.
Il film è fatto anche di silenzi. La scena in cui Agata attraversa il lago nel silenzio nel bianco abbagliante delle montagne friulane è una sinestesia molto intensa. Se c’è, qual è stato il momento che ti ha lasciata senza parole durante questo viaggio sul tuo territorio? Qual è invece il luogo più ricco di significato per te?
LS: “Senza parole ci sono rimasta nella scena che abbiamo girato a Orias, in Val pesarina, dove i due personaggi principali si separano(SPOILER). Era una scena molto difficile da girare, ha iniziato a nevicare senza che ce lo aspettassimo ed è stato un momento pazzesco. Penso che anche per la seconda risposta sceglierei sempre questo posto, nel quale abbiamo passato molto tempo. Non perché sia il mio posto preferito rispetto ad altre location; perché tutte, cercate personalmente con Giulio Squarci (aiuto regia) girando per un anno in tutta la regione, sono state scelte cercando la giusta “vibrazione”/ connessione, dedicandoci tempo.