Poesia doc: raccontare i poeti al cinema.

Un progetto di Cinemazero e Pordenonelegge

Dallo scorso anno Pordenonelegge e Cinemazero si impegnano a far dialogare poesia e cinema, due ambiti nei quali è comune la volontà di incarnare il mondo, mostrando al contempo qualcosa di più, di inafferrabile nel suo esporsi agli occhi e all’ascolto di tutti. Inoltre, negli ultimi anni, sempre più di frequente le vite dei poeti vengono raccontate attraverso le immagini, la loro voce e quella di chi li ha conosciuti, nei luoghi da loro vissuti e evocati. Ne vengono fuori intensi ritratti sull’uomo e la sua opera, talora intrecciate, in altri casi ineffabilmente discoste. Ecco, dunque, il senso di questa collaborazione, che quest’anno a Pordenonelegge vedrà la proiezione di preziosi documentari.

Mercoledì 14 settembre alle 17.30 sarà la volta di Appunti per unOrestiade africana, un film documentario italiano del 1970, diretto da Pier Paolo Pasolini, girato come sopralluogo in Africa per la produzione successiva, mai effettuata, di un film che prendesse spunto dalla tragedia dell’Orestiade di Eschilo. Al termine della proiezione ci sarà un intervento musicale di Pasquale Innarella, sassofonista jazz, in un omaggio a Gato Barbieri, autore della celebre colonna sonora del film.

Giovedì 15 settembre alle 17.30 Logos Zanzotto, il documentario di Denis Brotto che ripercorre l’opera poetica di Zanzotto, restituendo soprattutto la sua voce, il suo logos capace come nessun altro di definire il paesaggio. È anche uno sguardo attorno ai versi e agli straordinari paesaggi che sono stati materia prima dello sguardo di Zanzotto sulla vita, attraverso le parole di Massimo Cacciari, Giosetta Fioroni, Andrea Cortellessa e Stefano Dal Bianco.

Venerdì 16 settembre alle 17.30 sarà proiettato Mondonuovo, un documentario di Davide Ferrario del 2003, dove Gianni Celati (poeta, romanziere e intellettuale eterodosso e appartato) vaga tra ferrarese, reggiano e modenese tra ricordi e considerazioni di ogni tipo. Una terra di mezzo, sospesa tra fantasmi del passato e modernità surreale. La troupe al suo seguito va alla ricerca di Sandolo, il paesino dove nacque la madre di Celati, e si mette sulle tracce del viaggio compiuto all’inizio del secolo dalla famiglia della donna per trasferirsi da Portomaggiore a Ferrara.

A concludere la rassegna sabato 17 settembre alle 17.30 ci sarà Pasolini 11#22, la serie di undici video realizzati per il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale dalla Fondazione Pordenonelegge.it (che collabora alla direzione artistica del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia). Essi compongono una microstoria poetica dell’autore a Casarsa, nel centenario della sua nascita e, allo stesso tempo, una panoramica di undici significative giovani voci della poesia italiana in ascolto del mito e della poesia dei loro luoghi.

Scala Reale

di Marco Fortunato

In una mano di poker solo un punto può battere quattro carte uguali (il poker appunto) ed è la scala reale. Essa è una scala composta di cinque carte, diverse per valore ma accomunate dallo stesso seme. Parafrasando la metafora è con questa “mano” che l’Italia si presenta quest’anno al Lido, cinque ottimi registi di grande esperienza –  Amelio, Crialese, Guadagnino, Nicchiarelli, Pallaoro, rigorosamente in ordine alfabetico – pronti a tutto per riportare in patria un Leone d’Oro che non parla italiano dal 2013.

In quell’anno fu Gianfranco Rosi (peraltro in maniera piuttosto inaspettata) a trionfare con Sacro Gra. Prima di lui, ma si parla di oltre vent’anni fa, l’ultimo italiano ad essere premiato fu proprio uno dei registi in concorso quest’anno, Gianni Amelio, (con Così ridevano nel 1998) che quest’anno porta sul grande schermo Il signore delle formiche. Al centro del suo ultimo lavorola tragica vicenda che colpì il drammaturgo e poeta Aldo Braibanti che, alla fine degli anni Settanta, fu condannato a nove anni di reclusione con l’accusa di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico, che a sua volta verrà internato in un ospedale psichiatrico e sottoposto a pesanti cure per “guarire” da quella diabolica influenza. Prendendo spunto da fatti realmente accaduti, il film, grazie ad una struttura corale, dove accanto alla voce dell’imputato, prende corpo quella dei famigliari ed amici, di accusatori e sostenitori, e di un’opinione pubblica per lo più distratta o indifferente fa emergere come l’unica colpa di Braibanti fosse l’omosessualità e come il reato di plagio, peraltro abolito poco dopo, fosse servito per metterne sotto accusa la diversità.

Nello stesso periodo si svolge la storia raccontata Emanuele Crialese, autore molto legato a Venezia dove i suoi film hanno sempre incontrato grande affetto di pubblico e critica (Nuovomondo presentato al Lido nel 2006 gli valse il Leone d’Argento e Terraferma, di cinque anni successivo, fu accolto da una standing ovation) che presenterà L’immensità. “È il film che inseguo da sempre” ha dichiarato il regista romano “è sempre stato “il mio prossimo film”, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro” anticipando che il tema portante del film sarà la famiglia e sui suoi legami. Nel cast Penélope Cruz nei panni di Clara una donna che si trasferisce, malgrado l’amore verso il marito sia finito, in un nuovo appartamento, proseguendo il matrimonio e la convivenza per il solo amore verso i propri figli.

Di poco successiva (siamo durante la presidenza Reagan tra il 1981 e il 1989 ma ci spostiamo in America) l’ambientazione scelta da Luca Guadagnino che ritrova Timothée Chalamet in Bones and All,adattamento dell’omonimo romanzo scritto dalla statunitense Camille DeAngelis. Una storia di formazione a tinte decisamente forti (tanto da essere classificato, ad oggi, come horror) che ha per protagonisti due emarginati, Maren una giovane donna che sta imparando a vivere ai margini della società e Lee un vagabondo dall’animo solitario che tentano di trovare il proprio posto del mondo e capire la forza del loro amore. La sceneggiatura porta la firma di David Kajganic, che aveva già lavorato insieme a Luca Guadagnino in occasione di Suspiria e A Bigger Splash  

Chi invece ci costringe a un enorme salto all’indietro nel tempo è Susanna Nicchiarelli.  Il suo Chiara nasce infatti in un contesto spazio-temporale assolutamente preciso: Assisi, 1211. È in quell’anno che Chiara, diciotto anni appena compiuti, decide di scappare di casa per raggiungere il suo amico Francesco: da quel momento la sua vita cambia per sempre. La sua è la storia di una santa ma anche, e ancora prima, di una ragazza e del suo sogno di libertà che, nelle intensioni della regista e sceneggiatrice romana – habitué della kermesse veneziana – punta a riscoprire la dimensione politica, oltre che spirituale, della “radicalità” delle loro vite votate alla povertà e alla semplicità.

Chiude questa carrellata, necessariamente incompleta e frutto della raccolta di quanto sinora trapelato dalle produzioni (peraltro quest’anno molto più generose che in passato, forse nella consapevolezza che dare qualche informazione sul film possa aiutare a generare interesse nel pubblico) il nuovo lavoro di Andrea Palloro, anch’esso con un nome proprio femminile come titolo Monica. Non c’è santità, almeno non evidente, nella sua storia fatta comunque di un percorso di ricerca interiore che esplora i temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono. Monica, dopo vent’anni torna a casa per la prima volta dopo una lunga assenza, ritrovando sua madre e il resto della sua famiglia, da cui si era allontanata costringendosi ad un difficile confronto con sé stessa e il proprio passato. Non mancano, e non è certo un caso, le analogie con storia di Hannah (interpretata da una sontuosa Charlotte Rampling meritatissima vincitrice della Coppa Volpi) protagonista del primo capitolo della trilogia dedicata alle donne realizzata da Pallaoro.

Vola a Toronto il Colibrì di Francesca Archibugi

di Andrea Crozzoli

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              Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                                     sentieri di cinema!

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Sabato 16 settembre Francesca Archibugi sarà presente al prestigioso Toronto International Film Festival per l’attesa anteprima mondiale de Il Colibrì, l’ultima sua fatica cinematografica, tratta dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi con un cast stellare: da Pierfrancesco Favino a Kasia Smutniak, da Nanni Moretti a Berenice Bejo, da Laura Morante a Benedetta Porcaroli. Raggiungerà il Canada direttamente dal set dove sta lavorando ad un film tratto dal capolavoro di Elsa Morante La storia. Un impegno che la Archibugi definisce «enorme» e che ha Jasmine Trinca come protagonista assieme a Valerio Mastandrea, Elio Germano e Asia Argento.

Sempre alle prese con film tratti da testi letterari. Qual’è il tuo rapporto tra parola scritta e immagini?

Io dentro i libri non vedo immagini, vedo struttura, plot, trama, personaggi. Poi il lavoro nel cinema è proprio un’altra cosa. Raccontare sullo schermo lo si fa riscrivendo questi testi, in quanto la trasposizione cinematografica ha la necessità di diventare immagine, scene, volti, ambientazioni, personaggi. C’è la necessità di comporre una sequenza, in dettaglio o in campo lungo, se ti avvicini o meno ai personaggi con la macchina da presa, etc. etc. Questa è un po’ la regia. Dai libri cerco, quindi, di prendere qualcosa che è interna al testo, soprattutto per quanto riguarda la trama e personaggi. Il film è completamente un’altra lingua rispetto al testo scritto.

Il libro Il Colibrì di Sandro Veronesi, è il racconto della vita di Marco Carrera, una vita di coincidenze fatali, perdite e amori assoluti. Recentemente hai dichiarato di aver «amato tanto questo romanzo da considerarlo un pezzo della mia biografia». In che senso?

Nel senso che attraversa mondi che mi sono molto contigui. Un certo tipo di borghesia ad esempio. Che è sempre difficile da rappresentare in quanto è molto inviso raccontare questo mondo, soprattutto al cinema. Mentre in letteratura no: da Jonathan Franzen a Donna Parker a Veronesi stesso, tutti possono raccontare la borghesia senza che sia vista come un momento riduttivo di lettura del mondo. La cosa veramente importante è che ognuno, però, racconti ciò che sa raccontare e che riesca a raggiungere un buon livello di profondità. Aldilà dei grandi scrittori che ho citato, è quello che cerco di fare io nel cinema. Raccontare un mondo che, come tutti mondi, non è né buono né cattivo, ma pieno di chiaroscuri tanto quanto gli esseri umani. I chiaroscuri della vita. Fare dei film sui borghesi significa dare anche una connotazione antropologica ai personaggi e questo aspetto mi sta molto a cuore, anche perché è un mondo che in qualche modo conosco. Un ambiente dove “il denaro muove il mondo” come diceva Balzac.

Raccontare un personaggio maschile non rappresenta quindi una questione di genere …

Che le donne debbano raccontare solo storie di donne è una cosa che trovo stucchevole, molto riduttiva oltre che fastidiosa. Una donna che affronta un personaggio maschile può farlo con grande acume e sensibilità, basti pensare al meraviglioso film di Jane Campion Il potere del cane.

Come è nata la produzione de Il Colibrì?

È stata una proposta di Domenico Procacci, della Fandango, caldeggiata anche da Sandro Veronesi e questo mi rende particolarmente orgogliosa. Conoscevo il romanzo e per questo ho avuto inizialmente timore. Sapevo che era un film che avrebbe avuto bisogno di un impianto forte, cosa che non sempre necessita. Ma per Il Colibrì c’era bisogno di rispettare questo impianto forte del romanzo e Procacci era perfettamente cosciente di questo. Ho scritto la sceneggiatura con Francesco Piccolo e Laura Paolucci, che è anche co produttrice del film. Nel film c’è anche Nanni Moretti nei panni dello psicanalista Carradori. Moretti aveva, a suo tempo, già interpretato Caos calmo tratto sempre da un romanzo di Veronesi. È stato, quindi, un po’ come farlo in famiglia. Questo ha reso possibile realizzare un film così complesso anche dal punto di vista emotivo.

Nanni Moretti nei panni di uno psicanalista. Come è andata con un attore che è anche regista e quindi collega?

Erano anni che inseguivo Nanni Moretti, dai tempi de Il grande cocomero quando gli avevo chiesto di interpretare lo psichiatra. Ora ha ceduto, quasi per sfinimento. Moretti porta, nel personaggio dello psicanalista Carradori qualcosa di misterioso per lo spettatore, una specie di doppio fondo. Una cosa che conferisce un gran fascino alla sua interpretazione. Del resto sono abbastanza convinta che chi sceglie di studiare i meccanismi del cervello spessissimo lo fa per motivi personali. Per questo uno è attirato da ciò che regola i movimenti dell’inconscio. Il vecchio detto che “gli psicanalisti sono tutti un po’ matti” ha un fondo di verità.

Nanni si affidava completamente …

Nanni Moretti è stato molto presente e molto creativo. Con assoluta gentilezza, mai prevaricatore, con grande rispetto dei ruoli e del lavoro della troupe. Il regista è una specie di infermiera fra gli attori e la troupe. La troupe è importantissima nella riuscita di un film: dal direttore della fotografia, allo scenografo, all’ultimo tecnico. Il cinema è un lavoro corale. Io ci metto molto tempo a scrivere la sceneggiatura. La carta poi deve confrontarsi sul set con l’emulsione fra attore e personaggio che vive la scena. Scena che richiede sempre una rimodulazione sul momento, sulle cose.

Sandro Veronesi ha visto il film?

Sandro l’ha visto ed è molto contento. A questa cosa ci tenevo tantissimo. La struttura narrativa del libro è quella di una storia raccontata a salti temporali e noi abbiamo, in sceneggiatura, rispettato scrupolosamente questo impianto. I vari momenti non hanno un ordine cronologico ma hanno un legame interno, sotterraneo. Questo era la grande forza del romanzo e noi l’abbiamo rispettata.

Qual’è l’aria che si respira nel mondo del cinema difronte a questa situazione di crisi generale delle sale. C’è ancora voglia di mettersi in gioco?

Siamo tutti, in questo complicato momento, a cercar di capire cosa sta succedendo davanti ai nostri occhi. Questa pandemia ha anticipato di almeno dieci anni l’evoluzione di un processo che era già in atto da tempo. Io stessa mi ero resa conto che una visione in casa su schermi sempre più grandi e sempre più belli con un suono sempre più sofisticato, stava lentamente allontanando la gente dalla sala cinematografica. La pandemia questa cosa l’ha accelerata. Oggi si vede più cinema di una volta, ma in maniera diversa. La riprova sono gli acquisti giganteschi di film e fiction delle televisioni e delle piattaforme. La sala, purtroppo, sta perdendo la centralità e questo mi dispiace molto. Ma sento che ci sono nuove opportunità, che non bisogna guardare indietro.

Ma la sala rimane il luogo deputato …

Per chi fa un lavoro come il mio, ovvero raccontare storie per immagini, vedere la sala cinematografica vuota è una perdita enorme. Sono andata, in un infrasettimanale, al cinema per Nostalgia di Martone ed ero sola. Unica spettatrice. Se escludiamo lo spettacolo delle nove del sabato sera per vedere la sala piena dobbiamo rivolgerci ai presidi culturali animati da associazioni come l’”Anteo” o il “Piccolo America” o “Cinemazero” e pochi altri, che fanno un lavoro stupendo. A Roma, in piazza San Cosimato il “Piccolo America” ha proiettato questa estate una mia retrospettiva, alla quale ho partecipato, totalizzando alla fine 90.000 spettatori. Gente che si portava la sedia da casa, molti non sapevano nemmeno chi ero io o che film si sarebbe proiettato, ma c’era tanta voglia di cinema. Ho ritrovato in quel luogo lo spettatore dei miei sogni. Una situazione che ti fa venire le lacrime agli occhi.

In Italia Il Colibrì uscirà ad ottobre sugli schermi. Tu lo accompagnerai?

Pur impegnata fino ai primi di dicembre nelle riprese de La storia, terrò i sabati e domenica liberi per andare a presentare il film, e a Pordenone vado sempre molto volentieri. Perché è un cinema speciale!

Pasolini e l’arte contemporanea: Daniele Puppi e Michele Spanghero, due nuovi installazioni dagli archivi di Cinemazero

di Riccardo Costantini

Settembre si apre con due installazioni di assoluta importanza realizzate da artisti del nostro territorio, a partire dal patrimonio pasoliniano di Cinemazero, nell’anno del centenario della nascita del poeta/regista: Daniele Puppi e Michele Spanghero si sono infatti confrontati a lungo con la ricchezza dei materiali che Cinemazero custodisce, soprattutto frutto delle collezioni, delle attività, dell’amicizia con Pasolini di Gideon Bachmann e Deborah Beer.

Daniele Puppi inaugurerà il 3 settembre la sua installazione “Infrasub” alla Fondazione Furlan a Pordenone, con l’anticipazione di un incontro con Bruno Di Marino (storico della visione) la sera prima a Cinemazero e la proposta di quattro suoi lavori nelle sale di Cinemazero. Il cinema verrà “occupato” dalla provocatoria arte visiva di Puppi: da sempre il suo lavoro è figlio della visione, intensa, viscerale, passionale, qualitativa, eccessiva, “più grande della vita”, come è quella del cinema. Nella sua formazione – artista nato e vissuto a lungo a Cordenons (PN), dove ha fatto ritorno da poco – il “godere” della visione coincide proprio con l’attività e gli spettacoli, i film, proiettati sul grande schermo di Cinemazero. Nei suoi racconti un posto del cuore per sogni, commistioni, sperimentazioni, lo ha il festival Le giornate del cinema muto. Ospitarlo nelle sale di Cinemazero significa oggi dunque più cose: poter riaccogliere un artista nel suo territorio e celebrare la sua consolidata carriera in uno dei luoghi chiave per l’esercizio del vedere; poi, approfondire in un’occasione di incontro unica la sua poetica e la sua formazione visuale, la sua attività attuale passata e i progetti per il futuro; un modo anche per comprendere nelle parole, nelle opere di uno dei videoartisti italiani più importanti, dove va questa forma di espressione fondamentale per l’oggi che spesso – nonostante, appunto, la sua importanza – non trova gli spazi e i luoghi adeguati per essere valorizzata. A concludere l’operazione ecco che l’occasione di meravigliarsi, leggere la costante ironia, spaventarsi, stupirsi, arrabbiarsi, di fronte alla potenza visiva dei lavori di Daniele Puppi – che spingeranno i proiettori di Cinemazero al limite – sarà anche il modo di riappropriarsi del concetto di limite dello schermo, della necessità del superarlo e della bellezza senza tempo di immergersi nella forza senza eguali della “macchina immagine”.

Michele Spanghero invece inaugura il 7 settembre nella prestigiosa sede della Cinémathèque Québécoise, a Montreal, grazie alla produzione voluta dall’Istituto Italiano di Cultura e dal suo direttore Sandro Cappelli, un’installazione sonora di particolare forza, basata su un megafono “negato” (che funziona al contrario, con lo spettatore chiamato ad ascoltare dal cono di ingresso del suono) intitolata Apri gli occhi! / Open Your Eyes! : Pasolini Out Loud.

Il lavoro di Michele Spanghero si muove da sempre fra suono, musica, voce, intesa anche come frequenza profonda di cose, anime, luoghi, persone e spazi che li circondando, che con essi dialogano, quasi avessero vita propria. Qui si confronta con le lunghe conversazioni di Gideon Bachmann con Pasolini (conservate da Cinemazero) estrapolando dalla mole di nastri che ha meticolosamente ascoltato una singola frase, icastica, tratta da una registrazione dal backstage di un film tremendo, perfetto, attuale e quanto mai tormentato per destino: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Isola un violento “Apri gli occhi!”, grido quasi disperato dello stesso Pasolini, che metaforicamente ci invita a “sentire” di nuovo, meglio, più in profondità, con maggiore convinzione la voce dell’autore. Troppo spesso le sue parole sono state etichettate come profetiche, piene di futuro, talvolta ciniche. In un anniversario così importante e celebrato in tutto il mondo è un modo anche per dire che c’è la necessità di ritornare all’opera, di riascoltare i poeti, risentirli più e più volte a far risuonare dentro di noi i versi, com’è anche della comprensione profonda della musica, del pensiero, della percezione più piena degli spazi e della loro relazione con l’essere umano. Il lavoro si colloca all’interno dei locali della Cinémathèque Québécoise, a Montreal, dove Pasolini fu presente più volte (una volta fisicamente per presentare Uccellaci e Ucellini, assieme a Ninetto Davoli nel 1966, poi coi suoi film…e proprio Salò fu duramente rifiutato). Due quinte di ritratti (tratti dagli archivi della Cinémathèque Québécoise e da quelli di Cinemazero), ci ricordano proprio la prima è più ben accolta visita di Pasolini e della sua opera a Montreal, ci parlano degli anni in cui la forza della sua parola era forse più compresa, seppur sempre ammantata di polemica.