«Porto da minha infância»

di Lorenzo Codelli

Manoel Cândido Pinto de Oliveira ci ha lasciato a 106 anni e 4 mesi compiuti, il 2 aprile 2015. Mi trovavo a Lisbona quel tristissimo giorno di lutto nazionale. Un feeling di saudade paragonabile ai sentimenti collettivi provati il giorno dell’addio in Italia a Federico Fellini, in Svezia a Ingmar Bergman, in Svizzera a Charlie Chaplin.

Avevo avuto la fortuna di conoscere de Oliveira alla Mostra di Venezia quand’era già più o meno centenario. Habitué di antica data del Lido, lucidissimo, brillante conversatore, se ne stava diritto in piedi al bar dell’Excelsior assieme alla moglie, Maria Isabel Brandão de Meneses de Almeida Carvalhais, un’elegante dama dieci anni più giovane di lui. C’era anche il suo direttore della fotografia, il mitico globetrotter svizzero Renato Berta, il quale nella sua recente autobiografia ha dedicato al cineasta portoghese delle pagine bellissime (Photogrammes, Grasset, Parigi 2021).

L’ascesa in Paradiso di San Manoel ci regalò un lungometraggio che egli aveva concepito per i posteri, un autoritratto nostalgico girato nel 1982 che aveva deciso di non mostrare in vita: Visita ou Memórias e Confissões. Capolavoro assoluto.

Lo Stato portoghese ci ha riflettuto assai bene su come rendere un omaggio, vitale e non sepolcrale, al padre-padrone del cinema muto e sonoro nazionale più celebre nell’universo. La scelta non avrebbe potuto essere più azzeccata, anzi più deoliveriana.

Situata a Porto naturalmente, la “città della mia infanzia”, tuttora traboccante di antichi caffé, di teatri e palazzi storici délabrés, di lungofiume e piazzali nei quali de Oliveira visse, amò e filmò.

Un po’ fuori città, sull’estuario del Douro, fauna fluvial (1931, esordio del regista), nel verdissimo parco di Serralves si erge il neo-lloydwrightiano Museu de Arte Contemporânea. Nelle sue diverse ale i massimi artisti di oggi, da Ai Wei Wei a Jeff Koons, propongono mostre temporanee di forte impatto.

Girando per il parco, tra fontane stile Boboli, prati infiniti che evocano i fasti di Versailles, gloriet cosparsi di sculture surrealiste giganti, si arriva alla Casa do Cinema Manoel de Oliveira.

Se Fellini ha il proprio cenotafio nei fortilizi della natia Rimini, Bergman sull’adorata isola di Fårö, Charlot nella propria villa di Vevey, a de Oliveira è toccato di meglio.

La palazzina a due piani è intima, disadorna come certi suoi film. Al pianoterra un’esposizione temporanea, al primo piano quella permanente. Tutto di piccole dimensioni volumetriche però di grandissime ambizioni, didattiche e spettacolari.

Alla mostra permanente si possono passare giornate intere a rivedere alcuni film in versione integrale, a studiare la bio-filmografia interattiva, in un semibuio affascinante cosparso qua e là di Leoni d’oro, Palme d’oro e altri premi internazionali. 

La mostra temporanea in aprile non poteva essere più geniale dal punto di vista metodologico. Intitolata “O princípio da incerteza. Manoel de Oliveira e Augustina Bessa Luís”. Ovvero i rapporti di lavoro e amicizia durati due vite tra il prolifico regista e la sua principale sceneggiatrice, una romanziera di successo tradotta in molte lingue.

Non trascurate assolutamente una tappa al vasto bookshop del Museo. Vi troverete a prezzi modici sia i dvd dei film diretti da Manoel de Oliveira che i voluminosi cataloghi delle mostre a lui dedicate, pubblicati in portoghese e in inglese. Scoprirete così che de Oliveira è stato anche un eccellente fotografo e saggista.

https://www.serralves.pt/en/ciclo-serralves/1906-manoel-de-oliveira-exposicao-permanente/

“La Solitudine dell’ala destra”. Pasolini e il calcio in mostra a Pordenone

di Riccardo Costantini

Apre al pubblico sabato 23 aprile alle 15 alla Galleria Harry Bertoia La solitudine dell’ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio, una grande mostra composta per lo più da materiale inedito, realizzata da Cinemazero e Comune di Pordenone, con il sostegno della Regione Friuli-Venezia Giulia e il patrocinio del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. Con 120 fotografie, filmati, scritti, gadget, il percorso espositivo, curato da Piero Colussi, ricostruisce le tappe salienti della passione sportiva, lunga tutta la vita, di Pasolini, nell’anno del centenario della nascita.

In un’intervista all’Europeo il 31 dicembre 1970, l’intellettuale dichiarava: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».

La mostra in Galleria Bertoia narra questa passione dalle origini, a Bologna, la città natale di Pasolini, dove frequentava il Liceo Galvani e il calcio riempiva le sue giornate. Affermava infatti: «I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei, sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora…) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso».

In quegli anni, il Bologna Football Club era uno squadrone capace di vincere ben quattro scudetti di fila e Pasolini ne divenne un accanito tifoso. Durante le vacanze estive, a Casarsa, nella casa della famiglia della madre Susanna Colussi, indossava la maglia bianconera della società del paese, partecipando al campionato della Gioventù Italiana del Littorio. Le partite si giocavano nel campo sportivo dietro la ferrovia. A fungere da spogliatoio, c’era una stanza dell’albergo Leon d’Oro. Finita la guerra, Pasolini fu tra i promotori della nascita della Società Artistico Sportiva Casarsa, che nell’autunno del 1946 fissò la propria sede nello stanzone adiacente a Casa Colussi Batiston, dove erano ospitate le attività dell’Academiuta di lenga furlana. Sempre in quell’anno, Pasolini fu tra i promotori dell’Unione Sportiva Sangiovannese. Nel 1947 iniziò anche a scrivere di calcio come corrispondente de Il Friuli Sportivo.

A Roma, nei campetti di calcio delle borgate romane, Pasolini conobbe coloro che in seguito sarebbero diventati i protagonisti dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. A metà degli anni Sessanta fu fra gli ideatori, assieme a Ninetto Davoli e Franco Citti, della squadra chiamata Attori e Cantanti, che qualche anno più tardi divenne la Nazionale dello Spettacolo, di cui Pasolini portò a lungo la fascia di capitano. Nella primavera del 1975, qualche mese prima di venire assassinato, organizzò a Parma la partita tra la troupe di Salò e quella che a pochi chilometri di distanza stava girando Novecento di Bernardo Bertolucci. Fra i protagonisti della sonante vittoria di Bertolucci, per 5 a 2, c’era il giovane calciatore della squadra “primavera” del Parma, Carlo Ancellotti, che, per l’occasione, era stato “assunto” come attrezzista nella troupe di Novecento e aveva segnato pure un goal.

Nell’anno del centenario della nascita, la mostra di Pordenone è un’occasione per scoprire quanto fosse forte il legame di Pasolini con il calcio, tanto che nel 1973, alla domanda di Enzo Biagi per La Stampa, dichiarava che senza cinema, senza scrivere, quello che gli sarebbe piaciuto diventare era: «un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri». Ogni venerdì alle 17.30 sarà possibile visitare la mostra, accompagnati dal curatore Piero Colussi: per prenotarti invia una mail a press@cinemazero.it

Un percorso che continua venerdì 13 maggio con la proiezione a Cinemazero ad ingresso gratuito del film “L’ultima partita di Pasolini”, alla presenza dell’autore Giordano Viozzi.

L’Italia cinematografica in Costa Azzurra

di Andrea Crozzoli

I gradini di una lunga scalinata che conduce in alto, oltre le nuvole, in una laica ascensione, per indicarci la strada di un poetico rinnovamento rappresentato dal cinema, come momento di riflessione e di reinvenzione del nostro futuro. Tutto questo sembra raccontarci il bellissimo manifesto ufficiale della 75ma edizione del Festival di Cannes che, dal 17 al 28 maggio, presenterà il meglio di quanto prodotto, in questa ultima stagione, dal cinema mondiale.

E per presentare tutto il meglio Cannes è costretto a frequentare il cinema alto e basso, sia in termini artistici che di budget. Ma non ci interessa tanto il Top Gun: Maverick di Joseph Kosinski con l’inossidabile Tom Cruise, assente dalla Croisette da trent’anni, ossia dal 1992 dove accompagnò all’epoca Cuori ribelli (Far and Away) di Ron Howard, al quale i giornali pop dedicheranno pagine e pagine; oppure l’altra attesa anteprima mondiale Elvis di Baz Luhrmann con l’efebico Austin Butler e il maturo Tom Hanks dove si narra la vita del grande Elvis Presley. A nostro avviso, invece, Cannes è particolarmente interessante per ripercorrere quella scala, riportata sul manifesto, alla ricerca di nuovi orizzonti, di nuove connessioni filmiche, di piacevoli scoperte, o conferme, di autori fino a quel momento sconosciuti ma che segneranno la storia del cinema di domani. Le prime connessioni già emergono con il film di apertura del festival Coupez (Final Cut) di Michel Hazanavicius, non tanto per le polemiche suscitate dall’originario titolo che doveva essere Z (Comme Z) subito rimosso dopo le proteste ucraine, quanto perchè il film è il remake del giapponese Zombie contro zombie (One Cut of the Dead) di Ueda Shinichiro, un horror-comico su un gruppo che vuole girare un film sugli zombie e viene assediato, invece, da veri morti viventi. Film a suo tempo lanciato e premiato, non poteva essere altrimenti, dal Far East Film Festival di Udine nel 2018. Il cinquantacinquenne regista francese Hazanavicius è salito agli onori nel 2011 con il pluripremiato The Artist, un sentito e doveroso omaggio al cinema del periodo muto.

Altre connessioni che coinvolgono l’Italia in progetti internazionali, le ritroviamo in questa co-produzione Le otto montagne della coppia belga (anche nella vita) Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen; un adattamento del romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne interpretato dai nostri divi Luca Marinelli e Alessandro Borghi. È la storia di Pietro che vent’anni dopo, tornerà in montagna, dove da bimbo trascorreva le estati, per cercare di fare pace con se stesso e il suo passato. Van Groeningen non è nuovo a questi temi relazionali, nel 2018 aveva diretto con notevole successo My Beautiful Boy con Steve Carell e Timothée Chalamet, su un padre e un figlio il cui rapporto è messo a dura prova dalla tossicodipendenza del ragazzo.

In concorso, poi, battente ufficialmente bandiera italiana Mario Martone che, con Nostalgia, ritorna nella sua Napoli per raccontare, tra i vicoli del rione Sanità, la storia, tratta da un romanzo di Ermanno Rea, di Felice (interpretato da Pierfrancesco Favino), dopo 40 anni di lontananza dalla sua città.

Altro pezzo d’Italia con Andrea Occhipinti e la sua Lucky Red coinvolta nella produzione di Les Amandiers per la regia di Valeria Bruni Tedeschi con Louis Garrel. La Bruni Tedeschi è presente nel concorso ufficiale con la storia di Etienne, Stella e Adèle, tre ventenni che, superato l’esame di ammissione alla scuola di Teatro, si ritrovano ad affrontare i primi grandi cambiamenti ma anche le prime tragedie.

Ma l’Italia è anche presente alla Quinzaine des Réalisateurs con Pietro Marcello e il suo L’envol, racconto popolare, musicale e storico, al confine con il realismo magico. In questo nuovo lungometraggio, in prima mondiale, scritto dallo stesso Pietro Marcello con Maurizio Braucci, Maude Ameline e con la partecipazione di Geneviève Brisac, nel cast troviamo ancora Louis Garrel. Dopo il grande successo oltralpe di Martin Eden (2019) questo è il primo film realizzato in Francia da Pietro Marcello, liberamente ispirato a Le vele scarlatte di Aleksandr Grin, scrittore russo pacifista del XX secolo, e ambientato nel profondo nord francese dove la protagonista Juliette, spirito solitario, appassionata di musica e di canto, un giorno, lungo la riva di un fiume, incontra una maga che le predice una profezia inquietante alla quale, da quel momento, non smetterà mai di credere.

Sempre la Lucky Red di Andrea Occhipinti porta a Cannes nella sezione Premiere la serie televisiva Esterno Notte di Marco Bellocchio sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro che sarà poi presentato nelle sale in due parti, la prima dal 18 maggio e la seconda dal 9 giugno per arrivare in autunno sugli schermi televisivi di Rai1. Nel cast Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro, Margherita Buy in quelli della moglie Eleonora Moro, Toni Servillo in quelli di Paolo VI mentre Fausto Russo Alesi sarà Giuseppe Cossiga. «Quello che Marco Bellocchio ha realizzato è un vero capolavoro. Il racconto di un momento cruciale della storia – ha dichiarato Andrea Occhipinti – del nostro paese e non solo, di una generazione, di una famiglia, di un uomo. Un grande film avvincente e tremendamente attuale».

L’Italia sarà presente anche nella giuria ufficiale con Jasmine Trinca, una delle più affascinanti, intelligenti e sensibili giovani attrici del nostro cinema, protagonista del film Palma d’Oro 2001 La stanza del figlio di Nanni Moretti, e sarà a fianco di Vincent Lindon, presidente di giuria, e Rebecca Hall, Deepika Padukone, Noomi Rapace, Asghar Farhadi, Ladj Ly, Jeff Nichols e Joachim Trier per assegnare l’ambitissima Palma d’Oro 2022. Ma lo sguardo di Cannes non poteva ignorare, in questo tragico periodo, l’Ucraina e, dopo essere passato per Bologna dove ha presentato Maidan e Donbass, il regista ucraino Sergei Loznitsa accompagnerà sulla Croisette il suo nuovo film The Natural History of Destruction come proiezione speciale in anteprima assoluta. Ma il cinema ucraino troverà spazio anche in Un Certain Regard con l’atteso promettente esordio di Butterfly Vision per la regia di Maksym Nakonechnyi. Ed essendo luogo di cultura, scambio e civiltà, il Festival presenterà anche il regista esule russo Kirill Serebrennikov con Tchaikovski’s Wife. Tutto questo è solo un assaggio del lungo e sapido pranzo cinematografico che, come da tradizione, si consuma ogni anno a maggio sulla Costa Azzurra!

Franco Giraldi: raccontare la frontiera

di Paolo Antonio D’Andrea

Il 2 dicembre 2020, alla soglia dei novant’anni, Franco Giraldi ci ha lasciati. Nemmeno un anno dopo, alla XIV edizione di Pordenone Docs Fest – Le Voci del Documentario, sugli schermi di Cinemazero, ha ripreso luce – in una versione preziosamente restaurata – Il Carso, suo cortometraggio d’esordio, girato sul Carso triestino durante le festività natalizie del 1959 e a lungo – fino al 2018, anno in cui Lorenzo Codelli ne rinviene una copia in buono stato presso la Cineteca di Bologna – ritenuto perduto. L’emozione di riscoprirlo assieme a lui, in una sala gremita in suo onore, sarebbe stata grande.

A marzo di quest’anno, in un ideale prosieguo, Cinemazero ha intrapreso un nuovo percorso di studio e riscoperta legato alla sua figura: Franco Giraldi: raccontare la frontiera, lanciato in risposta a un bando di cultura storica ed etnografica promosso dalla Regione Friuli-Venezia Giulia. Con il coinvolgimento di studenti del territorio, l’iniziativa intende ripercorrere non soltanto la carriera del regista nato a Comeno (oggi Komen, in Slovenia), ma anche fare il punto sulla tormentata storia del confine orientale e sulla grande letteratura di frontiera che ha fornito al nostro la base per la trilogia realizzata a cavallo tra il 1973 e il 1996: La rosa rossa (da Pier Antonio Quarantotti Gambini), Un anno di scuola (1977, da Giani Stuparich) e La frontiera (da Franco Vegliani). Ai ragazzi coinvolti sarà chiesto di realizzare, al termine di un ciclo di lezioni e laboratori condotti da esperti dei vari campi d’analisi e con l’aiuto di un videomaker professionista, un piccolo documentario in grado di riassumere compiutamente le tematiche trattate; l’elaborato sarà dipoi presentato a un pubblico più ampio in occasione delle rassegne dedicate a Giraldi che, a partire da settembre, coinvolgeranno i maggiori cinema regionali.

Nato da madre slovena di Trieste e da padre italiano dell’Istria, Giraldi – esponente alto della cultura mitteleuropea – ha saputo portare nel suo cinema, come nessun altro, l’esperienza indelebile della frontiera italiana intesa come luogo esistenziale, milieu culturale, figura del discorso filmico. La sua opera dà adito a molteplici collegamenti e approfondimenti: dalla vicenda del confine italo-jugoslavo a quella della Resistenza, dalla grande letteratura di confine al tema di rilevanza umanistica delle relazioni tra popoli e culture. La ricaduta ampia che le attività legate al progetto Franco Giraldi: raccontare la frontiera ambiscono ad avere, testimoniano l’impegno che Cinemazero riversa da tempo nella conservazione e nella divulgazione della memoria di questo sottovalutato autore. Far conoscere la sua figura alle nuove generazioni, coinvolgendole in un percorso di riscoperta attivo e creativo, ci sembra altresì il modo migliore per onorare il ricordo di un intellettuale di eccezionale intelligenza e umanità, il cui amore per il cinema ha preso le forme di una «passione allargata e dongiovannile» (L. De Giusti) al cospetto della quale nessun amante delle immagini in movimento, nemmeno in questi tempi distratti, può rimanere indifferente.