Sei film in cerca… del pubblico

Di Marco Fortunato

Con ben sei film italiani in concorso (un record) l’80° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è stata un’edizione molto utile anche per monitorare lo stato di salute della produzione cinematografica nazionale, ciclicamente oggetto di critiche e polemiche, più o meno fondate.

Di per sé già il fatto che in uno dei più importanti festival mondiali – tale è oggi Venezia, e non lo diciamo solo per storicità o amor patrio ma anche per gli esiti concreti dei film selezionati sia a livello di pubblico che di critica – ci siano in selezione ufficiale così tanti titoli di una cinematografia è chiaro sintomo di una produzione vivace e soprattutto molto articolata. I sei film hanno offerto una panoramica molto variegata, per temi affrontati e stili narrativi e ora, dopo essersi affrontati nella sfida festivaliera (peraltro magra di riconoscimenti se escludiamo il Premio alla miglior regia per Io capitano di Matteo Garrone) si accingono ad arrivare in sala per confrontarsi con il giudizio del pubblico.

Ma vediamo di analizzarli in dettaglio e capire quali aspettative può offrire ciascun titolo.

Partiamo dal film d’apertura, Comandante di Edoardo De Angelis, storia di eroismo e umanità, in particolare quella dimostrata da Salvatore Todaro (interpretato da Pierfrancesco Favino) comandante del sommergibile Cappellini della Regia Marina all’inizio della Seconda guerra mondiale. Nell’ottobre del 1940, mentre naviga in Atlantico, Todaro si trova ad affrontare un mercantile armato che viaggia a luci spente e lo affonda a cannonate. La questione bellica è risolta ma rimane quella etica, che fare dei naufraghi? Il “Comandante” prenderà una decisione destinata a fare la storia. L’appeal della vicenda narrata (tratta da una storia vera), unita alla notorietà del protagonista e all’eccletticità di De Angelis che qui oltre ad essere regista, sceneggiatore e produttore del film è anche l’autore del libro da cui è tratto – edito da Bompiani – fanno sì che questo sia indubbiamente uno dei titoli su cui si concentrano le maggior aspettative a livello d’incassi. I primi dati (il film è uscito in sala in contemporanea alla presentazione in laguna) sembrano confermare queste ipotesi. Il film potrebbe puntare a 3-4 milioni di euro

Aspettative molto alte anche per Io capitano di Matteo Garrone, la cui ultima fatica (Pinocchio nel 2019) superò i 15 milioni di euro d’incasso. Pare impossibile che questo film possa ripetere, o anche solo avvicinarsi, a questo eccezionale risultato ma l’autore e senza dubbio uno tra i più amati dal pubblico e questo si spera possa aiutare a superare quelle che alcuni addetti ai lavori hanno identificato come possibili criticità. La prima è legata alla trama che segue il lungo viaggio di due ragazzi cresciuti a Dakar e desiderosi di trovare una nuova vita in Europa. Il timore che il tema sia inflazionato e distante dagli interessi attuali del pubblico, unito all’assenza di attori di richiamo nel cast (Seydou e Moussa, i due protagonisti che interpretano se stessi, sono due attori di teatro alla prima esperienza cinematografica) induce molti a pensare che il titolo potrà incontrare solo in parte le aspettative degli spettatori. A queste potenziali difficoltà si aggiunge la scelta, decisamente coraggiosa, di distribuire i film esclusivamente in versione originale sottotitolata, decisione che potrebbe ulteriormente scoraggiare alcuni spettatori, ancora troppo poco abituati a vedere film in questa forma.   

Difficilissimo fare previsioni per Enea di Pietro Castellitto. Il figlio d’arte della coppia Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini, sceglie una storia che non nasconde riferimenti autobiografici, soprattutto per il contesto in cui è ambientata, per portare sullo schermo un finto eroe che – a dispetto del suo nome – cresce sentendosi potente abbastanza da non avere paura di niente. È ricco, gestisce un ristorante di sushi e spaccia cocaina. Ha tutto, eppure non è mai abbastanza. Dopo I predatori, opera prima che uscì in piena pandemia (era l’ottobre del 2020) e quindi non ebbe modo di raggiungere il pubblico questa si presenta di fatto come la prima volta che l’opera del giovane Castellitto incontra gli spettatori in sala. È complicato capire se le indubbie qualità registiche e di messa in scena espresse dall’autore nel suo primo lavoro – e che ritroviamo anche in questo film – saranno sufficienti.  Potrebbe aiutare, e molto, la data d’uscita, annunciata durante le festività natalizie.

Quasi sicura l’uscita nel 2024 anche di Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, altro esponente della generazione X (la stessa di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino per intenderci) che esordì vent’anni fa, era il 2004, con Private conquistando numerosi premi ed il favore della critica tanto da arrivare ad un passo da rappresentare l’Italia agli Oscar. Dopo una lunga carriera Costanzo si ispira in questa nuova opera ad un tragico fatto di cronaca, noto come caso Montesi, che vide il corpo di una giovane donna trovato senza vita sulla spiaggia di Torvaianica in una vicenda che coinvolse governo e opposizione, magistrati e giornalisti, prelati, avvocati e poliziotti portando la Democrazia Cristiana “sull’orlo di un baratro.  Reduce dalla doppia Coppa Volpi per Hungry Hearts l’attesa su Finalmente l’alba si è fortemente ridimensionata dopo le prime proiezioni al Lido, dove il film è stata accolto con una certa freddezza da stampa e pubblico, forse anche per l’imponente durata (oltre 2 ore e venti minuti). Proprio su questo aspetto probabilmente si potrebbe lavorare in vista dell’uscita in sala per dare maggiore ritmo alla narrazione. Con queste premesse sembra piuttosto difficile che film possa raccogliere un esito soddisfacente al botteghino, il che potrebbe risultare particolarmente problematico visto il costo di produzione che sfiora i 30 milioni di euro.

Ancora più lungo è il minutaggio di Lubo di Giorgio Diritti, che sfiora le tre ore. Una giostra di generi e di vicissitudini, quelle raccontate dal regista bolognese che, ispirandosi al romanzo “Il seminatore” di Mario Cavatore realizza un film di denuncia sull’ingiustizia subita da quelle famiglie nomadi a cui sono stati sottratti i figli con la scusa del programma di rieducazione nazionale, mescolando il film di guerra con il dramma politico, passando per il mélo. L’opera per sua natura è presumibilmente destinata ad arrivare solo in selezionata sale d’essai – tra cui ovviamente Cinemazero – e dunque a raggiungere un pubblico limitato, ma l’esito di botteghino non rientra evidentemente tra le finalità principali di quest’opera.

Chiude questa lunga carrellata Adagio di Stefano Sollima che vanta un cast d’eccezione: Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini e chiude la trilogia iniziata con A.C.A.B e proseguita con Suburra. Noir metropolitanogirato con grande maestria il film ha molti livelli di lettura, dalla crisi personale dei protagonisti alla deriva delle istituzioni, passando per l’ineludibilità del proprio destino. Un film di genere senza dubbio notevole, esaltato dalla visione sul grande schermo, che potrebbe però pagare la sovrabbondanza di opere e di serie sul tema e un po’ di stanchezza da parte del pubblico che potrebbe non essere più così numeroso come quello che decretò il grande successo di Suburra che superò i 4,5 milioni d’incasso. Ma era il 2015.

Barbenheimer

di Marco Fortunato

È la parola del momento, almeno in America, nata dalla crasi dei titoli dei due film che hanno segnato l’estate cinematografica di quest’anno. Ma dietro questo termine all’apparenza banale si nasconde un fenomeno molto complesso che vale la pena approfondire anche perché è destinato a cambiare (speriamo in meglio) il futuro della sala cinematografica.

Per essere precisi l’idea che ha dato origine a Barbenheimer è nata all’inizio dello scorso anno, quando è stato annunciato che Barbie della Warner Bros. sarebbe uscito nelle sale lo stesso giorno di Oppenheimer della Universal Pictures in quasi tutto il mondo eccetto pochissimi paesi, tra cui l’Italia. Ma anche se da noi, “tecnicamente”, il Barbenheimer è stato “diluito” merita un approfondimento perché l’andamento di questi due film e le scelte che ne hanno caratterizzato l’arrivo in sala, soprattutto a livello di marketing, racchiudono una serie di messaggi molto importanti che rappresentano forse uno dei punti nodali del (sin qui difficilissimo) percorso di ripresa della sala cinematografica.

Partiamo dal dato economico. Con oltre 1,34 miliardi di dollari a livello globale Barbie è diventato il maggior incasso della Warner Bros, superando Harry Potter e i Doni della Morte Parte II. Nelle stesse settimane Oppenheimer ha quasi raggiunto gli 800 milioni in tutto il mondo, risultando ad oggi il quarto film per incasso mondiale del 2023, con ancora molta strada davanti (visto che in Italia, ma non solo, è uscito da pochi giorni). Il tutto in piena estate, una stagione da sempre considerata “morta” in numerosi mercati europei, a partire proprio da quello italiano. Oppenheimer ha incassato meno in assolutoma ha comunque raggiunto una serie di recordche lo faranno entrare nella storia, a partire dalle cifre del suo debutto, mai viste prima, soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di che film che dura 3 ore, non ha una star protagonista e non ci sono supereroi, totalmente inedito a questi livelli, grazie a un incasso di oltre 6,5 milioni di euro nel primo fine settimana (8.923.000 compreso l’esordio di mercoledì) e una media di 13.200 euro a schermo. Alla faccia di chi ha sostenuto che la sala cinematografica fosse morta e che ciò dipendesse dal fatto che il pubblico non fosse più interessato a dare valore al film sul grande schermo e che gli investimenti necessari al lancio di un film al cinema difficilmente si sarebbero ripagati nel nuovo scenario postpandemico, Barbenheimer ha dimostrato il contrario. Un pubblico esiste, investire in un film e portarlo prima di tutto in sala è economicamente redditizio, ovviamente a patto che sia fatto bene.

Ma non è solo questione di soldi. Entrambi i titoli hanno infatti dimostrato come, grazie soprattutto ad un sapiente e maniacale campagna di marketing, un film possa tornare ad essere oltre ad un evento culturale anche un fenomeno sociale e di costume. Emblematico in questo senso l’esempio di Barbie, la cui campagna di comunicazione è costata di fatto più della produzione (circa 150 milioni di dollari contro i 145 di budget del film). Una scelta tutt’altro che casuale, ovviamente. Oltre a promuovere il film stesso, la strategia di marketing ha avuto un impatto su una gamma molto più ampia di prodotti. Naturalmente, le bambole Barbie hanno visto un nuovo incremento nelle vendite ma da lì è partito un effetto domino che ha raggiunto anche prodotti e servizi apparentemente non correlati. Un esempio è la scelta di inserire nel film un paio di scarpe Birkenstock, protagoniste di un’iconica scena in cui Barbie Stramba offre un paio di scarpe alla sua controparte, Barbie Stereotipo. Dopo l’uscita del film, la vendita delle Birkenstock Arizona è cresciuta in modo esponenziale, registrando un aumento del 110%. Questo dimostra come il product placement (l’operazione di comunicazione in cui i prodotti di marca vengono posizionati in modo apparentemente naturale in una struttura narrativa pre-esistente) può diventare uno strumento potentissimo, se usato strategicamente. Ma Birkenstock non è stata l’unica azienda a beneficiare della magia del marketing di Barbie. Burger King che è stato veloce nell’accorgersi delle potenzialità del film ha sapientemente sfruttato l’onda, lanciando un hamburger dedicato a Barbie con una particolare salsa rosa shocking. Nelle stesse settimane Airbnb ha reso disponibile la fedelissima riproduzione della villa di Barbie a Malibu letteralmente presa d’assolto dai fan desiderosi di immergersi completamente nell’universo della bambola Mattel. Oppenheimer aveva di certo meno potenzialità da questo punto di vista e qui il colpo di genio è stato legarlo a Barbie, in apparenza contro ogni logica (i due film uscendo insieme avrebbero dovuto farsi concorrenza) e creando una dimensione di evento che ha giovato ad entrambi. Barbenheimer è diventato così anche un’esperienza da condividere. Negli spettatori americani si è fatta subito strada, con sempre più decisione, l’idea di festeggiare la curiosa ricorrenza dell’uscita contemporanea andando a vedere Barbie e Oppenheimer lo stesso giorno per poi ritrovarsi – in presenza o via social – a discuterne. Un’altra curiosità: è stato lo stesso Nolan ad impegnarsi personalmente per massimizzare la promozione del suo film. Dopo il divorzio da Warner Bros avvenuto nel 2021 a causa della decisione della major di far uscire tutti i propri film su HBO Max in contemporanea con il passaggio nelle sale, Nolan – corteggiato ovviamente da tantissimi studios, – ha accettato di portare il progetto di Oppenheimer in casa Universal, ma in cambio di diverse clausole. Tra queste una finestra di uscita esclusiva nelle sale tra i 90 e i 120 giorni, il 20% degli incassi del primo week-end, un periodo di ‘blackout distributivo’ da parte di Universal tre settimane prima e tre settimane dopo l’uscita del film (in parole povere, la major si è impegnata a non far uscire nessun altro titolo a ridosso di Oppenheimer, per dare al film di Nolan tutta la visibilità possibile) e soprattutto un budget di marketing corrispondente al budget di produzione.

Gli esempi potrebbero continuare e aldilà di giudizio su di essi quello ci interessa è focalizzarci su ciò che rappresentano, cioè la capacità pervasiva che ancora oggi può avere un grande film, in grado di influenzare la società, di cambiarne il costume, lanciando delle mode destinate ad impattare su una platea molto vasta, di certo più ampia degli spettatori del film stesso, confermando la vitalità del cinema anche come fenomeno sociale oltrechè culturale.  

Era quello di cui il cinema aveva bisogno. Secondo una analisi del britannico The Economist, durante il Covid, gli studi cinematografici hanno ridotto il periodo di tempo che intercorre tra l’apparizione di un film nei cinema e la disponibilità per lo streaming: da circa 70 giorni sono passati in media a 45, perché in sostanza avevano perso fiducia nel potere della sala cinematografica. Non erano mancati anche nei momenti più difficili gli esempi virtuosi. Tom Cruise ha puntato i piedi per l’uscita di Top Gun: Maverick, uno dei film più popolari e di maggior incasso del 2022. L’attore ha atteso (e preteso) di aspettare due anni invece di renderlo disponibile online. E anche l’uscita dell’ultimo film di James Bond, No time to die, era stata ritardata per ben tre volte, pur di collocarla in una finestra in cui un numero sufficiente di sale fosse aperta.

Erano delle scommesse ardite, che attendevano un verdetto. Che finalmente è arrivato.

Dante Spinotti: l’uomo che filmava il cinema

Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                                 sentieri di cinema!

Di Andrea Crozzoli

Dopo una folgorante carriera iniziata oltre quarant’anni fa, per Dante Spinotti è giunta finalmente l’ora dell’attesa autobiografia, scritta con Nicola Lucchi e pubblicata da La nave di Teseo, dal titolo Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta che verrà presentata, grazie a Cinemazero, in anteprima assoluta all’interno di Pordenonelegge, domenica 17 settembre 2023, alle 17.30, al Capitol di Pordenone in viale Mazzini. Una ghiotta e imperdibile occasione per conoscere e ascoltare dal vivo questo straordinario direttore della fotografia friulano, due volte candidato all’Oscar. Lo incontriamo a Muina, frazione di Ovaro, dove ha le sue radici e dove trascorre ogni anno un periodo di riposo.

Qual’è stato il percorso da Muina a Roma e al cinema?

Un mio zio udinese, Renato Spinotti, che aveva avuto una carriera come documentarista, operatore, direttore della fotografia in giro per il mondo, nel suo peregrinare era finito a Nairobi in Kenia. A me da ragazzo non piaceva il greco e il latino, per non parlare della matematica, della chimica e così via. Così la mia famiglia, disperata, dopo aver finito la prima al liceo classico, visto che l’unica passione che avevo era la fotografia, mi spedì da questo mio zio in Kenia. Da allora la mia vita è sempre stata una vita in movimento. Che è esattamente quello che consiglio ai giovani oggi: mai fermarsi. Ogni estate veniamo a Muina, dove abbiamo la casa di famiglia, un solido punto di riferimento. Sono nato a Tolmezzo, ho vissuto i primi anni in provincia di Rovigo in mezzo alla campagna e ogni estate si veniva a Muina. Poi sono stato sempre in giro. Da giovane ho imparato l’inglese essendo il Kenia un’ex colonia britannica e questo mi è molto servito. Un tempo non era frequente conoscere un’altra lingua e conoscere l’inglese mi ha dato grossi vantaggi. In Rai chiamavano me come assistente ogni volta che c’era un regista o un attore inglese. Oppure, se c’era da fare un giro in America con Enzo Biagi, mandavano me.

Com’è cambiato nel corso del tempo il lavoro della fotografia nel cinema dall’analogico al digitale?

L’arrivo del digitale è stata una vera e propria rivoluzione, paragonabile all’avvento del sonoro nel cinema. Nelle arti, dalla pittura alla musica, puoi fare l’opera e correggerla, modificarla continuamente finché l’artista non è soddisfatto. Nel cinema, invece, quando avevi girato una scena era quella e basta. Vedevi il risultato dopo alcuni giorni, una volta sviluppata la pellicola ma quella era, non potevi cambiarla se non rigirandola. Ora la tecnologia digitale ti permette di vedere il prodotto finito nel momento stesso in cui lo stai facendo e questo ti da una enorme sicurezza nel lavoro. Io ho subito abbracciato questa novità fin dall’inizio. Oggi la tecnologia ha raggiunto una qualità indistinguibile dalla pellicola e il digitale ha cambiato il modo stesso in cui si gira un film. Tutto è molto più semplice e facile. Con il digitale è sufficiente mantenere lo standard ed archiviare nei nuovi supporti mentre la pellicola si degrada rapidamente essendo composta da materiali biologici. Già dopo due settimane la pellicola subisce trasformazioni.

Lei ha lavorato molto sia in Italia che negli Stati Uniti. Quali sono le differenze più eclatanti fra questi due modi di “fare” cinema?

Nel cinema d’oltre oceano c’è una attenzione e una cura quasi maniacale alla sceneggiatura. Il film non parte fintanto che tutti non sono pienamente convinti dell’opera. Il potere del regista, naturalmente, cambia in base alla sua forza. Negli Studios ci sono anche una serie di funzionari che conoscono a fondo il cinema a differenza dell’Italia dove, fatte le debite eccezioni, spesso i produttori sono interessati unicamente al denaro, agli appalti, agli anticipi della Rai. Negli Usa i budget sono molto alti per cui c’è una grande attenzione al piano di lavoro, a mantenere tutti i costi entro le cifre previste. Tutto funziona con grande precisione. Il vantaggio in Italia è che tutto procede come in un gruppo di amici. Una troupe di sessanta persone riesce a stabilire un clima interessante e divertente che è impossibile quando si arriva a ottocento persone coinvolte, come negli Stati Uniti. Insomma in Italia può essere più interessante dal punto di vista creativo, della costruzione delle immagini anche se debbo dire che oltreoceano il cinema indipendente sta prendendo sempre più piede. Io stesso lavoro con Deon Taylor regista indie di grande talento, col quale ho fatto tre film ed un altro è in cantiere. Con i mega budget della serie Marvel significa lavorare ad un film che è già stato girato, tutto è previsto, ogni scena è già stata provata con gli stuntman, le inquadrature strette o larghe già decise a priori e il direttore della fotografia fa semplicemente il consulente, si occupa solo del look. L’unica cosa bella è che in America ti mettono tutto a disposizione, anche ventisei cineprese.

Com’è il rapporto fra regista e direttore della fotografia. Viene coinvolto nella fase di sviluppo del progetto? Partecipa ai sopralluoghi e alle location? Stabilisce subito cosa è possibile e cosa no?

Fra regista e direttore della fotografia molto spesso si stabilisce un rapporto di amicizia oltre che di stretta collaborazione. Un regista come Michael Mann ad esempio vuole controllare tutto, è molto pignolo. I sopralluoghi sono accurati e le ricerche precise in ogni dettaglio. Quando si lavora con un regista che sa esattamente cosa vuole, quale storia vuole raccontare, tutto diventa estremamente semplice.

A 38 anni lei diventa responsabile della direzione della fotografia in Minestrone di Sergio Citti (1981) con Ninetto Davoli, Franco Citti e Roberto Benigni. Che ricordi ha di quel set, di Sergio Citti e degli attori?

Lavoravo alla Rai di Milano e un giorno passò per gli studi televisivi Elio Petri che stava lavorando a Le mani sporche, una miniserie televisiva con Marcello Mastroianni e Anna Maria Gherardi. Aveva sentito parlare di me e segnalò il mio nome a Sergio Citti che stava preparando Minestrone. Fu un set difficilissimo, mi chiamavano il milanese appena arrivai in questo set romanocentrico con la responsabilità della direzione della fotografia. Le riprese furono lunghe e complesse e nonostante le tensioni, frustrazioni, ansie emotive alla fine restammo amici. Sergio Citti era un grande narratore sicuramente, aveva questo istinto nel raccontare le storie che è la chiave di volta di ogni regista: il saper raccontare con gli strumenti del film. Lui aveva questa istintiva capacità.

Ritroverà poi nel 2002 di nuovo Roberto Benigni per Pinocchio. Com’è andata quella sua esperienza?

Pensando che io avessi maturato negli Usa una certa esperienza di film complessi e con molti effetti speciali, Roberto Benigni mi chiamò a curare la fotografia di Pinocchio. Mi ritengo molto fortunato ad aver lavorato con lui, Benigni è un personaggio non trasformabile, nel senso che la sua umanità, la sua cultura lo rendono unico. L’errore che commise è stato quello di voler fare un film molto vicino al testo di Collodi. Ma il film è una cosa molto diversa da un libro e il testo collodiano, oltretutto, è anche piuttosto datato. Fu molto bello però girarlo. Rientrato in America al termine delle riprese incontrai Dino De Laurentis che mi chiese se il film faceva ridere e davanti alle mie perplessità sentenziò: «Se non fa ridere non funziona!». E così fu. Soprattutto fuori dell’Italia.

La metà degli anni ottanta corrisponde anche con la sua prima esperienza totalmente hollywoodiana. Entra nel cinema americano dalla porta principale con Manhunter di Michael Mann (1986) prodotto da Dino De Laurentis. Com’è avvenuto l’incontro con De Laurentis?

Devo a De Laurentis se ho fatto quello che ho fatto. Mi ricevette nel suo ufficio all’ultimo piano di quella che oggi si chiama Trump Tower. Uno studio enorme seduto dietro questa grande scrivania. Aveva fondato in North Carolina uno studio cinematografico e cercava direttori della fotografia che non fossero statunitensi. Gli piaceva il fatto che io conoscessi l’inglese e firmai con lui un contratto biennale. Persona squisita, leale, corretta. Aveva una capacità incredibile di prendere decisioni da cui poi non tornava più indietro. Aveva anche una forza molto determinata di rigenerarsi, di ricominciare da capo. Si occupava di tutti gli aspetti legati alla produzione dei suoi film. A distanza di sedici anni da Manhunter mi chiamò per la fotografia del remake Red Dragon di Brett Ratner (2002), dove questa volta Hannibal Lecter, diversamente dal precedente, aveva la faccia di Anthony Hopkins. Un film all star con Ralph Fiennes, Edward Norton, Harvey Keitel e Emily Watson e prequel del pluripremiato Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme.

Ancora per Dino De Laurentis nel 1986 ha avuto la direzione della fotografia in Crimini del cuore (Crimes of the Heart) di Bruce Bereford con un cast tutto al femminile: Sissy Space, Diane Keaton, Jessica Lange. Com’è il rapporto fra diva e direttore della fotografia?

Portai a De Laurentis una scena di Interno berlinese che a lui piacque talmente per cui decise che avrei curato la fotografia del film di Bereford. Tre attrici bravissime, tre professioniste spiritose. Per una scena in cui le tre attrici discutono attorno ad un tavolo dovevo illuminare i tre diversi primi piani cercando di non far trasparire che ognuna di esse era illuminata per conto proprio ma che ci fosse un’omogeneità fra loro tre. Il risultato fu che da allora mi venne affibbiata la nomea di essere un direttore della fotografia che toglieva dieci anni alle attrici.

Grazie a De Laurentis conosce dunque Michael Mann che è unanimemente considerato uno dei migliori registi di Hollywood. Con lui stabilisce un raro (per il mondo del cinema) sodalizio, lungo e proficuo. Cosa vi unisce, come lavorate assieme?

De Laurentis mi ha catapultato in un cinema di assoluta disciplina, di assoluto rigore. Mann lasciava all’aiuto regista gridare, tenere il set. Lui controllava tutto ed aveva un rapporto totale con gli attori. Un rapporto anche difficile alcune volte. Michael Mann, se vogliamo, è una specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Sul set si trasforma mentre sulla vita normale è molto più colloquiale. Quando si gira un film deve avere il controllo totale del set. Con Mann forse è scattato quel qualcosa per cui istintivamente sentivo il suo modo di girare come mio. Aveva fatto emergere qualcosa in me di inespresso fino a quel momento. Fare un film con Michael Mann è una vera e propria sfida con sé stessi e con le proprie possibilità. Capire quello che lui ha in mente non è da tutti. Ogni film fatto con lui è una totale immersione sul mondo che viene affrontato di volta in volta.

In L’ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans) ha lavorato con Daniel Day-Lewis famoso per la sua intransigente pignoleria. Il film ebbe anche lusinghieri apprezzamenti per la fotografia. Come è stato lavorare con Day-Lewis?

Daniel Day-Lewis è stato un compagno di lavoro straordinario, L’ultimo dei Mohicani era il suo primo impegno importante negli Stati Uniti. Lui è di una preparazione che rasenta il maniacale. Su ogni dettaglio di sceneggiatura annotava e si preparava con caparbietà. Si allenava per sparare col fucile correndo. Tutte cose inimmaginabili in un attore italiano.

Per la direzione della fotografia lei ha avuto la nomination agli Oscar con L.A. Confidential, regia di Curtis Hanson (1997) dove per questo film vinse l’Oscar Kim Basinger come miglior attrice non protagonista …

Los Angeles è bella da fotografare oggi e ancor più affascinante vestita da anni ‘40/’50. Ho usato un formato super 35 anziché lo scope per avvicinarmi il più possibile al formato delle foto d’epoca di Robert Louis Frank. Col regista Hanson è stato interessante lavorare in quanto ricercava un’aderenza quasi filologica al racconto. Con l’affascinante Kim Basinger solo nelle ultime due scene ho capito come avrei esattamente dovuto fotografarla. Nonostante questo, però, vinse l’Oscar con L.A. Confidential.

Nel contempo lei ha tenuto anche un fruttuoso rapporto col cinema italiano. Due film con Ermanno Olmi, La leggenda del santo bevitore (1988) Leone d’Oro a Venezia oltre al David di Donatello e Ciak d’Oro per la miglior fotografia a Dante Spinotti e Il segreto del bosco vecchio (1993)…

Ho conosciuto Ermanno Olmi da ragazzino. Sono stato suo assistente per il film E venne un uomo in quanto segnalato da Mario Rigoni Stern, che era molto amico di Olmi, e che a sua volta era cugino di mio cognato. Passammo due, tre settimane filmando seminaristi in giro per la bergamasca poi io partii militare e non portai a termine la collaborazione. Molti anni dopo Olmi mi contattò per girare un film a Parigi con Rutger Hauer, La leggenda del santo bevitore appunto. Esperienza bellissima. Mi chiamò poi per girare un film a Cortina Il segreto del bosco vecchio ma qualcosa non funzionò come doveva, la lavorazione non fu così entusiasmante come quella parigina.

Nel 1995 lavora alla fotografia di Pronti a morire (The Quick and the Dead) regia dell’adrenalinico Sam Raimi appena uscito dalla trilogia horror sulla casa. Un film che annovera un cast inimmaginabile oggi con star come Sharon Stone, Leonardo Di Caprio, Russell Crowe e Gene Hackman appunto. Un western che vuole rendere omaggio a Sergio Leone…

Con Sam Raimi abbiamo avuto un rapporto eccezionale. È un regista che costruisce i suoi film su storyboard molto precisi, come i fratelli Coen. Per questo omaggio al western italiano ci divertimmo moltissimo a girare i celebri primissimi piani alla Sergio Leone. La costumista Judianna Makosky venne a Roma in cerca dei costumi originali, questi impermeabili lunghi. Raimi voleva dare al film una valenza quasi paradossale, anche caricaturale, estremizzando le situazioni ma si scontrò con Sharon Stone che era anche produttrice del film. Sam Raimi non aveva ancora la forza che ha acquisito ora, dopo aver diretto i tre Spiderman. La Stone, donna simpaticissima oltre che bellissima, voleva però intervenire sulla lavorazione forte della sua posizione di produttrice. Sharon Stone si rifiutò di girare una scena con Russell Crowe in cui lei, a seno nudo, faceva gonfiare la patta di Crowe fino a far letteralmente saltare i bottoni. Un po’ alla volta il senso complessivo del film venne stravolto. Ogni paradosso annullato tanto che alla fine risultò, purtroppo, né carne né pesce.

Nel 1995 firma anche la fotografia di L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore con Sergio Castellitto. Com’è stato passare da Sam Raimi a Tornatore, ma anche da Leonardo Di Caprio a Sergio Castellitto …

Sono salti grossi. Con Tornatore non ci siamo parlati per almeno tre quarti del film. Ognuno cercava di far vedere di essere più bravo dell’altro. Mettiamo la macchina da presa lì e non là, etc. Un friulano e un siciliano a confronto! Poi alla fine siamo diventati amicissimi. Tornatore è un grande talento, un notevole narratore. Castellitto poi mi aveva chiamato per fare un film con lui ma precedenti miei impegni mi hanno impedito la nuova collaborazione.

Lei ha lavorato nel 1996 anche con un altro mito americano che è Barbra Streisand in L’amore ha due facce (The Mirror Has Two Faces). Come è stata l’esperienza di avere la Streisand davanti e dietro la macchina da presa nel duplice ruolo di attrice e regista?

Con Barbra Streisand il vero problema era averla davanti la macchina da presa non tanto dietro la macchina come regista. Persona amabile, democratica, la sera si andava a casa sua a mangiare il gelato a discutere ma sul set era un dramma, decine di prove, di dubbi, di complicazioni e con la scusa del Natale, l’unica volta in vita mia, sono andato via dal set.

Ha mai rinunciato a un film per poi pentirsi?

Sì, fra i tanti anche la proposta di Sam Raimi di fare il primo Spiderman!

C’è un regista col quale non ha mai lavorato ma per il quale avrebbe voluto curare la fotografia in un film?

Avrei io dato qualsiasi cosa per fare un film con Kubrick pur sapendo della sua estrema pignoleria e precisione. Una volta, rientrando dagli Stati Uniti, mi dissero che Federico Fellini mi aveva cercato per un film. Purtroppo subito dopo si ammalò e il film non prese più il via. Fellini aveva la fama di essere un regista costoso per come girava, come costruiva i set, con i tempi che si allungavano e i budget che sforavano. Ma era un genio.

Tina Modotti: L’opera

È in arrivo a Palazzo Roverella a Rovigo, dal 22 settembre, “Tina Modotti. L’opera”: una vastissima mostra monografica sulla leggendaria fotografa, con oltre 300 scatti, moltissimi mai visti in Italia, la maggior parte proveniente dagli archivi di Cinemazero!

Dai capolavori che raccontano in modo intenso e graffiante il Messico degli anni Venti, passando per la sua unica mostra individuale del 1929 (ricostruita per l’occasione), alle rare immagini che raccontano il suo errare in molti Paesi, l’esposizione ripercorre l’intera opera di una fotografa straordinaria e un’intellettuale di assoluta originalità che ancora oggi sa rapire e affascinare il nostro sguardo.

“Si dovrebbe sempre pensare che un’artista sia la sua opera. Indubitabilmente è anche la sua vita, che con la sua arte s’intesse e dialoga. Insieme, le due si modificano, condizionano, valorizzano… Tautologico, di fronte all’esistenza non certo priva di fascino di Tina Modotti, che nella sua breve durata (morì a soli 46 anni) – con partenza da Udine, dal contesto di una famiglia semplice ed emigrante di inizio ’900 – ha attraversato alcuni momenti chiave del secolo in vari luoghi del mondo. Modotti ha infatti vissuto periodi storicamente significativi in sette paesi diversi, parlando cinque lingue, essendo anche attrice teatrale e cinematografica, attivista politica, combattente, animatrice del Soccorso Rosso Internazionale, traduttrice, perfino – seppur con minore intensità – autrice di saggi, pittrice e poeta… (anche “maestra” di fotografia, una delle molte scoperte fatte lavorando a questa mostra). Se di lei molto conosciamo, è proprio perché la sua biografia ha sempre avuto la meglio. A lei, più che ad altri intellettuali del ’900, si è dato il discutibile privilegio di essere interessati maggiormente alla sua vita invece che alla sua produzione. Oggi però è il tempo di ripensarla e riscoprirla fuori dalla biografia, partendo dalla sua fotografia, come artista autonoma e donna, libera, umana, armata di profondi valori sociali, attenta alla condizione degli ultimi, alle battaglie di riforma ed educazione, capace di istanze al femminile di rara forza e precoci per i tempi: tutti temi di assoluta attualità che attraversano da sempre i suoi scatti, ribaditi oggi nello scoprire e studiare quelli meno noti. Su tutto, però, va celebrato il suo tratto artistico peculiare (o, come direbbe lei stessa, “di qualità fotografica”… e noi aggiungiamo: di originale eccellenza), troppo spesso passato in secondo piano. Occupandoci della sua produzione possiamo lasciare da parte, senza alcun giudizio su di loro e senza dimenticarli, gli amori che ha vissuto, i vari uomini (fra gli altri Weston, Rivera, Vidali) che le sono stati accanto e che spesso sono sembrati contare – proprio per l’eccesso di biografismo, o la necessità di drammaturgia che chiede il largo pubblico – di più della sua autonomia artistica, della sua opera. Tina Modotti è, oggi più che mai, la sua fotografia: nel vasto lavoro di mappatura dei suoi scatti condotto a Cinemazero, con ricerche in ogni lato del pianeta, fra musei e collezionisti privati, si è riusciti a documentare oltre 500 fotografie da lei scattate, molte, moltissime di più di quelle note, di quelle finora raccontate (normalmente al massimo 200 quelle “riprodotte” con frequenza). Tina non è più, come bene diceva una grande ricercatrice che si è occupata della sua opera – Sarah M. Lowe – “la più nota fotografa sconosciuta del XX secolo”. Ora le sue foto sono acquisite, catalogate (anche se non sempre esibite) dai grandi musei del pianeta e da varie realtà culturali, nonché battute a prezzi da capogiro (in caso dei rarissimi vintage) nelle aste più prestigiose. La mostra di Palazzo Roverella, che curo con la collaborazione di Gianni Pignat e Piero Colussi, promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con Dario Cimorelli Editore e Cinemazero, vuole documentare la sua varietà di approcci al soggetto ripreso, dalle nature morte, dai lavori più grafici e astratti, alla documentazione sociale e alla comunicazione politica. Un percorso che ricostruisce la sua capacità di utilizzare la metonimia più della metafora e del simbolo, con quella capacità tuttora commovente di raccontare il reale – fra leggera sfocatura e precisa attenzione al “cuore” del soggetto – con assoluta forza comunicativa. Innegabilmente allieva di uno dei più grandi fotografi della storia, Edward Weston, ma capace fin da subito di attestare una sua autonomia stilistica, tanto da influenzarlo e, come rilevano alcuni critici dell’epoca, – chissà – superarlo. Ecco allora che se la mostra di Rovigo un centro doveva avere, non poteva che essere votato alla sua indipendenza: la sua unica mostra personale realizzata in vita (dicembre 1929), ricostruita per la prima volta nel modo più completo. Perché Tina Modotti, donna, fotografa e artista, sia prima di tutto la sua opera e non certo una femme fatale, la compagna o solo l’allieva di qualcuno.”

Riccardo Costantini, Cinemazero – curatore della mostra