Serate di Cinema Muto – Capolavori Centenari

Di Paolo D’Andrea

Si è aperto con L’ultima risata (Der letzte Mann, 1924) di Friedrich Wilhelm Murnau (e con un sonante tutto esaurito) il nuovo ciclo di appuntamenti dedicati ai capolavori del cinema muto che compiono cento anni, nato dalla volontà di Cinemazero e delle Giornate del Cinema Muto in collaborazione con la Cineteca del Friuli. Da oltre quarant’anni, come noto, cultori e studiosi di tutto il mondo accorrono a Pordenone per le Giornate del Cinema Muto, festival in cui è possibile rivivere la magia e l’incanto del racconto per immagini che precede l’avvento del sonoro. «Ma perché circoscrivere la possibilità di vedere e rivedere i grandi film muti a un unico irripetibile evento? Anziché una sola volta all’anno, perché non riservare alla visione del cinema muto uno spazio con cadenza mensile? Con questo spirito abbiamo deciso di avviare un progetto di attività permanente dedicato alla conoscenza di quell’epoca gloriosa della storia del cinema», ha scritto Luciano De Giusti, curatore dell’iniziativa, nell’introduzione alla rassegna.

Il film di Murnau, storia di un portiere d’albergo che, declassato a custode dei gabinetti perché troppo anziano, perde il diritto di indossare la sua preziosa uniforme, è stato definito da Pier Paolo Pasolini in un’intervista a Peter Dragadze «il più bel film del mondo». Ed effettivamente, se non “il più bello del mondo”, il capolavoro del ’24 è certamente un’opera capitale, che tutt’oggi lascia a bocca aperta per la modernità delle soluzioni stilistiche e per la genialità di una sezione finale che oggi definiremmo “postmoderna” per le sue implicazioni metanarrative. Lotte Eisner sosteneva la tesi dell’incomprensibilità del film al di fuori della specificità del Reich tedesco, sottovalutando così la forza “universale” di una pellicola che racconta tanto la storia di una caduta quanto l’utopia (impossibile per definizione) di un liberatorio riscatto degli ultimi, dei reietti, degli squinternati. Posto che l’unico personaggio (apparentemente) senza macchia (se non sui vestiti) è la guardia notturna.

Totalità del linguaggio delle immagini: il film è praticamente privo di didascalie. Ha scritto Miriam Hansen: «Le didascalie sono rifiutate come inessenziali, esterne e irrilevanti per la nuova lingua del film […] La lingua ideale che il film promette di restaurare è la lingua dell’espressione immediata, che proietta un’integrità visibile di corpo e anima. […] L’origine di tale lingua primordiale [risiede] nel movimento espressivo spontaneo (Ausdrucksbewegung) di tutto il corpo, inclusi i movimenti delle labbra e della lingua. Non si afferma la supremazia della parola. Il suono è semplicemente un sottoprodotto di questa primordiale lingua dell’espressione». È peraltro splendida la colonna sonora originale di Giuseppe Becce, che è stata riproposta a Cinemazero nella versione eseguita dalla Saarbrücken Radio Symphony Orchestra diretta da Detlev Glanert (la copia in 2K è stata fornita dalla F.W. Murnau Stiftung di Wiesbaden).

Il secondo appuntamento non sarà da meno con la riproposizione di quell’autentica “enciclopedia del western” che è Il cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924) di John Ford, riproposto in una nuova traduzione e nella versione integrale statunitense di 150’. Alla proiezione, fissata per il 26 marzo alle ore 20:45, seguirà una speciale lezione di analisi e approfondimento dedicata al film per il ciclo “Il Maestro al Microscopio” in data giovedì 28 marzo (ore 18:30 in sala Modotti a Cinemazero).

La rassegna proseguirà ad aprile con un’imperdibile serata che vedrà Juri Dal Dan accompagnare al pianoforte due capolavori di René Clair, Entr’acte e Parigi che dorme. Maggio vedrà ritornare su schermo lo splendido Lubitsch di Matrimonio in quattro. Serve aggiungere altro? La magia del cinema muto a Cinemazero dura tutto l’anno!

Berlinale, sinfonia di un grande festival

                     Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …

                                                                           sentieri di cinema!

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Di Andrea Crozzoli

Il FilmFestSpiele di Berlino è una sinfonia cinematografica unica al mondo con più di 400 film in dieci giorni, oltre 300.000 biglietti venduti in 15 cinema coinvolti, un’audience di visitatori di poco meno di 450.000 unità, 18.000 ospiti accreditati (stampa esclusa) e 130 paesi di origine, oltre 2.800 giornalisti ed un bilancio di circa 33 milioni di euro.

All’interno di questa ciclopica manifestazione il Forum è una sezione indipendente, potremmo definirla un’osmosi parallela che si nutre del cinema più difficile, più di ricerca, senza grandi budget e nemmeno grandi attori. Quel cinema di domani, fatto di passione, energia, talento, che non vince Orsi d’Oro o d’Argento, ma si pone come stimolo quello di percorrere territori inesplorati, ad allargare nuovi orizzonti.

Una sezione, ça va sans dire, tenuta d’occhio dalla CICAE, ovvero dall’associazione internazionale dei cinema d’essai fondata nel 1955, che oggi rappresenta 4.400 schermi in 45 paesi in Europa e non solo. La missione della CICAE è quella di promuovere il cinema di qualità sul grande schermo e difendere il “diritto alla diversità culturale”. L’Arthouse Cinema Award, su queste premesse viene quindi assegnato, da una giuria internazionale, per aiutare il film di qualità più meritevole a trovare un suo spazio fra i 2.400 cinema della rete internazionale d’essai aderenti alla CICAE.

Quest’anno, per il Forum della Berlinale, la giuria era composta da Anca Caramelea, curatrice dalla Romania di Cinema ARTA e membro del team di selezione di Ecozine Film Festival; da Stefan Malešević, regista e curatore cinematografico dalla Serbia, dell’Unione serba dei registi, della DokSerbija (Unione serba dei documentaristi) e dal sottoscritto.

Dopo dieci intensi giorni di film, discussioni e incontri la giuria del 64mo Forum all’unanimità ha assegnato l’Arthouse Cinema Award 2024 a Shahid

della regista iraniana, naturalizzata tedesca, Narges Kalhor con la seguente motivazione: “a un’opera cinematografica unica e audace che riesce ad infrangere convenzioni e confini. Grazie anche ad un approccio stilistico e tematico a più livelli che crea un film molto onesto e intimo oltre ad usare l’autoironia mentre affronta questioni importanti e cariche di conseguenze. Per una regia che riesce a bilanciare con grazia realtà e finzione, umorismo e tragedia, varie forme d’arte ed emozioni in una potente miscela cinematografica.”.

Martin Scorsese del resto, nel ricevere l’Orso d’Oro alla carriera dell’edizione 2024 della 74ma Berlinale, aveva affermato che “i film, e soprattutto quelli proiettati ai festival, dovrebbero influenzare il modo in cui vediamo le persone intorno a noi e il modo in cui ci comportiamo nella vita” e Shahid di Narges Kalhor è l’esempio perfetto di quei film che allargano lo sguardo sul mondo e fanno cogliere la realtà in modo diverso. Il tutto attraverso una narrazione diversa, in aperta contraddizione con l’imperante omogeneizzazione e disumanizzazione di certa politica. In Shahid la regista Kalhor, attraverso un’originale opera tra fiction e mockumentary, narra di ricordi collettivi e privati, stemperati in forma di onirica tragicommedia attraverso il complesso processo burocratico per cambiare il nome dopo aver ottenuto asilo in Germania. La regista Narges Shahid Kalhor vuole farsi chiamare semplicemente Narges Kahlor in quanto “Shahid”, che significa martire, la collega alla morte e alle sue radici legate all’attuale regime iraniano. Il bisnonno, infatti, fu ucciso nel 1907 mentre pregava, cosa che lo rese un martire – uno “shahid” appunto – e questo termine fu associato al nome della famiglia. Ma Narges, stanca di tutte le sue connotazioni e del suo status di immigrata, stanca anche della burocrazia tedesca e soprattutto, del circolo vizioso globale del patriarcato, ha deciso di rimuovere “shahid” dal suo nome. Il complicato iter burocratico per cambiare il nome diventa ancora più impegnativo allorché entra nella narrazione la burocrazia tedesca. La regista Kahlor deve fare i conti anche con i suoi ricordi, o più precisamente con la storia della sua famiglia, che è anche la storia della rivoluzione islamica e dell’attuale regime in Iran. In Shahid la danza che apre il film, ricopre poi un ruolo centrale e segna visivamente lo sviluppo della storia della protagonista. Inizialmente, il suo bisnonno martire e i suoi amici tutti vestiti di nero la seguono ovunque, ballando e occupando il centro della scena, mentre lei cerca di evitarli e scappare dalla propria storia passata. Quando Narges cammina per le strade di Monaco diretta a un ufficio amministrativo, loro la seguono mentre gli altri pedoni si muovono all’indietro. Se Kahlor è preoccupata per il suo cognome, in un dietro le quinte vediamo che anche i due attori principali Baharak Abdolifard e Nima Nazarinia, riflettono sui loro problemi, in quanto entrambi sono ancora in attesa di ottenere asilo in Germania. Il quarto muro, ovvero quel “muro immaginario” di fronte al palcoscenico, attraverso il quale si osserva l’azione e che completa le tre pareti che formano la scena, in Shahid, viene scardinato; le istruzioni della regista, la troupe e le ripetizioni dei ciak sono tutte inserite nel montaggio finale, a formare una combinazione perfetta di performance, documentario, animazione, musical, oltre a parlare direttamente alla camera. Come Narges Kalhor cerca la sua identità tra paesi, culture e lingue diverse, parallelamente il film cambia quindi costantemente i propri registri con originale virtuosismo: tra finzione e documentazione, tragedia e commedia, cinema di genere e film sperimentale, movimenti rallenti o veloci, film nel film e il dietro le quinte, mettono costantemente in discussione la forma filmica come in una spirale infinita. Con quest’opera Kalhor ha, di fatto, abbattuto molte convenzioni attraverso un lavoro mirabilmente creativo in bilico tra il multimediale e il metaverso. Un’opera audace per la giovane regista, nata a Teheran nel 1984, dove ha studiato regia e comunicazione visiva. Nel 2009 mentre si trovava in Germania per seguire un festival, ha chiesto asilo politico. Nel 2019 ha vinto il premio DOK Leipzig con il suo fantasioso In the Name of Scheherazade or the First Beergarden in Tehran. Quest’anno a Berlino con Shahid ha bissato vincendo anche il premio Caligari sponsorizzato dalla Bundesverband kommunale Filmarbeit e dalla rivista Filmdienst.

Quella del 2024 è stata anche l’edizione che ha concluso la collaborazione quinquennale di Carlo Chatrian con la Berlinale. Il piemontese Chatrian da Locarno era passato a Berlino, dove ha attraversato anche i duri anni pandemici, quelli più difficili, e li ha superati brillantemente, riportando nel 2024 il FilmFestSpiele agli antichi splendori e forse anche oltre. Ha fatto fronte alla mancanza di blockbuster americani e quindi di glamour hollywoodiano, a causa del lunghissimo sciopero degli attori e sceneggiatori in Usa, con una insolita alta qualità dei film selezionati dove la giuria, composta anche dalla nostra brava attrice e regista Jasmine Trinca, ha assegnato l’Orso d’Oro al film-documentario Dahomey di Mati Diop sulla restituzione al Benin di 23 opere d’arte locali trafugate e portate a Parigi ai tempi della colonizzazione. La Diop, regista francese di radici senegalesi, non è nuova ai palmares, ha visto infatti il suo talento premiato anche a Cannes nel 2019 con il gran premio della giuria per Atlantique. Arrivederci quindi dal 13 al 23 febbraio 2025 per la 75ma edizione del FilmFestSpiele.

Morte a Berlino

Di Marco Fortunato

Parafrasare Luchino Visconti può essere una chiave per provare a tracciare un immaginario fil rouge che ha unito molte delle opere che si sono contese l’Orso d’Oro alla recente Berlinale, conclusasi pochi giorni fa. Una morte, quella vista sul grande schermo a Berlino, intesa sia in senso fisico, come trapasso del corpo con conseguente necessità di elaborazione del lutto da parte di chi resta, ma anche spirituale, o metaforica, spesso generativa di grandi cambiamenti, sia positivi che negativi.

Impossibile non iniziare questo escursus dal film che ha scelto di inserire la parola “morte” fin dal titolo. È quanto ha fatto il regista tedesco Matthias Glasner che con il suo Sterben (che significa morte in tedesco appunto) ha raccolto un ottimo riscontro di pubblico e critica – conquistando anche un meritatissimo l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura – con un sorprendente melodramma che partendo dalle vicissitudini di una famiglia disfunzionale riesce a mettere in scena i tanti aspetti di una vita che finisce. Anzi di più vite perché quello di Glasner è un film corale dove ad essere protagonisti sono soprattutto le relazioni interpersonali tra le persone. L’autore è abile nel sottolineare, pur senza essere didascalico, il rapporto causale che lega il comportamento di un personaggio alla reazione di un altro. Tutto ha inizio nel corso di una riunione di famiglia – il cui pretesto, guarda caso, è il lutto – durante la quale lo spettatore già percepisce un clima mortifero. Ognuno dei commensali ha infatti a che fare, in modi e forme diverse, con la morte. E vi si rapporta in maniera completamente diversa. Attorno al tavolo siedono il padre, affetto da demenza, che si rende conto del progressivo arrivo della “fine” i cui effetti si fanno ogni giorni più manifesti; la madre, perennemente presa dagli impegni e che viene messa di fronte alla sua inadeguatezza rispetto a questo ruolo e all’impegno che esso comporta (un ruolo dunque che essa stessa ha scelto volontariamente di “lasciar morire”) e i due figli, il primo, musicista, che sta componendo un’opera sulla morte in compagnia dell’amico con istinti suicidi e l’altra, vittima dell’alcolismo, che ne ha di fatto già ucciso le relazioni e la voglia di vivere. Anche se può sembrare impossibile con tutto questo materiale, ulteriormente arricchito dalle vicissitudini di altri personaggi, Glasner confeziona un “opera piena di vita”, come ha scritto il Guardian, che si destreggia nel raccontare la complessità della vita vista come antitesi alla morte. Nel farlo l’autore sceglie un’intelligente vena ironica, senza scivolare mai nella commiserazione, sapendo emozionare e coinvolgere il pubblico per tutte le tre ore.

Di morte parla anche Another End di Piero Messina (cui abbiamo dedicato un articolo il mese scorso) che ci porta in un domani sospeso, in un universo misterioso nel quale, grazie ad una tecnologia innovativa, una società è in grado di riportare in vita, per un breve periodo, chi non c’è più, mettendolo nel corpo di un altro essere umano. È a loro che sceglie di affidarsi Sal, il protagonista, che ha perso sua moglie in un tragico incidente. L’obiettivo sarebbe quello di sfruttare questo tempo, che dovrebbe esser molto breve, per dirsi addio ma, com’è lecito immaginare, riconnettere due persone divise dal destino, può avere conseguenze inaspettate. Un’opera seconda molto ambiziosa quella di Messina che nove anni dopo il suo esordio con L’attesa, torna sul tema della separazione, del lutto e delle strategie per elaborare il dolore che ne consegue. Lo fa in un film ricco di citazioni cinefile e di linee narrative (ma con un tema del genere e in un racconto che gioca sul confine tra il reale e l’onirico forse non poteva essere altrimenti) che per questo a volte rischia di perdere unità ma che, unendo melò e sci-fi rimane comunque un interessante esperimento di reinterpretazione dei canoni del genere.

Chi invece ha dovuto tragicamente affrontare la morte senza alcuna consolazione è stata la giovanissima Hilde Coppi la cui storia è al centro di In Liebe, Heure Hilde di Andreas Dresen, che firma un tenero ritratto della giovanissima combattente della resistenza antinazista che viene incarcerata in un lager – e malgrado la gravidanza e la successiva nascita del figlio le permettano di posticipare il suo destino – dovrà affrontare una tragica morte, che sarà prima psicologica e poi fisica. Un contrasto, quello tra sofferenza e dolore che trasudano nell’ambiente del lager, e la felicità della vita in libertà (resa efficacemente da una serie di flashback che ricostruiscono la vita di Hilde nel periodo precedente alla cattura) che trasmette con efficacia la potenza di un messaggio univoco: per quanto tragica, ingiusta e dolorosa anche la morte può essere sconfitta, da solidi ideali e dall’amore. Ed in effetti il riconoscimento dell’enorme sacrificio e dell’impegno contro il nazismo è giunto fino a noi e, anche se sono passati più di ottant’anni dai tragici fatti narrati, il valore di quanto fatto dai membri del gruppo soprannominato “Orchestra Rossa” giunge al pubblico in tutta la sua potenza. Merito, più che della scrittura che appare a volte un po’ troppo didascalica dalla straordinaria interpretazione di Liv Lisa Fries che forse avrebbe meritato di essere premiata.

Ma alla morte si può anche sopravvivere, se a morire non è l’intero corpo ma solo parte di esso. È quanto accade a Edward, il protagonista di A Different Man, il cui sogno sarebbe di poter fare l’attore, obiettivo tutt’altro che semplice essendo il suo volto coperto da malformazioni ed escrescenze ripugnanti che gli rendono quasi impossibili anche azioni semplici, come vedere da un occhio o fischiare. Per questo, oltreché per amore della nuova vicina di casa, Edward deciderà di tentare una cura sperimentale che promette di donargli un volto nuovo. Così accadrà ed Edward si troverà, bello come non mai, a iniziare una nuova (?) vita, potenzialmente ricca di soddisfazioni e felicità. Che però non raggiungerà mai. Grazie alla cura miracolosa, ad essersene andato è solo l’aspetto esteriore di Edward, ma non la sua personalità. Lo capirà molto bene quando il suo ruolo nella nuova piece teatrale cui ambisce verrà preso – ironia della sorte – da Oswald, affetto dalla sua stessa malattia ma con un carattere opposto. Sarcastico, divertente, passionale, talentuoso, Oswald fa il suo ingresso in scena in maniera dirompente conquistando il pubblico (sia quello dello spettacolo messo in scena che quello della sala cinematografica) e dimostrando che il fascino e la bellezza, quella vera, risiede nell’essenza delle persone.

Quelle stesse persone che hanno affollato il festival che, quasi a fare da contraltare ai temi dei film di cui vi abbiamo appena raccontato, restituiscono l’immagine di un festival e di un settore, quello del cinema, più vivo che mai.   

Dedica a Cinemazero

Arturo Pérez-Reverte, scrittore pluripremiato e figura di spicco della letteratura contemporanea, sarà il protagonista della trentesima edizione di Dedica, in programma dal 16 al 23 marzo 2024, a Pordenone, preceduta da una serie di ritorni di protagonisti del passato per festeggiare i 30 anni del festival. Come sempre, la rassegna, organizzata dall’associazione culturale Thesis e curata da Claudio Cattaruzza, ripercorrerà e approfondirà l’universo letterario del protagonista per otto giorni e, come accade ormai da diversi anni, si rinnoverà anche la collaborazione fra Thesis e Cinemazero attraverso la serata che martedì 19 marzo porterà in sala, alle 20.45, Arturo Pérez-Reverte, in occasione della proiezione del film “Il maestro di scherma” (titolo originale “El maestro de esgrima”, 91 minuti, in lingua originale, con sottotitoli in italiano; l’ingresso costa 3 euro, il biglietto si può acquistare a Cinemazero oppure online su www.cinemazero.it).

Tratto dall’omonimo romanzo di Pérez-Reverte (diversi suoi romanzi sono diventati film, il più noto è “La nona porta”, del 1999, regia di Roman Polański  e con Johnny Depp, tratto dal libro “Il club Dumas”), è diretto da Pedro Olea e vede fra i protagonisti il compianto attore di origine friulana Omero Antonutti. La proiezione sarà accompagnata da una conversazione del protagonista di Dedica con Riccardo Costantini, responsabile degli eventi di Cinemazero e di Pordenone Docs Fest.

Il festival Dedica sarà inaugurato sabato 16 marzo, alle 16.30, nel Teatro Verdi di Pordenone, dove Arturo Pérez-Reverte sarà intervistato dallo scrittore e traduttore Bruno Arpaia. Nell’occasione il Comune di Pordenone consegnerà all’autore il Sigillo della città.

Fra gli eventi attesi a Dedica 2024, la trasposizione per il teatro di due romanzi di Pérez Reverte, “Territorio Comanche” (il 17 marzo) con Fausto Russo Alesi e “Occhi azzurri” (il 21 marzo) con Peppe Servillo; la mostra (dal 17 marzo) al Paff! dedicata alla saga del Capitano Alatriste di Pérez-Reverte con le tavole del fumettista e pittore spagnolo Juan Mundet; la prima presentazione in Italia dell’ultimo libro di Pérez Reverte tradotto in italiano “Linea di fuoco”, Rizzoli (20 marzo); il dialogo su come si racconta la guerra fra Pérez Reverte e l’antropologo Marco Aime (22 marzo); le conversazioni del protagonista del festival nelle Università di Venezia, Udine e Klagenfurt e la chiusura di Dedica, sabato 23 marzo, al Capitol, con il tango, nel concerto del celebre bandoneista Daniele Di Bonaventura e dell’Orchestra giovanile Filarmonici Friulani.

Info: wwww.dedicafestival.it, Facebook: Dedica festival Pordenone

Twitter: @dedicafestival, Instagram: dedica_festival