TriesteFilmFestival 2021

Esaustiva panoramica del cinema dell’Europa centro orientale

Di Andrea Crozzoli

Come ormai tradizione dal lontano 1989 anche quest’anno abbiamo vissuto una ricca edizione al Trieste Film Festival 2021 dove in una settimana si può vedere il meglio della cinematografia dei paesi dell’Europa centro orientale: dalla Grecia, Slovenia, Croazia, Polonia, Ungheria all’Azerbaigian, all’Armenia, alla Russia. Un’imperdibile cavalcata in quel cinema che riesce a raccontare la realtà, pur trasfigurandola qualche volta autorialmente, in maniera approfondita, ricca di suggestioni, assolutamente convincente, senza sconti o subalternità.  Come nel film vincitore dell’edizione 2021 che affronta il problema dell’intolleranza, che si manifesta nell’Europa centro orientale non solo con i migranti, questa volta nella declinazione religiosa. Sono i testimoni di Geova che a cavallo del terzo millennio vengono perseguitati in Georgia da gruppi di nazionalisti e integralisti. Il tutto è raccontato nel film georgiano Dasatskisi (L’inizio) della giovane regista Dea Kulumbegashvili, alla sua opera prima, dove la bellezza della natura fa da contraltare alla ottusa e cruda violenza contro chi ha l’unica colpa di credere in un’idea diversa. Il film, dall’estetica asciutta e penetrante, è una dura indagine sulla violenza e sui suoi effetti perniciosi vista dall’angolatura femminile, dove la donna in Georgia viene abituata fin dall’infanzia a pensare non per sé ma per il futuro della famiglia. Il film, che dal punto di vista visivo, ricorda da vicino un certo cinema d’autore messicano come Carlos Reygadas o Fernando Eimbeck attraverso l’uso esasperato di inquadrature fisse, è già stato premiato a Toronto e presentato a Cannes. Menzione speciale poi della giuria del Trieste Film Festival a Exile (Esilio) di Visar Morina interessante ritratto di un ingeniere kossovaro trasferitosi a lavorare in Germania che matura una paranoia persecutoria nei suoi confronti fino a perdere il controllo della situazione e mettere in discussione anche la sua vita affettiva. Il film ha visto la sua anteporima mondiale al Sundance ed è candidato agli Oscar per rappresentare il Kossovo.

Otac

Altro film, segnalato anche con il premio del pubblico, è Otac (Padre) del regista serbo Srdan Golubovic dove il protagonista, l’ottimo Goran Bogdan, si ritrova a combattere non solo contro la corruzione dilagante e permeante ma anche contro gli stessi vicini del piccolo borgo dove vive. Vicini che gli vuotano la casa mentre lui percorre a piedi i 300 chilometri che lo separano da Belgrado. Deve consegnare una petizione al ministro per riavere i figli sottrattigli dai Servizi Sociali dopo che la fabbrica dove lavorava ha chiuso i battenti lasciandolo senza soldi e senza lavoro. Pur percorrendo una specie di laica via crucis, a volte anche prevedibile, il film non perde forza e intensità e rimane un vivido ritratto della Serbia e del suo distopico presente. Premio Alpe Adria invece a A casa (Casa mia) del rumeno Rado Ciorniciuc, un documentario che sembra un film di fiction, dove si narra di un padre che con i suoi nove figli vive da 20 anni nel Delta Vacaresti, una zona ai margini di Bucarest. Quando questo Delta viene dichiarato parco naturale la famiglia è costretta a trasferirsi in città, saranno soprattutto i figli a vivere questa nuova situazione in maniera più o meno problematica. Quattro anni di riprese e migliaia di ore di girato si condensano in un’opera senza didascalismi nel mostrarci i danni che la società attuale e il consumismo infliggono all’uomo. Ma il documentario si chiude con una simpatica nota di speranza quando il primogenito della numerosa famiglia, ormai diciannovenne, apprende dalla compagna quindicenne l’imminente paternità. Candidamente il ragazzo esclama: «Saremo una famiglia di tre bambini!».  La famiglia è anche il perno nel quale ruota Pari di Siamak Etemadi, giovane regista iraniano stabilitosi da studente in Grecia,  dove racconta, con risvolti anche autobiografici, la storia di una coppia che esce per la prima volta dall’Iran per far visita al figlio studente ad Atene. Concepito come ‘una lettera d’amore’ a sua madre – ha dichiarato il regista – il film è il ritratto di una donna che si libera delle paure e delle inibizioni, spinta da una potente determinazione nel ritrovare il figlio. La sua ricerca è radicata nel desiderio descritto nella poesia persiana classica come il ‘desiderio dell’amato’, una profonda tensione  che non potrà mai essere soddisfatta. Ed è proprio in quel desiderio che il regista ha trovato il principio che anima il viaggio di Pari in una insolita Atene notturna e livida. C’è ancora una figura femminile, in questa ottima selezione dei film in concorso, anche al centro della vicenda in Strah (Paura) del bulgaro Ivaylo Hristov dove una combattiva insegnante (ricorda per certi versi la determinatezza di Frances McDormand in Tre manifesti a Ebbing), disoccupata per la carenza di alunni nella scuola del paese, accoglie in casa un nero sfidando così le ire dei suoi concittadini e della polizia impegnata a fermare i migranti al confine. Dopo varie vicende tra il surreale e il sarcastico, lo stesso regista nei panni di un carrettiere condurrà i due verso una nuova meta: l’Africa! Girato in un bellissimo bianco e nero il film si suggella con questo finale poetico dal sapore chapliniano.

Queste e tanto altro si è visto online al 32mo TriesteFilmFestival, sempre foriero di piacevolissime scoperte che allargano l’orizzonte cultural/cinematografico. Orizzonte speriamo visto anche da qualche distributore illuminato affinchè faccia circolare in Italia una parte almeno di queste opere interessanti. Pur svoltosi online il Trieste Film Festival non ha tralasciato nemmeno l’aspetto gastronomico grazie anche alla mitica Antonia Klugmann, chef dell’Argine di Vencò, che ha videospiegato la sua succulenta ricetta di gulash d’autore. Ma quello che è veramente mancato in questa bella edizione via web è il contatto umano, la presenza, il ritrovarsi, la frequentazione della sala cinematografica, i commenti a fine proiezione sul film appena visto, il teatro Rossetti con i suoi palchi, l’Antico Caffè San Marco con la sua allure viennese per gli incontri con gli autori, la popolare jota (squisita zuppa bollente) da Giovanni in via San Lazzaro. Insomma è mancata la cara “vecia Trieste mia” come cantava l’indimenticato Lelio Luttazzi.

PERCHE SANREMO È SAN REMO..

Di Marco Fortunato

Si può amare o odiare ma un merito (anche in tempi di pandemia) Sanremo l’ha avuto certamente, quello di riaccendere il dibattito sulla situazione del mondo dello spettacolo. Un mondo che si stava via via dimenticando e sul quale la polemica sulla presenza del pubblico in sala ha riacceso, speriamo non solo momentaneamente, i riflettori, introducendo un ulteriore elemento nel dibattito relativo alla riapertura.

Se ancora nessuno sa dire con certezza quando i cinema e i teatri potranno riaprire la querelle sanremese ha riportato l’attenzione anche sul “come” si dovrà gestire questa ripartenza che, per molti, arriva dopo quasi un anno di blocco della attività.

Più o meno consapevolmente e passando per le più fantasiose delle soluzioni (dalla nave su cui far fare la quarantena agli spettatori fino all’arruolamento di figuranti) il “caso Sanremo” ha dato l’occasione a più voci di sottolineare il ruolo del pubblico in uno spettacolo, rimarcando come senza di esso un evento finisca per modificare la sua stessa natura. 

Per chi ama il cinema, quello vissuto nella sala cinematografica, può sembrare quasi un concetto banale ma evidentemente non è così. Ma più che ribadirlo serve orientare gli sforzi per la riapertura dei luoghi di cultura tenendo presente il ruolo che il pubblico svolge e mettendo in atto tutte le misure volte a favorire la loro partecipazione.

Il primo passo sarà ovviamente quello di garantire la sicurezza, ma su questo per fortuna molto è stato già fatto e, per ammissione degli stessi esperti cinema e teatri sono tra i luoghi dove è possibile ridurre al minimo il rischio di contagio (tanto da essere stati addirittura proposti come luoghi per ospitare la campagna vaccinale). Ma non basta, serve ideare strumenti nuovi per (re)incentivare il ritorno al consumo culturale collettivo. È necessario pensare ad azioni che, in concreto, favoriscano il progressivo recupero del valore sociale dei luoghi di cultura.

Le associazioni di categoria sono da tempo al lavoro e hanno elaborato proposte concrete. Da forme di sostegno al “consumo culturale” sul modello delle App riservate a docenti e diciottenni (18App e bonus Cultura) che hanno prodotto in questi anni ottimi risultati fino a misure strutturali che consentano, ad esempio, di usufruire di detrazioni fiscali sulle spese sostenute per assistere agli spettacoli (cinema, teatro ma anche concerti).

Perché Sanremo è Sanremo ma “l’Ariston è un teatro come gli altri” – come ha giustamente dichiarato Mogol pochi giorni fa – è uno spettacolo senza pubblico, un cinema senza spettatori “in presenza” non sono la stessa cosa e, forse, non possono nemmeno esistere.

Cinemazero ha offerto il suo contributo in termini di idee ma vuole fare di più e per questo sta elaborando delle proposte speciali per il suo pubblico. Una serie di pacchetti, molto vantaggiosi, per rituffarsi a capofitto nel mondo del cinema e di Cinemazero e nelle sue molteplici attività con un’attenzione speciale – e non poteva essere altrimenti – ai possessori di CinemazeroCard per i quali si aprirà un nuovo percorso di eventi esclusivi a loro riservati.

6 vetrine incontrano l’autore

Il movimento inesauribile (al prisma d’artisti manca solo il pubblico)

Di Riccardo Costantini

I film a Cinemazero non vivono mai soli. Intorno a loro, il pubblico si muove da 42 anni con continuità, armonicamente, dialogicamente. Il lavoro che Cinemazero fa è volto a nobilitare ogni ruolo della filiera cinematografica, e in particolare quello dello spettatore, affinché sia protagonista, parte attiva di un percorso culturale che vuole riconoscere al cinema le sue caratteristiche specifiche, la sua qualità culturale, artistica, artigianale, di contenuto e di ricaduta sociale. Cinemazero, da molto tempo, è la casa del cinema di Pordenone. Ci fece arrossire, alcuni anni or sono, il regista Roberto Andò quando disse che Cinemazero è “uno dei pochi luoghi d’Italia dove si contempla la civiltà dell’audiovisivo”. Non esiste civiltà senza essere umano. Viva, presente, reale, è fatta principalmente di persone, quelle che si vedono meno quando lo schermo è illuminato, ma che pur stando dall’altro lato dello spettacolo ne costituiscono l’essenza. Non ci avevamo mai riflettuto così tanto come ora. Nella sua storia Cinemazero non aveva infatti mai vissuto un periodo simile: due chiusure imposte dalle normative anti Covid 19, al fine di limitare non tanto i contagi diretti (le sale sono e saranno sempre molto sicure) ma la socialità – e i conseguenti possibili contatti – fra molte persone.

Dal 4 marzo al 10 giugno 2020, dal 31 ottobre 2020 a oggi (15 gennaio 2021… e chissà fino a quando), le nostre 4 sale di Pordenone, i cinema gestiti direttamente o indirettamente (Nuovo Cinema Don Bosco a Pordenone, CinemaCity a Lignano, Teatro Cinema Zancanaro a Sacile… oltre al circuito regionale di Visioni d’insieme e tutte le iniziative in altri luoghi, teatri, auditorium etc.) sono rimasti forzatamente chiusi. Schermi spenti, varie decine di migliaia di spettatori mancanti, centinaia di poltrone vuote, la sparizione dell’usuale “brusio” all’ingresso e all’uscita, in atrio, nei luoghi d’incontro, nei nostri festival, il silenzio delle voci nei nostri dibattiti… Così, quello che è più mancato è stato proprio quel movimento inesauribile, che porta contatto diretto, costante, divertito, partecipe, a volte critico, accorato o accalorato, con il pubblico. Quel pubblico che, con i riti tipici delle sale cinematografiche, degli appuntamenti culturali costanti, era abituato a formare piccoli capannelli fuori dalle sale il giovedì – giorno di “ingresso” dei nuovi titoli della settimana – per scoprire dalle locandine, dalle bacheche, che cosa avrebbe potuto vedere. Le “luminose” per qualcuno, chiamate anche “vetrine” da altri, “plance” dai più tecnici – con le variabili di vocabolario che amiamo, perché ricordano la diversità del pubblico che tanto ci appassiona e motiva – sono rimaste vuote, silenti come i nostri luoghi.

Ecco allora che quando Matteo Attruia e Giovanni De Roia, artisti ma anche fidi spettatori appassionati, che le avevano a lungo osservate dolorosamente vuote, ci hanno contattato per proporci di ripopolarle con un’idea complessiva originale e con singoli contributi di qualità, abbiamo aderito con entusiasmo: da una parte, la voglia di interrompere quel “digiuno” di film, in un modo o nell’altro, foss’anche con la provocazione di locandine non cinematografiche, dall’altra la predisposizione storica, che vorremmo fosse sempre più una costante, di Cinemazero ad aprirsi alla contaminazione, alla sperimentazione, offrendosi anche all’arte contemporanea. Vedere le persone fermarsi di nuovo a curiosare, a sostare dopo un passaggio magari veloce in auto, a interrompere la pedalata per domandarsi “cosa stia per arrivare” o “cosa ci sia in cartellone” ha riacceso – seppur metaforicamente – la luce sulle nostre sale. L’ha riaccesa come pensiamo sempre sia giusto fare, illuminando ciò che merita maggiore attenzione: il bello, l’utile, il discutibile (nel senso proprio del termine).

Storie, poltrone, immagini imprevedibili, pixel, luci e rifrazioni, analogiche e digitali: scomposti nel “prisma a sei artisti” curato da Matteo Attruia ci sono quasi tutti i colori dell’arcobaleno di Cinemazero – che forse non a caso vigila l’ingresso delle sale –, collocato a giugno 2020, segno universale di speranza e allegria, convinti che avrebbe abbracciato tutti per un periodo lungo, senza immaginare una nuova chiusura che si è poi verificata.

Manca un artista, manca un colore, che è anche calore: il pubblico. Lo aspettiamo, è per lui che lavoriamo, e grazie a lui che esistiamo. L’arte ce lo ricorda, strizzando l’occhio a chi è di passaggio, gettando speranza, ironia… il cuore oltre l’ostacolo. La più piccola galleria d’arte a cielo aperto? A Pordenone, a Cinemazero. Che speriamo sempre sia per tutti se non “il cinema più grande della vita”, come recitava la pubblicità che promuoveva il formato enorme del Cinemascope, ma – molto ambiziosamente, perché no? – il cinema della sua vita. 

Riscoprire gli album fotografici di famiglia per parlare dei diritti delle donne

Tantissimi studenti impegnati nel laboratorio didattico “Memorie di donne”

Di Elena D’Incà

A molti sarà capitato nel guardare un ritratto fotografico di sentirsi “chiamato in causa”, di sentirsi a sua volta osservato e di entrare in empatia con i protagonisti ritratti, cercando di immaginare le loro vite in un’epoca molto diversa da quella attuale. Le fotografie ci parlano, sono dei testimoni silenziosi di un’epoca, della sua cultura, della sua vita.

Quale migliore strumento quindi per intraprendere un percorso didattico alla ri-scoperta dell’universo femminile degli ultimi 100 anni per promuovere la sensibilizzazione sul tema della parità di genere, volendone comprendere a fondo le ragioni.

Con questa consapevolezza abbiamo voluto proporre agli Istituti Comprensivi del territorio pordenonese il progetto “Memorie di donne” il laboratorio didattico di Cinemazero promosso e finanziato in collaborazione con Comune di Pordenone – Assessorato alle Pari Opportunità, e con piacere abbiamo raccolto moltissime iscrizioni tanto che si è deciso di raddoppiare i laboratori per consentire a tutte le classi  la partecipazione.

“Memorie di donne” è un progetto didattico teorico – pratico di analisi e riflessione sul ruolo culturale, sociale e familiare della donna nel corso degli anni, rivolto agli studenti che condurranno una ricerca ed un’analisi a partire dal proprio personale album di fotografie di famiglia. Attraverso fotografie analogiche di nonne e mamme, fino a prendere in considerazioni quelle più recenti in formato digitale gli studenti, grazie anche al linguaggio fotografico, saranno condotti in un’analisi dell’evoluzione della figura femminile nel suo particolare contesto socio-culturale. Progetto didattico è nato con l’intento di sensibilizzare ed educare le nuove generazioni per prevenire fenomeni di violenza e discriminazione di genere, e per promuovere un cambiamento, partendo dal presupposto che l’educazione è la prima arma per prevenire e contrastare la violenza contro le donne.

Molti saranno i temi che verranno affrontati con questo progetto didattico, molte saranno le competenze sviluppate:

La prima lezione è dedicata ad acquisire familiarità con il linguaggio fotografico, in particolare quello del ritratto di famiglia. Gli elementi base del linguaggio fotografico saranno illustrati con il costante supporto di strumenti multimediali grazie alla tecnica didattica della lezione segmentata e dialogata. Verranno inoltre fornite indicazioni sulla raccolta del materiale fotografico e su come svolgere l’indagine sul campo.

Gli studenti infatti vestiranno i panni degli ‘Sherlock Holmes’ nell’esplorare il loro archivio fotografico di famiglia, per portare alla luce una selezione di tre fotografie raffiguranti le figure femminili della loro famiglia, partendo dalla più antica che riescono a trovare fino alla più recente. Con l’aiuto di apposite schede didattiche, poi intervisteranno i nonni ed i genitori per cercare di capire come era il mondo all’epoca in cui la foto è stata scattata e quale il vissuto sociale delle figure femminili ritratte.

Le immagini raccolte dagli alunni verranno poi scansionate ed elaborate su una Timeline interattiva.

Si costruirà in questo modo un percorso interattivo che consente di associare le storie individuali  delle famiglie degli studenti, agli avvenimenti significativi che hanno modificato il ruolo sociale, culturale, politico (e in generale la vita) delle donne.

Sarà possibile in questo modo riflettere sul ruolo della donna, sulla uguaglianza/diversità dei generi, e far esperire agli studenti l’importanza dell’impegno individuale per garantire un pieno raggiungimento delle pari opportunità.