Vola a Toronto il Colibrì di Francesca Archibugi
di Andrea Crozzoli
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Dove la mano dell’uomo non aveva messo piede …
sentieri di cinema!
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Sabato 16 settembre Francesca Archibugi sarà presente al prestigioso Toronto International Film Festival per l’attesa anteprima mondiale de Il Colibrì, l’ultima sua fatica cinematografica, tratta dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi con un cast stellare: da Pierfrancesco Favino a Kasia Smutniak, da Nanni Moretti a Berenice Bejo, da Laura Morante a Benedetta Porcaroli. Raggiungerà il Canada direttamente dal set dove sta lavorando ad un film tratto dal capolavoro di Elsa Morante La storia. Un impegno che la Archibugi definisce «enorme» e che ha Jasmine Trinca come protagonista assieme a Valerio Mastandrea, Elio Germano e Asia Argento.
Sempre alle prese con film tratti da testi letterari. Qual’è il tuo rapporto tra parola scritta e immagini?
Io dentro i libri non vedo immagini, vedo struttura, plot, trama, personaggi. Poi il lavoro nel cinema è proprio un’altra cosa. Raccontare sullo schermo lo si fa riscrivendo questi testi, in quanto la trasposizione cinematografica ha la necessità di diventare immagine, scene, volti, ambientazioni, personaggi. C’è la necessità di comporre una sequenza, in dettaglio o in campo lungo, se ti avvicini o meno ai personaggi con la macchina da presa, etc. etc. Questa è un po’ la regia. Dai libri cerco, quindi, di prendere qualcosa che è interna al testo, soprattutto per quanto riguarda la trama e personaggi. Il film è completamente un’altra lingua rispetto al testo scritto.
Il libro Il Colibrì di Sandro Veronesi, è il racconto della vita di Marco Carrera, una vita di coincidenze fatali, perdite e amori assoluti. Recentemente hai dichiarato di aver «amato tanto questo romanzo da considerarlo un pezzo della mia biografia». In che senso?
Nel senso che attraversa mondi che mi sono molto contigui. Un certo tipo di borghesia ad esempio. Che è sempre difficile da rappresentare in quanto è molto inviso raccontare questo mondo, soprattutto al cinema. Mentre in letteratura no: da Jonathan Franzen a Donna Parker a Veronesi stesso, tutti possono raccontare la borghesia senza che sia vista come un momento riduttivo di lettura del mondo. La cosa veramente importante è che ognuno, però, racconti ciò che sa raccontare e che riesca a raggiungere un buon livello di profondità. Aldilà dei grandi scrittori che ho citato, è quello che cerco di fare io nel cinema. Raccontare un mondo che, come tutti mondi, non è né buono né cattivo, ma pieno di chiaroscuri tanto quanto gli esseri umani. I chiaroscuri della vita. Fare dei film sui borghesi significa dare anche una connotazione antropologica ai personaggi e questo aspetto mi sta molto a cuore, anche perché è un mondo che in qualche modo conosco. Un ambiente dove “il denaro muove il mondo” come diceva Balzac.
Raccontare un personaggio maschile non rappresenta quindi una questione di genere …
Che le donne debbano raccontare solo storie di donne è una cosa che trovo stucchevole, molto riduttiva oltre che fastidiosa. Una donna che affronta un personaggio maschile può farlo con grande acume e sensibilità, basti pensare al meraviglioso film di Jane Campion Il potere del cane.
Come è nata la produzione de Il Colibrì?
È stata una proposta di Domenico Procacci, della Fandango, caldeggiata anche da Sandro Veronesi e questo mi rende particolarmente orgogliosa. Conoscevo il romanzo e per questo ho avuto inizialmente timore. Sapevo che era un film che avrebbe avuto bisogno di un impianto forte, cosa che non sempre necessita. Ma per Il Colibrì c’era bisogno di rispettare questo impianto forte del romanzo e Procacci era perfettamente cosciente di questo. Ho scritto la sceneggiatura con Francesco Piccolo e Laura Paolucci, che è anche co produttrice del film. Nel film c’è anche Nanni Moretti nei panni dello psicanalista Carradori. Moretti aveva, a suo tempo, già interpretato Caos calmo tratto sempre da un romanzo di Veronesi. È stato, quindi, un po’ come farlo in famiglia. Questo ha reso possibile realizzare un film così complesso anche dal punto di vista emotivo.
Nanni Moretti nei panni di uno psicanalista. Come è andata con un attore che è anche regista e quindi collega?
Erano anni che inseguivo Nanni Moretti, dai tempi de Il grande cocomero quando gli avevo chiesto di interpretare lo psichiatra. Ora ha ceduto, quasi per sfinimento. Moretti porta, nel personaggio dello psicanalista Carradori qualcosa di misterioso per lo spettatore, una specie di doppio fondo. Una cosa che conferisce un gran fascino alla sua interpretazione. Del resto sono abbastanza convinta che chi sceglie di studiare i meccanismi del cervello spessissimo lo fa per motivi personali. Per questo uno è attirato da ciò che regola i movimenti dell’inconscio. Il vecchio detto che “gli psicanalisti sono tutti un po’ matti” ha un fondo di verità.
Nanni si affidava completamente …
Nanni Moretti è stato molto presente e molto creativo. Con assoluta gentilezza, mai prevaricatore, con grande rispetto dei ruoli e del lavoro della troupe. Il regista è una specie di infermiera fra gli attori e la troupe. La troupe è importantissima nella riuscita di un film: dal direttore della fotografia, allo scenografo, all’ultimo tecnico. Il cinema è un lavoro corale. Io ci metto molto tempo a scrivere la sceneggiatura. La carta poi deve confrontarsi sul set con l’emulsione fra attore e personaggio che vive la scena. Scena che richiede sempre una rimodulazione sul momento, sulle cose.
Sandro Veronesi ha visto il film?
Sandro l’ha visto ed è molto contento. A questa cosa ci tenevo tantissimo. La struttura narrativa del libro è quella di una storia raccontata a salti temporali e noi abbiamo, in sceneggiatura, rispettato scrupolosamente questo impianto. I vari momenti non hanno un ordine cronologico ma hanno un legame interno, sotterraneo. Questo era la grande forza del romanzo e noi l’abbiamo rispettata.
Qual’è l’aria che si respira nel mondo del cinema difronte a questa situazione di crisi generale delle sale. C’è ancora voglia di mettersi in gioco?
Siamo tutti, in questo complicato momento, a cercar di capire cosa sta succedendo davanti ai nostri occhi. Questa pandemia ha anticipato di almeno dieci anni l’evoluzione di un processo che era già in atto da tempo. Io stessa mi ero resa conto che una visione in casa su schermi sempre più grandi e sempre più belli con un suono sempre più sofisticato, stava lentamente allontanando la gente dalla sala cinematografica. La pandemia questa cosa l’ha accelerata. Oggi si vede più cinema di una volta, ma in maniera diversa. La riprova sono gli acquisti giganteschi di film e fiction delle televisioni e delle piattaforme. La sala, purtroppo, sta perdendo la centralità e questo mi dispiace molto. Ma sento che ci sono nuove opportunità, che non bisogna guardare indietro.
Ma la sala rimane il luogo deputato …
Per chi fa un lavoro come il mio, ovvero raccontare storie per immagini, vedere la sala cinematografica vuota è una perdita enorme. Sono andata, in un infrasettimanale, al cinema per Nostalgia di Martone ed ero sola. Unica spettatrice. Se escludiamo lo spettacolo delle nove del sabato sera per vedere la sala piena dobbiamo rivolgerci ai presidi culturali animati da associazioni come l’”Anteo” o il “Piccolo America” o “Cinemazero” e pochi altri, che fanno un lavoro stupendo. A Roma, in piazza San Cosimato il “Piccolo America” ha proiettato questa estate una mia retrospettiva, alla quale ho partecipato, totalizzando alla fine 90.000 spettatori. Gente che si portava la sedia da casa, molti non sapevano nemmeno chi ero io o che film si sarebbe proiettato, ma c’era tanta voglia di cinema. Ho ritrovato in quel luogo lo spettatore dei miei sogni. Una situazione che ti fa venire le lacrime agli occhi.
In Italia Il Colibrì uscirà ad ottobre sugli schermi. Tu lo accompagnerai?
Pur impegnata fino ai primi di dicembre nelle riprese de La storia, terrò i sabati e domenica liberi per andare a presentare il film, e a Pordenone vado sempre molto volentieri. Perché è un cinema speciale!