Montagne sullo schermo

Di Lorenzo Codelli

Tra le innumerevoli rassegne cinematografiche sparse tra spiagge e vallate della nostra regione, da otto anni si è conquistata una propria vetta Cortomontagna a Tolmezzo. Questo concorso per cortometraggi dedicato alle terre alte è organizzato da ASCA – Associazione delle Sezioni CAI di Carnia, Canal del Ferro, Val Canale, con la collaborazione della Comunità di montagna della Carnia e del BIM e il supporto dei partner che sostengono il progetto. Secondo gli organizzatori guidati dall’amica Adriana Stroili «Cortomontagna vuole essere uno sguardo ampio nel panorama del cinema girato in quota, un concorso per film brevi provenienti da tutto il mondo».

La giuria presieduta da Dante Spinotti, e della quale il sottoscritto fa parte, premia le opere ritenute più originali. Una selezione dei corti viene proiettata al pubblico il 3 dicembre al Cinema Nuovo David di Tolmezzo alla presenza di filmmaker e alpinisti e in seguito circola in altre sedi. Anche quest’anno non mancano le liete sorprese. Ad esempio Pablo di Florent Quint, un episodio della serie francese Everyday Climbers, nel quale un ventiquattrenne belga fa il tour de France in bici per dedicarsi a scalate mozzafiato in solitario. In 51 x 3000 degli spagnoli Javier Cuevas e Adrián Azorín, lo scalatore provetto Jonathan Garcia affronta le pareti dei Pirenei riflettendo sulle proprie ambizioni. Amanecer di Antonia Galmez e Francisca Navarro segue le disavventure di queste due scalatrici cilene prima, durante e dopo un incidente di montagna. In Lost la cineasta Maya Deborah De Bernardi Jagarinec si perde ben volentieri vagabondando per il remoto Ladakh indiano. 

«M’hai provocato e io ti distruggo»

Venti anni dalla scomparsa di Alberto Sordi

Di Andrea Crozzoli

Nel prossimo 2023, ormai alle porte, saranno già venti gli anni trascorsi dalla scomparsa di Alberto Sordi, un attore che ha rappresentato in maniera indelebile l’italiano medio, con le poche virtù e i tanti vizi. Un artista unico e insuperabile “nell’acchiappare rapinosamente i tratti, anche i più nocivi, del temperamento nazionale e restituirli in forma comica”, come scrisse a suo tempo con precisione Filippo Ceccarelli.

Il vero ingresso da protagonista nel cinema, nonostante avesse già alle spalle alcune decine di film, Sordi l’ha avuto nel 1952 con Lo sceicco bianco di Federico Fellini. Il regista romagnolo lo volle a tutti i costi, contro il parere di produttori ed esercenti, e il film fu un clamoroso fiasco. Caparbiamente, però, Fellini lo impose anche nel suo successivo I vitelloni (1953) e fu un successo clamoroso, costellato nel corso degli anni da numerosi altri film memorabili come Un americano a Roma (1954) di Steno, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi. Alcune sue iconiche battute sono entrate nel lessico popolare come: «M’hai provocato e io ti distruggo …» rivolto al piatto di maccheroni in Un americano a Roma. In mezzo secolo di attività ha lavorare in oltre 150 film, diventando l’attore che ha maggiormente rispecchiato le debolezze del nostro paese.

Nel febbraio del 1985 l’ho incontrato a Berlino, in veste di giurato, al FilmFestSpiele; una manifestazione dove, peraltro, era di casa avendo vinto nel 1973 l’Orso d’Argento come miglior attore protagonista in Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy. Nel 1981 poi Il marchese del Grillo di Mario Monicelli si aggiudicò l’Orso d’Argento grazie anche alla magnifica interpretazione di Alberto Soirdi nei panni del caustico marchese.

Il marchese del Grillo

Durante l’intervista che gli feci in occasione del nostro incontro berlinese, a proposito del numero incredibile di film in cui aveva lavorato, lucidamente mi disse: «Il mio stile è quello di prendere pezzi di cronaca e rappresentarli… nell’immediato dopoguerra sono arrivato a dodici film in un anno. Non avendo il fisico del comico, perché allora doveva essere buffo, prendevo i personaggi della strada e li rappresentavo. Lo spunto era il neorealismo, e anziché fare un film drammatico lo facevo in chiave comica. In questo genere, che poi e stato chiamato “commedia all’italiana”, sono stato il primo, e siccome il costume in quegli anni cambiava così rapidamente, dovevo rappresentare subito la realtà che mi circondava. Prima che un nuovo cambiamento facesse invecchiare quella situazione.». Una scelta quindi programmatica e perseguita con enorme perseveranza e successo.

All’inizio della sua carriera Alberto Sordi fece non poca difficoltà ad imporre la sua cifra stilistica in cui interpretava personaggi comici ma cinici, spesso tragicamente amari nel fondo, che rappresentavano con satirica spietatezza l’italiano medio tendenzialmente bugiardo, doppiogiochista, un po’ codardo, prepotente con i deboli e servile con i potenti per mendicare qualche privilegio. Era arrivato addirittura a vestire, nel film di Vittorio De Sica Il giudizio universale (1961), i panni di un viscido mercante di bambini che li acquista in Italia per poi rivenderli in America, fornendo al personaggio una sua inquietante “etica professionale”; qualcosa, come scrisse acutamente Michele Serra, di “meravigliosamente ambiguo perché non si capisce quanto ci fosse di denuncia e quanto di compiacimento nei suoi personaggi”.

Il giudizio universale

Alberto Sordi, sempre con grande ironia e pungente sarcasmo, nel corso della sua carriera ha rappresentato in maniera così efficace la pervasività dell’italiano medio da indurre, pensiamo, anche lo stesso Pier Paolo Pasolini ne La ricotta (1963), per bocca di Orson Welles, a definire quel tipo di personaggio come «… un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista …». Un’indignazione che arriverà fino a Nanni Moretti quando in Ecce Bombo, (1978) icasticamente griderà: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi… Te lo meriti Alberto Sordi».

Sì, ce lo meritiamo questo grande protagonista del cinema italiano, questo implacabile specchio cinematografico delle nostre debolezze che ancora oggi immutabilmente ci accompagnano “grazie a” quei personaggi qualunquisti e opportunisti, che cercano impunemente di ottenere, a spese del prossimo, il massimo del profitto con il minimo sforzo. Ci manca, però, un nuovo Alberto Sordi a rappresentarli.

Ji.hlava International Documentary Festival

Di Alessandro Del Re

Ormai appuntamento obbligato per gli appassionati del cinema documentario e per i professionisti del settore in cerca di nuovi progetti in fase di sviluppo, Ji.hlava International Documentary Festival arriva alla sua 27esima edizione con un programma massiccio ma coeso capace di soddisfare le richieste sia di un pubblico generalista interessato ad approfondire temi del contemporaneo sia di coloro che cercano le ultime novità in campo di sperimentazione del linguaggio audiovisivo documentario.

A farla da padrone, come di consuetudine, le tre retrospettive dedicate alla filmmaker americana Shirley Clarke, a Lionel Rogosin e al cinema documentario filippino con una selezione di titoli capaci di raccontare l’evoluzione del genere dagli albori del cinema ai maestri contemporanei come Khavn e Lav Diaz.

In un’edizione che si è contraddistinta per il ritorno del pubblico, perlopiù giovane, frutto di una politica aperta all’inclusione degli spettatori universitari e liceali, non sono mancate le polemiche con la proiezione fuori concorso del controverso Sparta di Ulrich Seidl, accusato di aver creato un clima violento su un set popolato da bambini, e per questo già oggetto di critiche a San Sebastian e Toronto, dove il film è stato tolto dal palinsesto. Sempre fuori concorso è stato proiettato l’ultima opera di Sergej Losznitsa, Natural History of Destruction, tratto da W.G Sebald, che, come al solito, va oltre la ricostruzione d’archivio e si erge a riflessione universale sulla guerra e la distruzione a essa legata.

Se nel fuori concorso due filmmaker navigati e di riferimento come Losznitsa e Seidl si sono imposti, nei vari concorsi il festival è riuscito a proporre una buona varietà di giovani autori tra cui i vincenti Damir Markovina, regista di Deserters, film autobiografico sulla guerra in Bosnia, la città di Mostar e i suoi abitanti, fuggiti alle violenze etniche, e il vincente 7h15 Merle Noir della giovane Judith Auffray, mirabile riflessione sull’immaginazione e i limiti dello sguardo cinematografico.

Da segnalare inoltre l’ultima fatica di Werner Herzog, The Fire Within: Requiem for Katia and Maurice Kraft, sublime ritratto dei vulcanologi Katia e Maurice Kraft, già protagonisti  recentemente di The Fire of Love di Sara Dosa, e il poetico e sorprendente Gigi La Legge del friulano Alessandro Comodin, gravitati entrambi in Constellations.