Strani
fenomeni di migrazione di massa si sono verificati al 75 Festival di Cannes. Tanti
grandi autori, tanti filmoni in programma, sale superesaurite, ovazioni ovunque
per Questo, Quello e Quell’altro. Tra i film che ho applaudito (in ordine
alfabetico) Les Amandiers di Valeria Bruni
Tedeschi, Esterno notte di Marco Bellocchio, Holy
Spider di Ali Abbasi (Premio per la migliore attrice a Zahra Amir
Ebrahimi), Marcel! di Jasmine Trinca, Nostalgia di
Mario Martone, Three Thousand Years of Longing di
George Miller, Triangle of Sadness di Ruben Östlund
(Palma d’oro)…
Lasciando stare quelli che ho fischiato, non ricordo d’aver mai
assistito in vita festivaliera mia a tanti replay quotidiani, nelle diverse
sale, de La grande fuga, il classico di John Sturges in cui
Steve McQueen scappava via dal lager nazista in motocicletta. Fughe assai
preoccupanti, ahinoi, proprio nel momento in cui media, politici e influencer
tentano a tutti i costi di ributtare il pubblico dentro i cinematografi,
persino usando l’ipnosi, oltre che i free spritz ad libitum.
Il profeta David Cronenberg ci aveva avvertiti prima di
Cannes: “Il mio Crimes of the Future vi orripilerà al
punto da farvi fuggire”. Verissimo! La noia suscitata dalle sue conferenze
cervellotiche sulla pseudo-chirurgia dei decenni a venire ci ha indotto a
scappar via, in Perù o a Zara non ricordo. Ruben Östlund, divertentissimo e
brillante fino al momento del suo last party sul Titanic, ha indotto tanti
pinguini in frac e demoiselles chic in Armani a correre a vomitare nelle
toilettes. Non sto a dirvi quanti altri film, belli, brutti e pallosissimi,
hanno incoraggiato giornalisti e pubblico a rifugiarsi di corsa, se non proprio
a Kiev preferibilmente lungo l’assolata Croisette Beach.
Nell’attesa snervante del Lido di Venezia, ove gli
organizzatori lungimiranti della 79a Mostra ci garantiscono fin d’ora per fine
agosto filmoni e autoroni tutti a prova di La noia, il virus
letale esorcizzato da Alberto Moravia temporibus illis.
Tarda primavera del 2004. Secondo
anno delle medie. È ancora l’era di MTV: tenersi aggiornati sulle ultime uscite
discografiche significa sedersi in poltrona, di fronte a un televisore, e
ascoltare e guardare assieme, strascicati dal susseguirsi di immagine acustiche
di un videoclip. Un brano inglese tiene banco. A un adolescente, ben più che
armonia e melodia, rimangono impresse le movenze sincopate di chi lo canta. Si
chiama Dan Black, è il front man. Il singolo, Liquefy. La band, The
Servant.
Ho scoperto così Il servo di
Joseph Losey, a tredici anni. Black aveva scelto quel nome con l’intenzione
dichiarata di omaggiare il suo film preferito. I The Servant, purtroppo, si
dileguarono di lì a breve: meteore. Il dimenticatoio è un posto affollato; ivi
convivono l’alto e il basso. Losey, da questo punto di vista, è un loro
compaesano. Il dimenticatoio di qualcuno, tuttavia, è molto spesso
l’immaginario di qualcun altro – e per fortuna: appassionati, critici e
studiosi il regista del Ragazzo dai capelli verdi non l’hanno scordato,
anzi. Mentre scrivo, ho sotto gli occhi Senza re, senza patria: il cinema di
Joseph Losey, un saggio curato da Luciano De Giusti ed edito da Cinemazero,
esito cartaceo di una memorabile edizione dello Sguardo dei maestri. Mentre
scrivo, ripenso a quanto è stato bello rivederlo, Il servo, su grande
schermo, restaurato, lo scorso 16 maggio in sala Totò, nel contesto di
un’iniziativa che proprio dallo Sguardo dei maestri riprende il nome e –
in piccolo, umilmente – l’eredità.
Joseph Losey nasce nel 1909 a La
Crosse, Wisconsin. All’High School locale, condivide la classe con Nicholas
Ray. All’università, dapprima tenta la strada della medicina; il vento della
sua passione più grande – il teatro – lo condurrà tuttavia, di lì a breve,
verso altri lidi. Negli anni Trenta, talento precoce, è già una figura di
spicco del teatro politico newyorkese. Assecondando una fede politica mai
sopita e giammai rinnegata, nel 1935 intraprende un viaggio di studio in Unione
Sovietica. A Mosca, frequenta i seminari di regia di Sergej Ejzenštejn, conosce
Bertolt Brecht. Il drammaturgo e poeta tedesco sarà una figura chiave per la
sua formazione artistica. Tra il 1946 e il 1947 i due si ricongiungono a Los
Angeles; lavorano a un grande allestimento di Vita di Galileo. Nei panni
del fisico pisano, il grandissimo Charles Laughton. Il 30 luglio 1947 è il
giorno della prima, al Coronet di Beverly Hills. Esattamente tre mesi più
tardi, Brecht sarà convocato a Washington dalla Commissione per le attività
antiamericane. Lascerà gli Stati Uniti il giorno successivo.
Nella primavera del 1951, la caccia
alle streghe tocca anche Losey. Iscritto al Partito comunista degli Stati Uniti
dal 1946, è da tempo un osservato speciale. Nel 1948 è approdato al cinema.
L’esordio prende le forme di un piccolo film in Technicolor, un poetico apologo
pacifista, alquanto didascalico (Il ragazzo dai capelli verdi); nel 1951
la sua firma compare su tre pellicole: un intelligente remake di M – Il
mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (M) e due capolavori del noir
americano, Sciacalli nell’ombra e La grande notte. Proprio
durante le ultime fasi di montaggio di quest’ultimo, deciderà di abbandonare
gli Stati Uniti: l’aria, dopo la pronuncia del suo nome da parte di un teste in
Commissione, si è fatta irrespirabile.
Tra il 1951 e il 1952 è in Italia,
gira Imbarco a mezzanotte per la United Artists. I titoli di testa ci
informano che la regia è di Andrea Forzano, ma è una copertura. Nel gennaio del
1953 si stabilisce a Londra. In Regno Unito, la sua carriera conoscerà una
rinnovata fortuna. Un altro uomo di teatro, dopo Brecht, segnerà questa fase:
Harold Pinter, un discepolo di Beckett, maestro della commedia psicologica e
dello slow burn, con un gusto particolare per il grottesco. L’incontro
fra due personalità apparentemente distantissime – Losey un prodotto dell’Ivy
League, Pinter il figlio talentuoso di un modesto sarto dell’East End
londinese; Losey un cinquantenne, Pinter un trentenne; Losey un regista barocco
e melodrammatico, Pinter un drammaturgo trattenuto e allusivo – genererà tre
film straordinari: Il servo (1963), L’incidente (1967) e Messaggero
d’amore (1971).
Tony Mounset (James Fox), un annoiato
rampollo della vecchia aristocrazia inglese, assume un maggiordomo-tuttofare
(Dirk Bogarde) per gestire una nuova proprietà nel quartiere di Chelsea. Il
sottoposto, con modi via via più serpentini, sovverte lentamente la gerarchia,
trasformando la casa nel campo di battaglia di un’atavica lotta di potere. Questo
il canovaccio attorno al quale ruota Il servo. È facile, a prima vista,
riconoscervi il côté marxiano di Losey, sostanziato in un’allegoria del
conflitto di classe. La visione del regista americano, tuttavia, è del tutto
priva di quell’afflato escatologico – in fin dei conti, cristiano – che Karl Löwith
correttamente rilevava nella filosofia della “salvezza comunista” di Marx: la
lotta di classe per Losey non è il viatico nella strada della pace sociale, ma
un’impasse eterna e sanguinosa, dalla quale nessuno esce vivo.
La dialettica servo-padrone è
traslitterata nelle forme del barocco. Gli specchi segnalano identità e ruoli
scissi, le scale sovvertimenti gerarchici, le ombre il gioco delle maschere.
L’erotismo riconduce alla politica delle pulsioni, all’etica del dominio
territoriale: il sesso come surrogato della masturbazione e non viceversa
(Groddeck), come disciplina tattica in zona di guerra, per l’affermazione
personale sul nemico. All’epoca, la descrizione inacidita di un’alta borghesia
perversa e decadente parve un riflesso dell’attualità: il 1963, per gli
inglesi, è l’anno dell’affare Profumo. Più profondamente, il tema dello
straniero che si introduce in terra d’altri e sconvolge – anche sessualmente – gli
encori è una filiazione tragica: alla sua fonte stanno le Baccanti di
Euripide – torneranno utili anche a Pasolini per Teorema e il suo
Terence Stamp-Dioniso. Di qui l’universalità che ci sentiamo di attribuire al Servo.
Tutto considerato, è forse la
dimensione del gioco quella più adatta ad accorpare le istanze tematiche
del film. Un gioco bambinesco, dunque spietato. Nella casa vuota, le
suppellettili diventano le pedine della partita a scacchi tra i due
contendenti. Non vi sono vincitori né vinti, al termine del massacro. Dacché
quell’universo chiuso – da cui la cinepresa di Losey fuoriesce soltanto tre,
significative volte – è tanto microcosmo quanto prigione. Dentro, ci siamo
anche noi spettatori, intrusi per eccellenza nelle storie altrui, impotenti –
quindi sconfitti – nel gioco del cinema da-per sempre. All’uscita – paradossale
uscire da un film che è una teoria sull’impossibilità di farlo –,
qualcuno si sarà chiesto qual è il senso del tour de force di Hugo
Barrett. Qual è la finalità. Baudrillard risponderebbe che, se il gioco avesse
una qualsiasi finalità, il solo vero giocatore sarebbe il baro.
Nel 2021 grazie alla pandemia, in Italia abbiamo
avuto complessivamente poco meno di 25
milioni di presenze al cinema (con un calo del 12% rispetto al 2020 e del 74,6% rispetto
al 2019). Sempre
nel
2021 la Francia ha totalizzato, invece, 96 milioni
di presenze al cinema, con un più 47% rispetto al
2020. Lo slancio della ripresa delle presenze in sala nei cinema d’oltralpe si è accentuato a fine 2021 con il mese di
dicembre che ha registrato quasi 21 milioni
di presenze.
In un mese, quindi, i francesi hanno avuto quasi le stesse presenze di un anno di cinema in Italia. Tutto ciò evidenzia l’ottimo stato di salute delle sale francesi e quindi del potere che l’esercizio cinematografico riesce ad esercitare in Francia.
Non
per nulla Cannes è praticamente l’unico dei grandi festival cinematografici a
rifiutare ogni contaminazione con le piattaforme. Anche il buon Tom Cruise,
tornato sulla Croisette
a distanza di quasi quattro decadi con
il nuovo Top Gun: Maverick, ha pubblicamente ribadito
il suo amore per la sala cinematografica e la sua avversione per le piattaforme dichiarando testualmente: «Non succederà
mai che i miei film non vadano
in sala.».
Forti quindi dei quasi cento milioni di presenze annue, i gestori delle sale francesi riuniti nell’AFCAE (Associazione Francese Cinema Art Essai) hanno chiesto, da qualche anno, al direttore del Festival di Cannes Thierry Frémaux, uno spazio per approntare una qualificata giuria e premiare un film d’Art e d’Essai da promuovere poi nelle sale francesi. Dopo cinque edizioni del premio, per il 2022 hanno voluto dar maggiore peso e prestigio al premio rendendo la giuria internazionale. Infatti quest’anno sono stati chiamati a ricoprire il ruolo di giurati, oltre ai francesi Caroline Grimault dello storico cinema Katorza di Nantes ed Emmanuel Papillon del Louxor di Parigi, anche Daira Abolina dello Splendid Palace di Riga in Lettonia, Mohammad Lansari, direttore della Cinémathèque di Tangeri in Marocco ed il sottoscritto. Lavoro impegnativo e di grande responsabilità quello della giuria in un Festival importante come Cannes, che nel 2022 è ritornato alle sue date abituali (maggio) ed agli antichi fasti in presenza dopo due anni pandemici di sospensione.
Da mercoledì 18 a venerdì 27 maggio si sono susseguiti in maniera incalzante ben 21 film della selezione ufficiale in concorso spalmati nei dieci giorni, molti con una durata di oltre due ore. Negli interstizi non sono mancate tre riunioni di giuria, sparse lungo il percorso, per discutere su quanto si vedeva scorrere sullo schermo. Gli inviti alle proiezioni erano gestiti direttamente dall’AFCAE che consegnava i biglietti quotidianamente per il giorno seguente, con proiezioni previste alle 8.30 del mattino, ma anche nel pomeriggio o alla sera, quando bisognava ‘obbligatoriamente’ indossare la “tenue de soirée” compreso il rituale “papillon”. Un ritmo serratissimo ha caratterizzato quindi questa 75ma edizione del Festival di Cannes.
Già alla prima riunione, concordemente, si è stabilito di concentrare la nostra attenzione, non tanto, ovviamente, sui gusti personali, ma su quei film, sempre d’art e d’essai, che potessero richiamare il pubblico in sala. La ricca e variegata selezione, operata da Frémaux, tutte anteprime mondiali, comprendeva tra gli altri: gli habitué di Cannes come i fratelli Dardenne con Tori et Lokita tenera e tragica storia di due giovani di colore in cerca di integrazione nell’odierno Belgio; l’altro habitué di Cannes Arnaud Desplechin con Frere et soeur, ovvero un’insieme di tormentati vizi privati della borghesia francese con una Marion Cotillard fin troppo struggente; altra scoperta di Cannes il regista Tarik Saleh, svedese di nascita ma di origine egiziana, che in Boy from Heaven racconta, in maniera serrata, una storia di corruzione e delitti in una scuola coranica egiziana. Come non pensare al caso Regeni difronte agli intrighi e politica che percorrono il chiuso mondo islamico; il giallo Holy Spider/Les nuits de Mashhad dell’iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi che racconta la tribolata indagine di una giornalista (la bravissima Zar Amir- Ebrahimi) per incastrare un serial killer che voleva ripulire la città santa di Mashhad dalle prostitute. Ne ucciderà 16 prima di venir assicurato alla giustizia. Un thriller tratto da un fatto realmente accaduto che il regista usa per raccontare soprattutto la precaria e vituperata situazione della donna in Iran.
Alla seconda riunione di giuria,
con due terzi dei film (14 su 21) già visti, l’attenzione unanimemente si è concentrata su quattro
titoli che in vario modo corrispondevano alle
caratteristiche che ci eravamo prefissati: EO dell’ottantaquattrenne cineasta polacco
Jerzy Skolimowski, titolo
onomatopeico per indicare il verso dell’asino protagonista del film. Un asino di razza grigia sarda, che viene
trasportato dalla Polonia all’Italia, compiendo un singolare viaggio fra varia umanità. Un film visionario, con
l’occhio dell’animale su cui il regista
fa riflettere paura e curiosità, mai odio o risentimento, riservati
quest’ultimi agli umani. Una toccante
metafora autoriale su come l’umanità sia destinata al suicidio. Altro film che si era imposto all’attenzione, R.M.N. del rumeno Cristian Mungiu,
titolo ermetico che sta, sia come
consonanti di Romania, che per Risonanza Magnetica Nucleare. Mungiu con la sua perfetta e conosciuta regia
autoriale evidenzia come i problemi del suo paese sia analoghi a quelli di un qualsiasi altro paese europeo:
ovvero la resistenza mista a diffidenza
verso l’altro, verso chi viene da fuori, con gli inevitabili conflitti che si
innescano quando l’identità viene
messa in discussione. Magistrali i 17 minuti di camera fissa sull’assemblea popolare che si svolge nel paesello rumeno per decidere
che cosa fare.
Altro titolo preso in considerazione Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi, con gli allievi dell’omonima scuola di teatro diretta da Patrice Chéreau negli anni ottanta. La regista, italiana ma di adozione francese, racconta con forza e verità i suoi inizi, le sue aspirazioni, i suoi timori e firma uno dei suoi film più belli e sinceri. Chéreau in Francia è una figura iconica sia nel teatro che nel cinema.
Quarto
titolo che aveva colpito l’intera giuria in maniera favorevole: Triangle of
Sadness di Ruben Östlund,
regista dissacrante e ironico (già premiato con una Palma d’Oro nel 2017 per The Square) che firma una sarcastica metafora sull’avidità. Ma cos’è il “triangle of
sadness” (triangolo della tristezza) del
titolo? È quella piccola porzione della nostra
fronte, poco sopra le sopracciglia. Muscolo
che i modelli e le modelle irrigidiscono per
sembrare sexy quando si mettono in posa. Al centro di questo ‘triangolo
della tristezza’ Östlund inserisce
tutte le derive paradossali della società
capitalista: le sue regole rigide, la sua impostazione gerarchica e classista, i suoi pregiudizi,
le sue assurdità. Quasi una ricerca
sulla bruttezza dietro la presunta bellezza. Ne risulta un’opera divertente e graffiante
apologo dai tempi comici impeccabili, una satira
sociale sui diversi personaggi: dai vacui influencer, agli arricchiti oligarchi e trafficanti di armi. Una crociera di super lusso
molto cafonal e quando tutto comincia ad andare storto, il film esplode
in una grandinata di travolgente
satira umoristica sul potere dei soldi, sull’ostentato agio della loro bolla dorata che che il regista svedese fa
continuamente scoppiare. Ma la discussione si arresta in quanto mancano ancora all’appello dei possibili outsider fra
i quali Hirokazu Kore-Eda in gara con Broker/Les bonnes etoiles, Claire Denis con Stars at Noon e Lukas Dhont con Close. In totale altre sette pellicole
compresi l’iraniano Saeed Roustaee con Leila’s Brothers, il portoghese Albert Serra
con Pacification e l’ivoriano Léonor
Serraille con Un petit frere.
Al termine della maratona, ultima riunione di giuria la sera di venerdì 27, unanime la delusione per Kore-Eda nella sua trasferta coreana dove firma un’operina esile e dal sapore vagamente tradizionalista e reazionario in cui l’unico vero riferimento indicato nel film è la famiglia tradizionale con padre e madre. In Broker/Les bonnes etoiles, a tratti imbarazzante, spicca soplo l’attore di Parasite il gioviale Song Kang-ho. Anche Lukas Dhont, dopo la bella prova di Girl, non è all’altezza delle aspettatiove con Close dove narra, con risvolti autobiografici, i sofferti travagli ormonali di due tredicenni e la loro amicizia molto “close”. Ma Cannes segue e alleva il suo vivaio di giovani talenti e nel cuore del Festival il regista belga Lukas Dhont sembra prendere il posto lasciato dal franco- canadese Xavier Dolan ormai avviato ad una sua carriera.
Infine,
dopo un’ampia e articolata discussione, la giuria AFCAE all’unanimità decide di assegnare una Menzione Speciale Cinemas Art
& Essai a EO di Jerzy Skolimowski, un film la cui audacia
estetica e visione
globale ha stregato
l’intera giuria. Un’opera
moderna, ambiziosa e
creativa che aiuta a esplorare la complessità dell’umanità di fronte a un pianeta
in difficoltà. Un’esperienza cinematografica, originale, radicale
e innovativa.
Mentre il premio Cinemas Art
& Essai 2022 viene unanimemente assegnato
a Triangle of Sadness
di Ruben Östlund, un film che unisce talento
estetico ed emozione
politica. Un film
in grado di riconciliare il pubblico (anche
quello più raffinato) con il cinema in sala.
Un’opera shock, una satira
politica corrosiva che fa luce sui problemi di un mondo impazzito. Un ritratto
graffiante di una società autodistruttiva e avida che ha fatto ridere ma anche
riflettere in maniera mai banale.
Il giorno
seguente, sabato 29 maggio, Vincent
Lindon, presidente della giuria ufficiale
del 75mo Festival di Cannes,
ha assegnato la Palma d’Oro a … Triangle
of Sadness di Ruben Östlund e il premio
della giuria a EO di Jerzy
Skolimowski.
PASOLINI100! – Dagli archivi della Mediateca di Pordenone verso il mondo intero
Nel centenario dalla nascita, la figura di Pier Paolo Pasolini è al centro di iniziative che superano i confini nazionali. Grazie alla collaborazione tra Cinemazero e Cineteca di Bologna, è stata inaugurata il 14 maggio a Timişoara, al Museo Nazionale del Banato, la mostra fotografica “Uno sguardo nel futuro“, con l’obiettivo di far conoscere al pubblico romeno la figura di Pasolini e le sue principali esperienze personali, culturali e professionali.
L’esposizione, che sarà aperta fino al 31 luglio, è organizzata
dalla Società Dante Alighieri e dall’Associazione Culturale Fucina Italica
Francesco Griselini di Timişoara, su iniziativa del pordenonese Marco Posocco,
che opera da diversi anni nella città romena. Si tratta di un evento
completamente inedito per Timișoara e per l’intera Romania, di preparazione e
lancio nel più ampio contesto di Timișoara Capitale della Cultura Europea 2023.
Timişoara è stata la prima città romena nella
quale si sono riversati gli investimenti e le vite di migliaia di italiani dopo
la Rivoluzione del 1989, ma i contatti tra la comunità italiana e quella romena
del Banato risalgono a molto tempo prima e affondano le radici nella comune
origine latina. Oggi vi sono due importantissimi presidi linguistici della
lingua italiana: la cattedra di Italianistica, nell’ambito della Facoltà di
Lettere, Storia e Teologia presso l’Universitatea de Vest, e il Liceo Jean
Louis Calderon.
La città racchiude in sé molti tratti diversi: città romena,
dove i banateani si mescolano agli olteni, moldavi e transilvani; ma anche
città serba, ungherese, italiana, tedesca, macedone, ebrea, armena, bulgara;
città austro-ungarica, ma che porta anche i segni e i lasciti dell’Impero
ottomano; città industriale, ma anche polo di riferimento agricolo e, infine,
città di servizi avanzati. A partire da questa identità plurale è nata l’idea
di una mostra che metta al centro l’ecletticità di Pier Paolo Pasolini, accostando
la sua figura alla città romena.
La mostra di Timisoara si inserisce in un ricco percorso di
collaborazioni internazionali per il centenario dalla nascita di Pier Paolo
Pasolini a cui partecipiamo grazie al fornito archivio della Mediateca di
Cinemazero.
Un percorso partito a marzo a Lubiana con la mostra
fotografica “Pasolini 100!”,
sempre in collaborazione con la Cineteca di Bologna, dedicata alla vita e al
cinema di Pasolini all’interno dei locali della Slovenska Kineteca. Un viaggio
tra fotografie rare e d’archivio che accompagna il pubblico sloveno, insieme ad
una retrospettiva cinematografica, tutta in magnifiche copie in 35 mm, attraverso
tutta la carriera del regista, scrittore e poeta di adozione friulana.
Da Lubiana, ci spostiamo ad Amburgo con la Galerie
der abseitigen Künste e il doppio volume dedicato a Pasolini e Gideon
Bachmann e voliamo fino a Melbourne, dall’altra parte del mondo.
Nella capitale della cultura e patria del cinema australiano
l’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne propone una retrospettiva
integrale sulla poesia della “realtà” del cinema pasoliniano con un
percorso attraverso varie sezioni dove i suoi film sono confrontati a quelli di
altri autori che lo hanno ispirato o che si sono ispirati alle sue opere.
La Mediateca di Cinemazero si conferma uno spazio di cultura,
condivisione e diffusione del patrimonio audiovisivo, aperto, non solo alla
realtà pordenonese ma verso il mondo intero.
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