PASOLINI100! – Dagli archivi della Mediateca di Pordenone verso il mondo intero
Nel centenario dalla nascita, la figura di Pier Paolo Pasolini è al centro di iniziative che superano i confini nazionali. Grazie alla collaborazione tra Cinemazero e Cineteca di Bologna, è stata inaugurata il 14 maggio a Timişoara, al Museo Nazionale del Banato, la mostra fotografica “Uno sguardo nel futuro“, con l’obiettivo di far conoscere al pubblico romeno la figura di Pasolini e le sue principali esperienze personali, culturali e professionali.
L’esposizione, che sarà aperta fino al 31 luglio, è organizzata
dalla Società Dante Alighieri e dall’Associazione Culturale Fucina Italica
Francesco Griselini di Timişoara, su iniziativa del pordenonese Marco Posocco,
che opera da diversi anni nella città romena. Si tratta di un evento
completamente inedito per Timișoara e per l’intera Romania, di preparazione e
lancio nel più ampio contesto di Timișoara Capitale della Cultura Europea 2023.
Timişoara è stata la prima città romena nella
quale si sono riversati gli investimenti e le vite di migliaia di italiani dopo
la Rivoluzione del 1989, ma i contatti tra la comunità italiana e quella romena
del Banato risalgono a molto tempo prima e affondano le radici nella comune
origine latina. Oggi vi sono due importantissimi presidi linguistici della
lingua italiana: la cattedra di Italianistica, nell’ambito della Facoltà di
Lettere, Storia e Teologia presso l’Universitatea de Vest, e il Liceo Jean
Louis Calderon.
La città racchiude in sé molti tratti diversi: città romena,
dove i banateani si mescolano agli olteni, moldavi e transilvani; ma anche
città serba, ungherese, italiana, tedesca, macedone, ebrea, armena, bulgara;
città austro-ungarica, ma che porta anche i segni e i lasciti dell’Impero
ottomano; città industriale, ma anche polo di riferimento agricolo e, infine,
città di servizi avanzati. A partire da questa identità plurale è nata l’idea
di una mostra che metta al centro l’ecletticità di Pier Paolo Pasolini, accostando
la sua figura alla città romena.
La mostra di Timisoara si inserisce in un ricco percorso di
collaborazioni internazionali per il centenario dalla nascita di Pier Paolo
Pasolini a cui partecipiamo grazie al fornito archivio della Mediateca di
Cinemazero.
Un percorso partito a marzo a Lubiana con la mostra
fotografica “Pasolini 100!”,
sempre in collaborazione con la Cineteca di Bologna, dedicata alla vita e al
cinema di Pasolini all’interno dei locali della Slovenska Kineteca. Un viaggio
tra fotografie rare e d’archivio che accompagna il pubblico sloveno, insieme ad
una retrospettiva cinematografica, tutta in magnifiche copie in 35 mm, attraverso
tutta la carriera del regista, scrittore e poeta di adozione friulana.
Da Lubiana, ci spostiamo ad Amburgo con la Galerie
der abseitigen Künste e il doppio volume dedicato a Pasolini e Gideon
Bachmann e voliamo fino a Melbourne, dall’altra parte del mondo.
Nella capitale della cultura e patria del cinema australiano
l’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne propone una retrospettiva
integrale sulla poesia della “realtà” del cinema pasoliniano con un
percorso attraverso varie sezioni dove i suoi film sono confrontati a quelli di
altri autori che lo hanno ispirato o che si sono ispirati alle sue opere.
La Mediateca di Cinemazero si conferma uno spazio di cultura,
condivisione e diffusione del patrimonio audiovisivo, aperto, non solo alla
realtà pordenonese ma verso il mondo intero.
Italiani “brava gente”? 30 film per conoscere, studiare e capire l’Italia coloniale, postcoloniale e decoloniale
di Riccardo Costantini
Un
festival dovrebbe avere ricadute di lungo periodo. Al contrario, oggigiorno
molte delle kermesse e iniziative culturali, quasi come se fosse il loro
statuto, quasi come se dovessero esservi obbligate in nome di logiche
“consumistiche”, organizzano incontri, coinvolgono ospiti, propongono
approfondimenti che vivono nel tempo effimero della manifestazione, lasciando
poco di concreto nel tempo al pubblico e al territorio in cui operano. Un epoca
afflitta dalla festivalite, dove se le cose non hanno il carattere di
eccezionale e di episodico, non hanno valore.
Al
contrario, da sempre Pordenone Docs Fest – Le voci del documentario “utilizza”
il cinema del reale come strumento potente di riflessione sull’attualità, sulla
società, sulle contraddizioni e sugli aggiornamenti possibili del modo di
intendere il presente. I film che porta in Italia in anteprima, spesso, vengono
distribuiti – con contenuti aggiuntivi prodotti ad hoc – in Italia, per far sì
che sia un lavoro che dura, diffuso e a beneficio di molti. Allo stesso modo il
festival produce libri, video, DVD… Senza ambizioni eccessive, ma con l’idea di
fornire elementi utili, spunti, talvolta provocazioni, che nel lungo periodo
possano continuare a fermentare, suggerire percorsi alternativi e diventare
approfondimenti.
In questa occasione si vuole riflettere sul nostro passato coloniale. Il nostro Paese non è fra quelli che lo hanno molto rinegoziato – soprattutto in termini di studi e occasioni culturali di ripensamento – e probabilmente anche per questo la nostra società non è sempre in grado di essere al passo con altri paesi europei per capacità di vivere il presente, necessariamente multiculturale: consegniamo a operatori culturali, docenti, interessati un inventario filmico del cinema italiano coloniale (gli anni ‘30 e ‘40 e il fascismo), postcoloniale (dagli anni ‘50 agli anni ‘70) e decoloniale (dagli anni ‘80 ad oggi), perché possano utilizzarlo liberamente nei cammini di “visione” che vorranno organizzare o vivere. Restituire la “vista” a qualcosa che non abbiamo voluto – e continuiamo a non volere – guardare.
Il
percorso, che trovate consultabile a questo
link, è curato da Federico Rossin
(vedi più sotto per il suo profilo biografico) con l’usuale qualità e originalità,
e ha avuto come momento visibile una retrospettiva di alcuni titoli per
l’edizione del festival 2022, con alcuni eventi di punta: su tutti l’intenso
incontro di approfondimento con Leonardo De Franceschi su un film fondamentale
come “Il nero” (Giovanni Vento, 1967) e la proiezione di Silvia Zulu (Attilio
Gatti, 1928), con la colonna sonora composta e suonata da Bruno Cesselli
appositamente per il festival a Cinemazero. Per le ragioni più sopra espresse,
si vuole che il percorso si possa appunto offrire nel tempo come utile
strumento di ricerca, di scelta “di visioni e sguardi” (giusti, scomodi, rari…)
da offrire anche in contesti educativi, magari usufruendo delle risorse (DVD e
libri) della Mediateca di Cinemazero. Anche per questo abbiamo deciso di
offrire questo strumento in rete e non solo nella sua versione cartacea.
Documentario, come servizio per una crescita sociale: uno dei nostri obiettivi.
Federico Rossin è storico e critico del cinema. Ha scritto saggi pubblicati in numerosi volumi collettivi ed è autore di tre libri monografici. Curatore indipendente, ha progettato numerose retrospettive per cineteche, festival e fondazioni in Europa (Filmmuseum a Vienna, Cinémathèque Française a Parigi, Cinéma du réel a Parigi, DocLisboa di Lisbona, ecc; Fondazione Feltrinelli 21 a Milano). Vive, lavora e insegna in Francia.
Nel 2021 grazie alla pandemia, in Italia abbiamo
avuto complessivamente poco meno di 25
milioni di presenze al cinema (con un calo del 12% rispetto al 2020 e del 74,6% rispetto
al 2019). Sempre
nel
2021 la Francia ha totalizzato, invece, 96 milioni
di presenze al cinema, con un più 47% rispetto al
2020. Lo slancio della ripresa delle presenze in sala nei cinema d’oltralpe si è accentuato a fine 2021 con il mese di
dicembre che ha registrato quasi 21 milioni
di presenze.
In un mese, quindi, i francesi hanno avuto quasi le stesse presenze di un anno di cinema in Italia. Tutto ciò evidenzia l’ottimo stato di salute delle sale francesi e quindi del potere che l’esercizio cinematografico riesce ad esercitare in Francia.
Non
per nulla Cannes è praticamente l’unico dei grandi festival cinematografici a
rifiutare ogni contaminazione con le piattaforme. Anche il buon Tom Cruise,
tornato sulla Croisette
a distanza di quasi quattro decadi con
il nuovo Top Gun: Maverick, ha pubblicamente ribadito
il suo amore per la sala cinematografica e la sua avversione per le piattaforme dichiarando testualmente: «Non succederà
mai che i miei film non vadano
in sala.».
Forti quindi dei quasi cento milioni di presenze annue, i gestori delle sale francesi riuniti nell’AFCAE (Associazione Francese Cinema Art Essai) hanno chiesto, da qualche anno, al direttore del Festival di Cannes Thierry Frémaux, uno spazio per approntare una qualificata giuria e premiare un film d’Art e d’Essai da promuovere poi nelle sale francesi. Dopo cinque edizioni del premio, per il 2022 hanno voluto dar maggiore peso e prestigio al premio rendendo la giuria internazionale. Infatti quest’anno sono stati chiamati a ricoprire il ruolo di giurati, oltre ai francesi Caroline Grimault dello storico cinema Katorza di Nantes ed Emmanuel Papillon del Louxor di Parigi, anche Daira Abolina dello Splendid Palace di Riga in Lettonia, Mohammad Lansari, direttore della Cinémathèque di Tangeri in Marocco ed il sottoscritto. Lavoro impegnativo e di grande responsabilità quello della giuria in un Festival importante come Cannes, che nel 2022 è ritornato alle sue date abituali (maggio) ed agli antichi fasti in presenza dopo due anni pandemici di sospensione.
Da mercoledì 18 a venerdì 27 maggio si sono susseguiti in maniera incalzante ben 21 film della selezione ufficiale in concorso spalmati nei dieci giorni, molti con una durata di oltre due ore. Negli interstizi non sono mancate tre riunioni di giuria, sparse lungo il percorso, per discutere su quanto si vedeva scorrere sullo schermo. Gli inviti alle proiezioni erano gestiti direttamente dall’AFCAE che consegnava i biglietti quotidianamente per il giorno seguente, con proiezioni previste alle 8.30 del mattino, ma anche nel pomeriggio o alla sera, quando bisognava ‘obbligatoriamente’ indossare la “tenue de soirée” compreso il rituale “papillon”. Un ritmo serratissimo ha caratterizzato quindi questa 75ma edizione del Festival di Cannes.
Già alla prima riunione, concordemente, si è stabilito di concentrare la nostra attenzione, non tanto, ovviamente, sui gusti personali, ma su quei film, sempre d’art e d’essai, che potessero richiamare il pubblico in sala. La ricca e variegata selezione, operata da Frémaux, tutte anteprime mondiali, comprendeva tra gli altri: gli habitué di Cannes come i fratelli Dardenne con Tori et Lokita tenera e tragica storia di due giovani di colore in cerca di integrazione nell’odierno Belgio; l’altro habitué di Cannes Arnaud Desplechin con Frere et soeur, ovvero un’insieme di tormentati vizi privati della borghesia francese con una Marion Cotillard fin troppo struggente; altra scoperta di Cannes il regista Tarik Saleh, svedese di nascita ma di origine egiziana, che in Boy from Heaven racconta, in maniera serrata, una storia di corruzione e delitti in una scuola coranica egiziana. Come non pensare al caso Regeni difronte agli intrighi e politica che percorrono il chiuso mondo islamico; il giallo Holy Spider/Les nuits de Mashhad dell’iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi che racconta la tribolata indagine di una giornalista (la bravissima Zar Amir- Ebrahimi) per incastrare un serial killer che voleva ripulire la città santa di Mashhad dalle prostitute. Ne ucciderà 16 prima di venir assicurato alla giustizia. Un thriller tratto da un fatto realmente accaduto che il regista usa per raccontare soprattutto la precaria e vituperata situazione della donna in Iran.
Alla seconda riunione di giuria,
con due terzi dei film (14 su 21) già visti, l’attenzione unanimemente si è concentrata su quattro
titoli che in vario modo corrispondevano alle
caratteristiche che ci eravamo prefissati: EO dell’ottantaquattrenne cineasta polacco
Jerzy Skolimowski, titolo
onomatopeico per indicare il verso dell’asino protagonista del film. Un asino di razza grigia sarda, che viene
trasportato dalla Polonia all’Italia, compiendo un singolare viaggio fra varia umanità. Un film visionario, con
l’occhio dell’animale su cui il regista
fa riflettere paura e curiosità, mai odio o risentimento, riservati
quest’ultimi agli umani. Una toccante
metafora autoriale su come l’umanità sia destinata al suicidio. Altro film che si era imposto all’attenzione, R.M.N. del rumeno Cristian Mungiu,
titolo ermetico che sta, sia come
consonanti di Romania, che per Risonanza Magnetica Nucleare. Mungiu con la sua perfetta e conosciuta regia
autoriale evidenzia come i problemi del suo paese sia analoghi a quelli di un qualsiasi altro paese europeo:
ovvero la resistenza mista a diffidenza
verso l’altro, verso chi viene da fuori, con gli inevitabili conflitti che si
innescano quando l’identità viene
messa in discussione. Magistrali i 17 minuti di camera fissa sull’assemblea popolare che si svolge nel paesello rumeno per decidere
che cosa fare.
Altro titolo preso in considerazione Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi, con gli allievi dell’omonima scuola di teatro diretta da Patrice Chéreau negli anni ottanta. La regista, italiana ma di adozione francese, racconta con forza e verità i suoi inizi, le sue aspirazioni, i suoi timori e firma uno dei suoi film più belli e sinceri. Chéreau in Francia è una figura iconica sia nel teatro che nel cinema.
Quarto
titolo che aveva colpito l’intera giuria in maniera favorevole: Triangle of
Sadness di Ruben Östlund,
regista dissacrante e ironico (già premiato con una Palma d’Oro nel 2017 per The Square) che firma una sarcastica metafora sull’avidità. Ma cos’è il “triangle of
sadness” (triangolo della tristezza) del
titolo? È quella piccola porzione della nostra
fronte, poco sopra le sopracciglia. Muscolo
che i modelli e le modelle irrigidiscono per
sembrare sexy quando si mettono in posa. Al centro di questo ‘triangolo
della tristezza’ Östlund inserisce
tutte le derive paradossali della società
capitalista: le sue regole rigide, la sua impostazione gerarchica e classista, i suoi pregiudizi,
le sue assurdità. Quasi una ricerca
sulla bruttezza dietro la presunta bellezza. Ne risulta un’opera divertente e graffiante
apologo dai tempi comici impeccabili, una satira
sociale sui diversi personaggi: dai vacui influencer, agli arricchiti oligarchi e trafficanti di armi. Una crociera di super lusso
molto cafonal e quando tutto comincia ad andare storto, il film esplode
in una grandinata di travolgente
satira umoristica sul potere dei soldi, sull’ostentato agio della loro bolla dorata che che il regista svedese fa
continuamente scoppiare. Ma la discussione si arresta in quanto mancano ancora all’appello dei possibili outsider fra
i quali Hirokazu Kore-Eda in gara con Broker/Les bonnes etoiles, Claire Denis con Stars at Noon e Lukas Dhont con Close. In totale altre sette pellicole
compresi l’iraniano Saeed Roustaee con Leila’s Brothers, il portoghese Albert Serra
con Pacification e l’ivoriano Léonor
Serraille con Un petit frere.
Al termine della maratona, ultima riunione di giuria la sera di venerdì 27, unanime la delusione per Kore-Eda nella sua trasferta coreana dove firma un’operina esile e dal sapore vagamente tradizionalista e reazionario in cui l’unico vero riferimento indicato nel film è la famiglia tradizionale con padre e madre. In Broker/Les bonnes etoiles, a tratti imbarazzante, spicca soplo l’attore di Parasite il gioviale Song Kang-ho. Anche Lukas Dhont, dopo la bella prova di Girl, non è all’altezza delle aspettatiove con Close dove narra, con risvolti autobiografici, i sofferti travagli ormonali di due tredicenni e la loro amicizia molto “close”. Ma Cannes segue e alleva il suo vivaio di giovani talenti e nel cuore del Festival il regista belga Lukas Dhont sembra prendere il posto lasciato dal franco- canadese Xavier Dolan ormai avviato ad una sua carriera.
Infine,
dopo un’ampia e articolata discussione, la giuria AFCAE all’unanimità decide di assegnare una Menzione Speciale Cinemas Art
& Essai a EO di Jerzy Skolimowski, un film la cui audacia
estetica e visione
globale ha stregato
l’intera giuria. Un’opera
moderna, ambiziosa e
creativa che aiuta a esplorare la complessità dell’umanità di fronte a un pianeta
in difficoltà. Un’esperienza cinematografica, originale, radicale
e innovativa.
Mentre il premio Cinemas Art
& Essai 2022 viene unanimemente assegnato
a Triangle of Sadness
di Ruben Östlund, un film che unisce talento
estetico ed emozione
politica. Un film
in grado di riconciliare il pubblico (anche
quello più raffinato) con il cinema in sala.
Un’opera shock, una satira
politica corrosiva che fa luce sui problemi di un mondo impazzito. Un ritratto
graffiante di una società autodistruttiva e avida che ha fatto ridere ma anche
riflettere in maniera mai banale.
Il giorno
seguente, sabato 29 maggio, Vincent
Lindon, presidente della giuria ufficiale
del 75mo Festival di Cannes,
ha assegnato la Palma d’Oro a … Triangle
of Sadness di Ruben Östlund e il premio
della giuria a EO di Jerzy
Skolimowski.
Strani
fenomeni di migrazione di massa si sono verificati al 75 Festival di Cannes. Tanti
grandi autori, tanti filmoni in programma, sale superesaurite, ovazioni ovunque
per Questo, Quello e Quell’altro. Tra i film che ho applaudito (in ordine
alfabetico) Les Amandiers di Valeria Bruni
Tedeschi, Esterno notte di Marco Bellocchio, Holy
Spider di Ali Abbasi (Premio per la migliore attrice a Zahra Amir
Ebrahimi), Marcel! di Jasmine Trinca, Nostalgia di
Mario Martone, Three Thousand Years of Longing di
George Miller, Triangle of Sadness di Ruben Östlund
(Palma d’oro)…
Lasciando stare quelli che ho fischiato, non ricordo d’aver mai
assistito in vita festivaliera mia a tanti replay quotidiani, nelle diverse
sale, de La grande fuga, il classico di John Sturges in cui
Steve McQueen scappava via dal lager nazista in motocicletta. Fughe assai
preoccupanti, ahinoi, proprio nel momento in cui media, politici e influencer
tentano a tutti i costi di ributtare il pubblico dentro i cinematografi,
persino usando l’ipnosi, oltre che i free spritz ad libitum.
Il profeta David Cronenberg ci aveva avvertiti prima di
Cannes: “Il mio Crimes of the Future vi orripilerà al
punto da farvi fuggire”. Verissimo! La noia suscitata dalle sue conferenze
cervellotiche sulla pseudo-chirurgia dei decenni a venire ci ha indotto a
scappar via, in Perù o a Zara non ricordo. Ruben Östlund, divertentissimo e
brillante fino al momento del suo last party sul Titanic, ha indotto tanti
pinguini in frac e demoiselles chic in Armani a correre a vomitare nelle
toilettes. Non sto a dirvi quanti altri film, belli, brutti e pallosissimi,
hanno incoraggiato giornalisti e pubblico a rifugiarsi di corsa, se non proprio
a Kiev preferibilmente lungo l’assolata Croisette Beach.
Nell’attesa snervante del Lido di Venezia, ove gli
organizzatori lungimiranti della 79a Mostra ci garantiscono fin d’ora per fine
agosto filmoni e autoroni tutti a prova di La noia, il virus
letale esorcizzato da Alberto Moravia temporibus illis.
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