Diario di un giurato di campagna
di Andrea Crozzoli
Nel 2021 grazie alla pandemia, in Italia abbiamo avuto complessivamente poco meno di 25 milioni di presenze al cinema (con un calo del 12% rispetto al 2020 e del 74,6% rispetto al 2019). Sempre nel 2021 la Francia ha totalizzato, invece, 96 milioni di presenze al cinema, con un più 47% rispetto al 2020. Lo slancio della ripresa delle presenze in sala nei cinema d’oltralpe si è accentuato a fine 2021 con il mese di dicembre che ha registrato quasi 21 milioni di presenze.
In un mese, quindi, i francesi hanno avuto quasi le stesse presenze di un anno di cinema in Italia. Tutto ciò evidenzia l’ottimo stato di salute delle sale francesi e quindi del potere che l’esercizio cinematografico riesce ad esercitare in Francia.
Non per nulla Cannes è praticamente l’unico dei grandi festival cinematografici a rifiutare ogni contaminazione con le piattaforme. Anche il buon Tom Cruise, tornato sulla Croisette a distanza di quasi quattro decadi con il nuovo Top Gun: Maverick, ha pubblicamente ribadito il suo amore per la sala cinematografica e la sua avversione per le piattaforme dichiarando testualmente: «Non succederà mai che i miei film non vadano in sala.».
Forti quindi dei quasi cento milioni di presenze annue, i gestori delle sale francesi riuniti nell’AFCAE (Associazione Francese Cinema Art Essai) hanno chiesto, da qualche anno, al direttore del Festival di Cannes Thierry Frémaux, uno spazio per approntare una qualificata giuria e premiare un film d’Art e d’Essai da promuovere poi nelle sale francesi. Dopo cinque edizioni del premio, per il 2022 hanno voluto dar maggiore peso e prestigio al premio rendendo la giuria internazionale. Infatti quest’anno sono stati chiamati a ricoprire il ruolo di giurati, oltre ai francesi Caroline Grimault dello storico cinema Katorza di Nantes ed Emmanuel Papillon del Louxor di Parigi, anche Daira Abolina dello Splendid Palace di Riga in Lettonia, Mohammad Lansari, direttore della Cinémathèque di Tangeri in Marocco ed il sottoscritto. Lavoro impegnativo e di grande responsabilità quello della giuria in un Festival importante come Cannes, che nel 2022 è ritornato alle sue date abituali (maggio) ed agli antichi fasti in presenza dopo due anni pandemici di sospensione.
Da mercoledì 18 a venerdì 27 maggio si sono susseguiti in maniera incalzante ben 21 film della selezione ufficiale in concorso spalmati nei dieci giorni, molti con una durata di oltre due ore. Negli interstizi non sono mancate tre riunioni di giuria, sparse lungo il percorso, per discutere su quanto si vedeva scorrere sullo schermo. Gli inviti alle proiezioni erano gestiti direttamente dall’AFCAE che consegnava i biglietti quotidianamente per il giorno seguente, con proiezioni previste alle 8.30 del mattino, ma anche nel pomeriggio o alla sera, quando bisognava ‘obbligatoriamente’ indossare la “tenue de soirée” compreso il rituale “papillon”. Un ritmo serratissimo ha caratterizzato quindi questa 75ma edizione del Festival di Cannes.
Già alla prima riunione, concordemente, si è stabilito di concentrare la nostra attenzione, non tanto, ovviamente, sui gusti personali, ma su quei film, sempre d’art e d’essai, che potessero richiamare il pubblico in sala. La ricca e variegata selezione, operata da Frémaux, tutte anteprime mondiali, comprendeva tra gli altri: gli habitué di Cannes come i fratelli Dardenne con Tori et Lokita tenera e tragica storia di due giovani di colore in cerca di integrazione nell’odierno Belgio; l’altro habitué di Cannes Arnaud Desplechin con Frere et soeur, ovvero un’insieme di tormentati vizi privati della borghesia francese con una Marion Cotillard fin troppo struggente; altra scoperta di Cannes il regista Tarik Saleh, svedese di nascita ma di origine egiziana, che in Boy from Heaven racconta, in maniera serrata, una storia di corruzione e delitti in una scuola coranica egiziana. Come non pensare al caso Regeni difronte agli intrighi e politica che percorrono il chiuso mondo islamico; il giallo Holy Spider/Les nuits de Mashhad dell’iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi che racconta la tribolata indagine di una giornalista (la bravissima Zar Amir- Ebrahimi) per incastrare un serial killer che voleva ripulire la città santa di Mashhad dalle prostitute. Ne ucciderà 16 prima di venir assicurato alla giustizia. Un thriller tratto da un fatto realmente accaduto che il regista usa per raccontare soprattutto la precaria e vituperata situazione della donna in Iran.
Alla seconda riunione di giuria, con due terzi dei film (14 su 21) già visti, l’attenzione unanimemente si è concentrata su quattro titoli che in vario modo corrispondevano alle caratteristiche che ci eravamo prefissati: EO dell’ottantaquattrenne cineasta polacco Jerzy Skolimowski, titolo onomatopeico per indicare il verso dell’asino protagonista del film. Un asino di razza grigia sarda, che viene trasportato dalla Polonia all’Italia, compiendo un singolare viaggio fra varia umanità. Un film visionario, con l’occhio dell’animale su cui il regista fa riflettere paura e curiosità, mai odio o risentimento, riservati quest’ultimi agli umani. Una toccante metafora autoriale su come l’umanità sia destinata al suicidio. Altro film che si era imposto all’attenzione, R.M.N. del rumeno Cristian Mungiu, titolo ermetico che sta, sia come consonanti di Romania, che per Risonanza Magnetica Nucleare. Mungiu con la sua perfetta e conosciuta regia autoriale evidenzia come i problemi del suo paese sia analoghi a quelli di un qualsiasi altro paese europeo: ovvero la resistenza mista a diffidenza verso l’altro, verso chi viene da fuori, con gli inevitabili conflitti che si innescano quando l’identità viene messa in discussione. Magistrali i 17 minuti di camera fissa sull’assemblea popolare che si svolge nel paesello rumeno per decidere che cosa fare.
Altro titolo preso in considerazione Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi, con gli allievi dell’omonima scuola di teatro diretta da Patrice Chéreau negli anni ottanta. La regista, italiana ma di adozione francese, racconta con forza e verità i suoi inizi, le sue aspirazioni, i suoi timori e firma uno dei suoi film più belli e sinceri. Chéreau in Francia è una figura iconica sia nel teatro che nel cinema.
Quarto
titolo che aveva colpito l’intera giuria in maniera favorevole: Triangle of
Sadness di Ruben Östlund,
regista dissacrante e ironico (già premiato con una Palma d’Oro nel 2017 per The Square) che firma una sarcastica metafora sull’avidità. Ma cos’è il “triangle of
sadness” (triangolo della tristezza) del
titolo? È quella piccola porzione della nostra
fronte, poco sopra le sopracciglia. Muscolo
che i modelli e le modelle irrigidiscono per
sembrare sexy quando si mettono in posa. Al centro di questo ‘triangolo
della tristezza’ Östlund inserisce
tutte le derive paradossali della società
capitalista: le sue regole rigide, la sua impostazione gerarchica e classista, i suoi pregiudizi,
le sue assurdità. Quasi una ricerca
sulla bruttezza dietro la presunta bellezza. Ne risulta un’opera divertente e graffiante
apologo dai tempi comici impeccabili, una satira
sociale sui diversi personaggi: dai vacui influencer, agli arricchiti oligarchi e trafficanti di armi. Una crociera di super lusso
molto cafonal e quando tutto comincia ad andare storto, il film esplode
in una grandinata di travolgente
satira umoristica sul potere dei soldi, sull’ostentato agio della loro bolla dorata che che il regista svedese fa
continuamente scoppiare. Ma la discussione si arresta in quanto mancano ancora all’appello dei possibili outsider fra
i quali Hirokazu Kore-Eda in gara con Broker/Les bonnes etoiles, Claire Denis con Stars at Noon e Lukas Dhont con Close. In totale altre sette pellicole
compresi l’iraniano Saeed Roustaee con Leila’s Brothers, il portoghese Albert Serra
con Pacification e l’ivoriano Léonor
Serraille con Un petit frere.
Al termine della maratona, ultima riunione di giuria la sera di venerdì 27, unanime la delusione per Kore-Eda nella sua trasferta coreana dove firma un’operina esile e dal sapore vagamente tradizionalista e reazionario in cui l’unico vero riferimento indicato nel film è la famiglia tradizionale con padre e madre. In Broker/Les bonnes etoiles, a tratti imbarazzante, spicca soplo l’attore di Parasite il gioviale Song Kang-ho. Anche Lukas Dhont, dopo la bella prova di Girl, non è all’altezza delle aspettatiove con Close dove narra, con risvolti autobiografici, i sofferti travagli ormonali di due tredicenni e la loro amicizia molto “close”. Ma Cannes segue e alleva il suo vivaio di giovani talenti e nel cuore del Festival il regista belga Lukas Dhont sembra prendere il posto lasciato dal franco- canadese Xavier Dolan ormai avviato ad una sua carriera.
Infine, dopo un’ampia e articolata discussione, la giuria AFCAE all’unanimità decide di assegnare una Menzione Speciale Cinemas Art & Essai a EO di Jerzy Skolimowski, un film la cui audacia estetica e visione globale ha stregato l’intera giuria. Un’opera moderna, ambiziosa e creativa che aiuta a esplorare la complessità dell’umanità di fronte a un pianeta in difficoltà. Un’esperienza cinematografica, originale, radicale e innovativa.
Mentre il premio Cinemas Art & Essai 2022 viene unanimemente assegnato a Triangle of Sadness di Ruben Östlund, un film che unisce talento estetico ed emozione politica. Un film in grado di riconciliare il pubblico (anche quello più raffinato) con il cinema in sala.
Un’opera shock, una satira
politica corrosiva che fa luce sui problemi di un mondo impazzito. Un ritratto
graffiante di una società autodistruttiva e avida che ha fatto ridere ma anche
riflettere in maniera mai banale.
Il giorno seguente, sabato 29 maggio, Vincent Lindon, presidente della giuria ufficiale del 75mo Festival di Cannes, ha assegnato la Palma d’Oro a … Triangle of Sadness di Ruben Östlund e il premio della giuria a EO di Jerzy Skolimowski.
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